Rappresaglia. Nell’immaginario collettivo creato dal
“mito resistenzialista”, all’udire
questa parola appare l’immagine di un plotone di tedeschi che fucilano 10
innocenti civili italiani per ogni loro camerata morto.
In realtà la rappresaglia fu attuata da tutti gli eserciti
che combatterono nella seconda guerra mondiale, come ricorda anche Gianni
Alasia, attuale esponente di Rifondazione Comunista: “Quando il mio amico Heinz
Karl M., di Monaco, militare della Wehrmacht, fu fatto prigioniero in Francia,
visse momenti tremendi. Vennero fatte decimazioni, e Carlo non capiva il perchè
di una cosa così terribile mentre erano inermi prigionieri.”[1]
La rappresaglia era ammessa dal Diritto internazionale del
tempo di guerra di Ginevra, a patto che ad eseguirla fosse un regolare esercito
(in divisa) che fosse stato attaccato da terroristi (non in divisa). Essa
poteva avvenire, qualora non si fossero presentati i colpevoli, su prigionieri
o su civili, esclusi donne e bambini, colpevoli di aver protetto i terroristi.
Sia i terroristi che chiunque avesse ucciso prigionieri, fuori dai casi
previsti, alla fine del conflitto doveva essere processato per crimini di
guerra. Questo in Italia non accadde. Chi
ordinò uccisioni non giustificate dal Diritto Internazionale, se partigiano, fu
ricompensato con l’inquadramento tra i graduati nell’Esercito e con titolo alla
pensione.
8 agosto 1944, ore 9 del mattino, a Milano in Piazzale
Loreto angolo viale Abruzzi esplode una bomba posta sul sedile di un camioncino
tedesco che rifornisce di latte le famiglie. Muoiono nell’esplosione sei bimbi,
una donna e due giovani padri. Tredici i feriti gravi, sei di loro moriranno il
giorno dopo. Il bilancio finale sarà di 15 morti, 7 feriti gravi e una decina
di feriti leggeri. Nessun tedesco muore nell’attentato ma l’efferatezza è tale
che il Comando germanico chiede di procedere ad una rappresaglia in misura di
uno per uno. Non tutti sono d’accordo. Il prefetto, Piero Barini, si dimette.
Mussolini interviene e protesta con violenza. Anche il cardinal Schuster
interviene. Malgrado ciò al mattino del 10 agosto in piazzale Loreto un plotone
della Muti fucila quindici persone sospettate di aver rapporti con i partigiani
e per questo da tempo incarcerate a S. Vittore. Ed ecco che scatta
immediatamente la rappresaglia partigiana, infatti lo stesso giorno da parte
della Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi
viene impartito l’ordine alle formazioni partigiane di fucilare militari
fascisti e tedeschi loro prigionieri nella misura di tre ad uno .
"Per rispondere agli efferati delitti che i
nazifascisti compiono a Milano.....1)Passare per le armi i prigionieri
nazifascisti attualmente in vostro possesso; 2) Tali esecuzioni devono essere
comunicate e popolarizzate segnalando che vengono eseguite come
rappresaglia degli eccidi di Milano; 3) Se tali eccidi si ripetono le
esecuzioni in massa di nazifascisti prigionieri dovranno essere immediatamente
eseguite ”.
Verranno fucilati 30 prigionieri fascisti e 15 tedeschi,
probabilmente dalle Divisioni Ossolane di Cino Moscatelli, in quanto molti di
loro erano stati catturati in massa, su alcuni treni , qualche tempo prima, dai
partigiani dell’Ossola. Un risvolto drammatico è dato dal fatto che Mussolini
ed i gerarchi uccisi a Dongo verranno esposti, il 29 aprile 1945, a Piazzale
Loreto per “vendicare la fucilazione di 15 patrioti”.
Purtroppo la prassi di fucilare prigionieri a seguito
dell’uccisione di partigiani fu costante in tutte le formazioni.
Un elenco di contro rappresaglie eseguite è contenuto in una
lettera del 12 ottobre del 1944 della Delegazione Lombardia del Comando
Generale delle Brigate Garibaldi. Un’altra lunga serie di rappresaglie
partigiane viene effettuata nel Biellese, se ne trova traccia nel libro “La
Resistenza nel Biellese” di Poma e Perona. L’ordine di “prendere fascisti”
militi o civili da trattenere come ostaggi per scambi di prigionieri, piuttosto
che per fucilarli per rappresaglia viene diramato dai vari Comandi. Così il
Comando della 3a Divisione Liguria può permettersi di comunicare,
il 25 agosto 1944 , che a seguito del " processo del Tribunale
Speciale contro trentun italiani....per ogni fucilazione ordinata dal
tribunale, verranno fucilati 2 ostaggi che si trovano in nostre mani”.
Si trattava di funzionari e agenti di PS e ufficiali e militi della GNR. Per la
fucilazione di due partigiani avvenuta a Varzi, il Comando della 3a divisione
Lombardia “Aliotta” ordina che ciascuna delle brigate dipendenti proceda alla
fucilazione di 2 prigionieri, mentre dopo la fucilazione di 5 partigiani sulla
piazza di Ivestria, la brigata Baltera risponde fucilando 20 SS tenute come
ostaggi.
Anche la prassi di stampare ed affiggere manifesti
minacciando le rappresaglie non fu prerogativa delle truppe dell’Asse, infatti
si legge in un manifestino bilingue diffuso dalla divisione partigiana Serafino
della Val Chisone: “Soldati tedeschi
....i vostri comandanti erano stati avvertiti che per ciascun nostro caduto
avremmo ucciso tre di voi. Oggi informiamo voi stessi della decisione...”. Ma
un manifesto del CLN del Piemonte, del 27 settembre 1944, alza la
posta: "Alle persecuzioni risponderemo con le persecuzioni. Alle
rappresaglie con le rappresaglie. Per ogni patriota ucciso cadranno
cinque nazifascisti; per ogni villaggio incendiato cinquanta traditori verranno
passati per le armi". E non erano minacce a vuoto. Infatti il 12 dicembre
1944, dopo l’uccisione di Duccio Galimberti, il Comando regionale Militare del
Piemonte emana il seguente ordine: “Passare per le armi cinquanta banditi
delle Brigate Nere per vendicare la morte del comandante Tancredi
Galimberti”. La vita di Galimberti valeva dieci volte di più del minacciato.
Ma c’e già chi passa all’escalation e si prepara ad uccidere
anche i familiari di tedeschi e fascisti. Così scrivono, il 28-12-44, i
“compagni responsabili” a Pietro, commissario politico della 5a zona
Cuneese:". Se i nazifascisti
uccidono per rappresaglia dei pacifici cittadini dovremo passare alla
controrappresaglia sui fascisti, tedeschi e anche le loro famiglie." .
Purtroppo anche stavolta alle intenzioni seguirono i fatti.
Nei libri resistenzialisti delle fucilazioni eseguite per
controrappresaglia dai partigiani non si trova che qualche traccia, molto ben
mascherata, né la stampa o la pubblicistica di destra ha mai approfondito
questo tema. Cosicché ancora oggi ci sono ignoti non solo la maggior parte
degli episodi, ma anche il numero ed il nome degli uccisi. Che martiri sono,
almeno quanto quelli delle Fosse Ardeatine. A questo proposito è emblematico un
episodio accaduto in Piemonte, nelle Valli di Lanzo.
Nel gennaio 1994 mentre ristrutturava la sua casa alla
periferia di Cantoira, in Alta Valle di Lanzo, Pierino Losero ritrova uno scheletro. Nasce un
caso di cronaca di cui si occupano non solo i giornali locali, ma anche La
Stampa di Torino. Si fanno vari esami e varie ipotesi: dai resti di un
guerriero medioevale ad un caduto della Prima Guerra Mondiale. Finché una lettera anonima spedita a La
Stampa, e pubblicata il 18/1/1995 non svela il mistero.
“Le ossa ritrovate un anno fa hanno un nome e cognome:
Werner Teschendorff, ufficiale tedesco della Wehrmacht, nato a Dusseldorf nel
1922. La lettera anonima ha dato
ragione a chi pensava ad una vittima della lotta di liberazione. " Nel marzo o aprile del 1944- comincia il primo
foglio - mi trovavo distaccato come partigiano GL in una baita sopra
Chialamberto, lì ci vennero affidati tre prigionieri tedeschi dal comando
garibaldino di Pessinetto" In quei giorni venne catturato dalla milizia
repubblicana Battista Gardoncini, che venne poi fucilato a Torino, in piazza
Statuto. Di conseguenza al gruppo partigiano del mittente, che ora abita nell'
Albese, arrivò l'ordine immediato di fucilazione per rappresaglia per i tre
prigionieri. Il comandante Pedro
Francina tentò più volte di far annullare l'ordine recandosi al comando di
Pessinetto. Fu tutto inutile, i tre tedeschi dovevano essere passati per le
armi. Due di loro, graduati e richiamati nell'esercito, furono fucilati in
località "Alpe Crot", sopra Chialamberto. Poi il racconto si fa più
intenso: "Erano dei bravi ragazzi con i quali avevo fraternizzato, ...con
il cuore gonfio di tristezza e rimorso...lo guardavo mentre scriveva le sue
ultime volontà...fu trasportato a Cantoira dove fu fucilato e seppellito in una
vecchia casa. Aveva 22 anni, era laureato in botanica, doveva sposarsi di lì a
poco, morì dignitosamente gridando "Viva la Germania".
Quello che la lettera anonima non dice è che Werner
Teschendorff fu uno dei centoventi prigionieri fucilati per vendicare la morte
di “Battista”, ce ne dà conferma, in
modo sibillino, Gianni Dolino capo partigiano delle Valli di Lanzo : “Battista, comandante delle Valli, e Pino suo
commissario vennero catturati a Balme il 29 settembre e fucilati il 12 ottobre
‘44 con sette compagni, in via Cibrario a Torino, presso l’albergo Tre
Re. Il comandante della Piazza di Torino, colonnello Schmidt, rifiutò l’offerta
di 120 uomini (tra i quali ufficiali tedeschi) della delegazione Garibaldi,
tramite la Curia, in cambio di Battista. ......Pietà l’è morta: pagheranno
i 120 offerti in cambio! .[2]
Durante la guerra civile il CLN non risparmiò certo
sulla pubblicità da dare alle rappresaglie eseguite. Tranne a farne sparire, a
guerra finita, ogni traccia. In nessun libro ho sinora trovato una sola
riproduzione dei tanti manifesti in cui si annunciavano le rappresaglie
eseguite. Per certo, d’altronde, il 15 ottobre 1944 la Delegazione della
Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, annuncia in un
manifesto che ad un eccidio nel Pavese si è risposto con la fucilazione di 8
prigionieri, a quello di 15 patrioti in provincia di Varese con quella di 45
nazifascisti, mentre l'Unità del 8-ottobre-44 dà la notizia della
fucilazione di 35 prigionieri in risposta all'uccisione di 7 partigiani.
Pubblicità fu data, non sappiamo per certo con quale strumento, all’uccisione
di un tenente fascista il 19-10-44, effettuata dalla Divisione autonoma De
Vitis, per rappresaglia contro l'uccisione di un partigiano e alla fucilazione
di Luigi Bevilacqua, Luigi Gallo Marchiando, Michele Pozzi e del capitano
Aurelio Quattrini, tutti della G.N.R., catturati l’11 marzo mentre eseguivano
un trasloco di mobili, ordinata, il 23 marzo 44 , dal capo partigiano Marcellin
a seguito di una rappresaglia tedesca a Pomaretto.
Alcune rappresaglie portano inequivocabilmente la matrice
della vendetta come quella eseguita dai partigiani a Collegno. In quella
cittadina, alle porte di Torino, a “liberazione” avvenuta, il 1°maggio 1945 i
tedeschi della divisione corrazzata del Generale Schlemmer, mentre si ritirano, vengono attaccati dai
partigiani che sparando dai tetti uccidono due soldati. I tedeschi sospendono
la ritirata, rastrellano le strade ed il mattino seguente, non essendosi
presentati i responsabili, fucilano trenta tra civili e partigiani. Quando i
tedeschi sono lontani ricompaiono i partigiani che si recano alla Brignione,
una fabbrica nelle vicinanze; dentro vi
sono trenta giovani della Divisione Littorio, nativi di Cremona e Mantova,
nascosti lì, dopo la resa, da un certo Ruchelli, impietositosi dalla loro
sorte. Vengono massacrati tutti e trenta assieme agli studenti Tino Di
Fullo e Remy Maccani, accusati di essere fascisti. Anche nella zona di Santhià,
i tedeschi, che cercano di aprirsi un varco verso oriente, tra il 28 e 29
aprile, provocano morti, i partigiani per vendetta fucilano a Vercelli un
egual numero di prigionieri fascisti.
Sono i giorni di Caino, i giorni in cui il giornale
Il ribelle, organo della IV divisione partigiana Pinan-Chichero, scrive:
"Non basterà colpire l'idea, bisognerà colpire chi si è
macchiato servendo l'idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre
epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli
integralmente, disinfettare l'aria infetta.... l'eliminazione dovrà colpire
migliaia di fascisti ed i colpiti saranno sempre pochi. Non arrestiamoci per
sentimentalismo o per stanchezza"
la stessa “filosofia“ viene ribadita con più autorità da
Giorgio Amendola sull’Unità del 29 aprile, di Torino:
"Torino è il centro di direzione e di organizzazione di
tutto il Piemonte. Il CLNP esercita la sua funzione di governo e coordina e
dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi gruppi di banditi neri sono
ormai fuorilegge.....Pietà l’è morta! ...E’ la parola d’ordine del momento. I
nostri morti devono essere vendicati tutti. I criminali devono essere
eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Solo così potremo finalmente
marciare avanti. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato
nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l'ora questa di
abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa per cui abbiamo
lottato. Pietà l'è morta!”
La strage è iniziata, gli ostaggi non servono più. Per
essere certi che nessun fascista resti in vita, la 1a Divisione autonoma Val
Chisone "A. Serafino", già citata ,emana le Disposizioni sul
trattamento da usarsi contro il nemico :
”...Trasmetto gli ordini ricevuti dal CVL...gli appartenenti
a tutte le truppe volontarie (fasciste) sono considerati fuori legge e
condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche per i feriti di tali
reparti trovati sul campo...in caso si debba fare dei prigionieri per
interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre
ore. firmato: Il Comando di Divisione.”
Si è alla strage autorizzata. Ma torniamo alle rappresaglie,
in particolare a quelle eseguite dai tedeschi e fascisti. Già oggi qualche
storico ipotizza, a seguito di ricerche svolte, che molte rappresaglie
venissero provocate appositamente per indurre la gente ad odiare i tedeschi ed
i fascisti, ed anche per liberarsi di alleati “scomodi”, così come una
ricostruzione dell’attentato di Via Rasella può fare concretamente dedurre.
“I comunisti sapevano che l'attentato era assolutamente
nullo da un punto di vista militare. Sapevano con assoluta certezza che a
quell'attentato, a quel tipo di azione sarebbe seguita una rappresaglia. E' altrettanto
indubbio che sapevano che le vittime sarebbero state scelte fra i prigionieri
antifascisti incarcerati a Roma. I dirigenti del PCI sapevano che circa
centotrenta tra ufficiali del Centro Militare Clandestino e uomini di vari
partiti non comunisti si trovavano nelle mani della polizia
tedesca. L'attentato di via Rasella venne compiuto all'insaputa dei
responsabili della lotta clandestina della
capitale..........Nulla da stupirsi dunque che uno degli
obiettivi, se non il vero obiettivo, fu quello di eliminare alleati che
al disegno del PCI si opponevano: E' fuori discussione, infatti, che l'unico
vero risultato raggiunto, con l'eccidio di via Rasella, fu il
totale massacro di scomodi alleati che vennero così trasformati in altrettanti
comodi martiri al servizio del partito comunista italiano.[3]
Lo stesso Indro Montanelli, nel 1983 ,così riassunse
l'attentato:" L'attentato fu inutile, perché a chiunque risultava chiaro
che la liberazione di Roma era questione di settimane, poi perché prese di mira
un reparto di anziani territoriali alto-atesini e scatenò la
rappresaglia"...da più parti fu sottolineato che "gli ostaggi
fucilati erano in maggioranza antifascisti ma non comunisti”
La stessa strategia sembra aver suggerito l’uccisione di
Ather Capelli. Al mattino del 31 marzo ‘44, vengono arrestati nel
Duomo di Torino e sulla piazzetta antistante i componenti del Comitato
Piemontese del CLN, in maggioranza badogliano; alle ore 13 dello stesso giorno,
due gappisti, Sergio Bravin e Giovanni Pesce, uccidono a revolverate, dentro
l’androne di casa, il direttore della Gazzetta del Popolo, Ather Capelli.
L’omicidio darà il via alle rappresaglie a Torino e contribuirà notevolmente
alla richiesta “di condanna esemplare” che porterà, nonostante gli interventi
del Federale Solaro e del prefetto Zerbino per evitarla, alla condanna a morte
del generale Perotti e di altri sette membri del CLN Piemontese, catturati
.
Ma non è solo il caso dell’attentato di Via Rasella o di
Torino. Così Liano Fanti, autore del libro
"Una storia di campagna. Vita e morte dei fratelli
Cervi", in una intervista a La Stampa :
"Il Pci ha fatto dei fratelli Cervi una bandiera, in
realtà il partito reggiano li aveva emarginati con l'accusa, sostenuta fino
alle soglie dello scontro violento, di essere "anarchici" che
non avevano assimilato le linee del partito....Il partito rifiutò ai Cervi la
copertura di una delle tante "case di latitanza" (nascondigli che
ospitavano i compagni che erano in pericolo o stavano per essere scoperti dal
nemico) proprio nel momento di massimo pericolo, per i Cervi il rifiuto fu fatale”. Questi
fatti si trovano anche nella Storia della Resistenza reggiana di Guerrino
Franzini. Dopo la cattura dei Cervi era stato emanato l'ordine di non compiere
attentati per non mettere in pericolo la vita degli arrestati. Ma qualcuno non
rispettò l'ordine e il 17 dicembre '43 uccide il primo seniore della
Milizia Giovanni Fagiani. I fascisti minacciano ritorsioni, ma non fanno nulla. Il 27 dicembre un
gruppo partigiano uccide il segretario comunale di Bagnolo in Piano, Davide
Onfiani. Non passano più di 12 ore e la rappresaglia colpisce i fratelli Cervi.
Nel 1980 Osvaldo Poppi, che con il nome di
"Davide" era membro del Comitato Militare, in una lettera inviata
all'Anpi di Reggio Emilia ha scritto che non aveva potuto fare con i
Cervi quello che nel '44 aveva fatto nel Modenese con Giovanni Rossi, un
partigiano refrattario ad accettare la linea del partito. Testualmente: “..non
avevo potuto eliminarli in virtù della loro "grande statura morale
".
Come si può comprendere molte sono ancora le cose da portare
alla luce di quello che fu definito il “secondo Risorgimento”, ma ciò a cui più teniamo è che tutti coloro
che ebbero il torto di morire per essersi schierati con la parte perdente
o più semplicemente per colpa dell’ odio, non cadano nell’oblio voluto da una
storiografia bugiarda.
Anche il “nuovo revisionismo resistenzialista”
dell’ultimo libro di Pansa - I nostri giorni proibiti- non ci trova
d’accordo laddove la morale di fondo è quella dei vecchi partigiani
che, invitano Marco, figlio di un loro
compagno misteriosamente ucciso, a smetterla di cercare la verità, ma soprattutto
ad abituarsi a non sapere.
[1] (Gianni Alasia in Le ville dei pescecani-Ed Coop.
Cultura LorenzoMilani-Torino,1990,pag.78)
[2] (Gianni Dolino- Partigiani in Val di Lanzo-ed. Franco
Angeli- Milano, 1989,pag.117) [3](-Pagani-Cooper-Kunz-MARZO 1944- pag
86 e seg . vedi anche Adriano Bolzoni- Quando uccisero la pietà- supplemento al
Borghese n°11 del 17-3-91-).
Fonte: visto su L’ALTRA VERITÀ
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