lunedì 30 settembre 2013

NONNO PERCHE GLI IMPRENDITORI E I DISOCCUPATI ITALIANO SI SUICIDANO…




Nonno perché gli imprenditori e i disoccupati italiano si suicidano mentre il goverono REGALA miliardi alle banche?

Perché  ce lo chiede l’Europa  tesoro!



Fonte: da Facebook 

CARO LETTA, UN IMPRENDITORE NON VUOL ESSERE UN PARASSITA






di MATTEO CORSINI

“Deve essere chiaro che in Italia, chi ha soldi, se li investe per creare lavoro lo Stato lo aiuta, se li mette nella rendita finanziaria lo Stato non lo aiuta”. In una sola frase Enrico Letta è riuscito a condensare concetti tanto oggettivamente falsi quanto non condivisibili, almeno dal mio punto di vista. Letta sostiene che chi investe soldi e crea lavoro riceve aiuti dallo Stato, mentre se li mette in una non meglio definita “rendita finanziaria” no. A parte il linguaggio da socialismo tardo ottocentesco, ciò non è affatto vero.

Il fisco è notoriamente più rapace nei confronti del reddito di impresa che in quello da attività finanziarie, ancorché dal 2011 il salasso sia aumentato anche su quest’ultimo. Quanto agli aiuti per chi crea lavoro, suppongo che a Letta sfugga il metodo di determinazione della base imponibile dell’Irap (voluta dal suo allora collega di governo Vincenzo Visco), che include il costo del lavoro. Non mi mare di aver sentito propositi di cancellazione o anche solo di modifica dell’Irap da parte del presidente del Consiglio. Ma che un politico per tirare l’acqua al proprio mulino stravolga la realtà non deve stupire. Il fatto è che, se anche Letta dicesse il vero, penso ci sarebbero buoni motivi per non condividere quegli aiuti. Chi investe in un’attività imprenditoriale non lo fa per creare lavoro, lo fa per ottenere un profitto. In un libero mercato ottiene un profitto chi soddisfa la domanda dei consumatori meglio dei concorrenti. L’assunzione di personale è una conseguenza dell’espansione dell’attività aziendale, che dipende dal successo dell’impresa ed è duratura solo se tale successo si consolida nel tempo.

Un imprenditore, se non vuole essere un parassita, non necessita di aiuti da parte dello Stato (a spese dei suoi concittadini, ovviamente), né li chiede. E’ tuttavia evidente che dallo Stato si aspetterebbe per lo meno di non essere ostacolato e vessato. L’esatto contrario di quanto accade da ormai molto tempo in Italia. Quanto alla cosiddetta “rendita finanziaria”, l’idea che lo Stato colpisca i “rentier” è una giustificazione (patetica) per coprire il fatto che il grosso del gettito viene dalla tassazione dei risparmi (spesso non cospicui) di persone i cui redditi sono già stati soggetti a Irpef. Ciò detto, lo Stato usa lo strumento fiscale per distorcere le scelte di allocazione da parte dei risparmiatori. E’ notorio che i titoli di Stato e i prodotti postali (azienda statale al 100 per cento) sono soggetti ad aliquota fiscale pari al 12,5 per cento, mentre gli strumenti finanziari emessi da emittenti privati sono tassati al 20 per cento. Letta lo sa?


Fonte: srs di MATTEO CORSINI. Visto su L’Indipendenza del 27 settembre 2013

CINQUE IMPRESE SU OTTO CHIEDO PRESTITI IN BANCA PER PAGARE LE TASSE




Cinque aziende su otto chiedono prestiti in banca per pagare le tasse.
E’ uno degli ultimi risvolti della crisi nel nostro Paese. In particolare, segnala l’ufficio studi di Unimprese, oltre il 62% delle micro, piccole e medie imprese italiane e’ stato costretto a ricorrere a un finanziamento per onorare le scadenze fiscali.  E c’e’ l’Imu (imposta municipale unica) in cima alla lista dei balzelli che hanno spinto gli imprenditori a rivolgersi agli istituti di credito. Quanto ai settori produttivi, sono gli operatori turistici (per gli alberghi), le piccole industrie (per i capannoni) e la grande distribuzione (per i supermercati) quelli maggiormente esposti con le banche a causa dei versamenti fiscali sugli immobili e, piu’ in generale, per tutti gli adempimenti con l’Erario.

Oltre 76.200 pmi associate a Unimpresa hanno chiesto soldi alle banche, nel primo semestre di quest’anno, per rispettare le scadenze tributarie. Oltre all’Imu, e’ l’Irap l’altra tassa che mette in difficolta’ gli imprenditori italiani, tenuto conto che l’imposta regionale sulle attivita’ produttive si paga anche quando i bilanci sono in perdita. Tre, in particolare, i comparti dell’economia del Paese letteralmente “strozzati” dal tributo immobiliare. Gli ostacoli maggiori sono stati riscontrati per le categorie che basano piu’ di altre la loro attivita’ imprenditoriale proprio sugli immobili. Si tratta degli operatori turistici (con i proprietari di alberghi in cima alla classifica), delle piccole industrie e delle fabbriche (per i capannoni) e del comparto della grande distribuzione organizzata (per i cosiddetti supermercati).

“Tutto cio’ genera un triplo effetto negativo sui conti e sulle prospettive di crescita delle aziende”, spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. “Il primo e’ l’apertura di linee di credito destinate a coprire le imposizioni fiscali invece di nuovi investimenti, il che limita la natura stessa dell’attivita’ di impresa. Il secondo problema sorge, poi, alla chiusura degli esercizi commerciali, quando il valore degli immobili posti a garanzia dei ‘prestiti fiscali’ va decurtato in proporzione al valore dell’ipoteca, con una consequenziale riduzione degli attivi di bilancio. Il terzo ‘guaio’ e’ relativo a eventuali, altri finanziamenti per i quali l’impresa deve affrontare due ordini di problemi: meno garanzie da presentare in banca e un rating piu’ alto che fa inevitabilmente impennare i tassi di interesse”.
“Pur ribadendo una contrarieta’ di fondo a qualsiasi innalzamento dei tributi, potremmo dare il nostro assenso a un eventuale scambio fra l’innalzamento dell’aliquota Iva dal 21% al 22% controbilanciato pero’ da un taglio del cuneo fiscale”, aggiunge Longobardi. Secondo il presidente di Unimpresa, “l’inasprimento della tassa sui consumi e’ pericoloso e corre il rischio di frenare le flebili speranze di ripresa economica. Tuttavia, potrebbe essere considerato il male minore rispetto a un concreto intervento sulle tasse a carico di aziende e dipendenti. Intervento che avrebbe un doppio effetto positivo: alleggerire i bilanci delle imprese e aumentare le disponibilita’ delle famiglie, che potrebbero cosi’ far fronte a un aumento dei prezzi consequenziale al rialzo dell’Iva”.


Fonte: visto su L’Indipendenza del 25 settembre 2013


L’ITALIA NON RIMBORSA NEMMENO L’IVA E FA FALLIRE LE AZIENDE




Mentre prosegue il confronto politico sull’aumento di un punto dell’Iva, l’Italia finisce nel mirino della Commissione Ue per la lentezza dei rimborsi dell’imposta alle aziende che ne hanno diritto. Un fenomeno che contribuisce anche a determinare il fallimento di imprese che devono già fare i conti con la crisi e i ritardi nei pagamenti dei crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione. A decidere di incalzare l’Italia su questa delicata materia è stato il commissario Ue responsabile per la fiscalità, Algirdas Semetas. Il quale, dopo mesi e mesi di scambi di lettere e informazioni tra Bruxelles e Roma, ha deciso di rompere gli indugi e proporre l’apertura di una procedura d’infrazione che, secondo quanto appreso dall’Ansa, il collegio dei commissari approverà mercoledì prossimo e renderà pubblica giovedì.

«Anche quando le imprese vantano un diritto incontestabile ad ottenere il rimborso dell’Iva già pagata – hanno spiegato  fonti della Commissione – l’operazione avviene generalmente, nella migliore delle ipotesi, solo due anni dopo la presentazione della relativa domanda. E spesso il pagamento slitta ulteriormente a causa della mancanza di fondi in tesoreria». Ed anche il termine massimo di quattro anni fissato dall’amministrazione italiana per effettuare i rimborsi appare, come ha già avuto modo di stabilire la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, «irragionevolmente eccessivo».

Da qui l’iniziativa assunta dalla Commissione, che contesta all’Italia la presunta violazione di alcune delle disposizioni della direttiva 112 del 2006 in materia fiscale. Ma anche l’aver messo in campo norme che – consentendo l’accesso a una corsia preferenziale per i rimborsi in casi ‘eccezionali solo alle aziende già attive da almeno cinque anni – discrimina e certamente non incentiva la nascita di nuove iniziative. Nel complesso, si osserva poi a Bruxelles, si è in presenza di un sistema che contribuisce a fare dell’Italia il Paese con la più alta quota di Iva dovuta e non incassata. Mercoledì quindi Bruxelles, salvo colpi di scena, procederà a dare l’ok all’invio all’Italia di una lettera di messa in mora, primo passo di una nuova procedura d’infrazione che potrebbe concludersi – ma i tempi sono lunghi – con il deferimento alla Corte di giustizia Ue.


Fonte: visto su L’Indipendenza del  23 settembre 2013


DIMENTICA IL CARTELLO CON GLI ORARI,
NEGOZIO MULTATO DI OLTRE MILLE EURO


Adriano Marchiori e la figlia Margherita


Prima dei clienti sono arrivati i vigili. E la multa. Mille euro.Stangata a un pizzeria per asporto, sconsolati i due titolari:
«Perché non avvisare invece colpirci così?»

di Maurizio Dianese

MESTRE - Prima dei clienti sono arrivati i vigili. E la multa. Mille euro. Motivo? Recita il verbale di vigili urbani che il titolare della "Ciclopizza" di piazzale Leonardo Da Vinci «non rendeva noto al pubblico l’orario di effettiva apertura e chiusura dell’esercizio mediante cartelli o altri mezzi idonei di informazione». 


Mamma mia, non aver scritto gli orari vale esattamente 1.032 euro più 28 euro e 40 centesimi di spese per un totale di 1.060,40. Se si paga subito.
Ma - dicono i due titolari della Ciclopizza, Michele Pirredda e Adriano Marchiori - non sarebbe meglio in un caso come questo che il vigile ci avesse fatto notare che ci eravamo dimenticati del cartello? Così ci spezzano la schiena. Tra l’altro il cartello c’era, ma non era completo».



Fonte: visto su Il Gazzettino.it
Link: http://www.ilgazzettino.it/nordest/venezia/dimenticano_il_cartello_con_gli_orari_negozio_multato_di_mille_euro/notizie/325984.shtml




DIMENTICA IL CARTELLO CON GLI ORARI, MULTATO CON 1000 EURO.  HAN FATTO BENE!

di LEONARDO FACCO

Non voglio farla particolarmente lunga stavolta, anche perché il fatto – di cui vi riporto la cronaca del Gazzettino  - è simile a quello accaduto ad un altro pizzaiolo ligure a luglio e ad una gelataia a fine agosto.

Innanzitutto la cronaca, risalente a 4 giorni fa: “Prima dei clienti sono arrivati i vigili. E la multa. Mille euro. Motivo? Recita il verbale di vigili urbani che il titolare della “Ciclopizza” di piazzale Leonardo Da Vinci «non rendeva noto al pubblico l’orario di effettiva apertura e chiusura dell’esercizio mediante cartelli o altri mezzi idonei di informazione».
Mamma mia, non aver scritto gli orari vale esattamente 1.032 euro più 28 euro e 40 centesimi di spese per un totale di 1.060,40. Se si paga subito. Ma – dicono i due titolari della Ciclopizza, Michele Pirredda e Adriano Marchiori - non sarebbe meglio in un caso come questo che il vigile ci avesse fatto notare che ci eravamo dimenticati del cartello? Così ci spezzano la schiena. Tra l’altro il cartello c’era, ma non era completo»”.

Ora il commento, che ripeterò – d’ora in avanti – ogni qualvolta un imprenditore chinerà la testa di fronte ad ingiustizie palesi, ed ingiustificate, come questa.

Sono anni che scrivo che le tasse sono un furto e che quel che combinano oggi le truppe cammellate statali (dalle Fiamme Gialle agli Equitalioti fino ai vigili urbani in servizio permanente) non sono che il conseguente, logico comportamento di uno Stato aguzzino, ladro, satrapo, infernale e assetato dei soldi dei contribuenti. Nei paesi civili – e la storia ce lo rammenta – basterebbero una pressione fiscale e un sistema tributario oppressivi la metà di quello italiano per mettere mano ai forconi. In Italia non funziona così. Bisogna prenderne atto. La democrazia tricolorita, frutto della “Costituzione più bella del modo”, è riuscita perfettamente nell’intento di metterci l’un l’altro contro – trasformandoci in una massa di miserabili questuanti, che implorano al padrone del vapore di essere clemente – al punto tale che a fronte di una sanzione come quella sopra, la gelataia non sa far altro che pietire lo spostamento di 15 giorni della “chiusura forzata” della sua attività e il pizzaiolo non sa che pronunciare un fantozziano “abbiate pietà”.

Circondati come siamo da “rivoluzionari da osteria” è giunto il momento che ognuno di noi si metta in salvo come può e con chi può.
Non solo è inutile parlare di libertà ad uno schiavo che pensa di essere un uomo libero, ma – lo ribadisco con forza – un gregge di pecore sta bene solamente se tosato a puntino.
Come diceva quella buon’anima di mio nonno – che aveva in uggia gli italiani – chi fa da sé fa per tre!


Fonte: Visto su L’Indipendenza del  22 settembre 2013