giovedì 31 maggio 2018

MULINO DI PALASIO




Isola della Scala.  Il Mulino del Palasio si trovava lungo il fiume Tartato all'altezza di Via Degli Emili. Il nome deriva dal fatto che annesso al mulino vi era un altro edificio attualmente visibile percorrendo la via. In alcuni documenti del '500 viene indicata la presenza di quattro ruote da macina; sul finire del '500 venne aggiunta una pila da riso.

A partire dai primi anni del '900 la Privilegiata Impresa Einstein gestita dai fratelli Rudolf e Hermann Einstein, padre del più noto premio nobel Alfred, installò un generatore che sfruttava la forza del fiume per la produzione di energia elettrica. 



Mappa contenuta nel registro generale dimostrante i beni soggetti a Decima realizzata nel 1804, foglio Z, conservato presso l'Archivio Parrocchiale di Isola della Scala




Iscrizione che ricorda la ristrutturazione del mulino ad opera di Giuseppe Schioppo avvenuta nel 1758

Ubicazione: Isola della Scala,  Via Emilei, Mulino del Palasio

Oggetto: Restauro del manufatto.   
Data: 1758

Iscrizione: 

NOB
IOSEPH SCLOPPVS
A FVNDAMENTIS CONSTRVCTA
ANNO DOMINI MDCCLVIII
[...] PRIVS CADENS
ERAT






PRIVELEGGIATA  IMPRESA  DI  EINSTEIN 




Hermann Einstein 


Lungo il fiume Tartato all'altezza di via Emili si trova un antico mulino. Nei primi anni del '900 Rudolf e Hermann Einstein installarono, all'interno di questo mulino, un generatore che mosso dalla forza delle acque del fiume produceva energia elettrica.




Delibera del Comune di Isola della Scala per la concessione alla ditta Hermann Einstein dell'illuminazione pubblica. La delibera, conservata presso l'archivio comunale, reca la data 11 aprile 1900. 

Riportiamo il testo:

Concessione del permesso di impiantare in Isola della
Scala una Officina per la produzione e distribuzione
dell'energia elettrica a precipuo scopo della illuminazione
pubblica del Capoluogo di detto Comune d'Isola della Sca-
la, e Concessione in appalto del servizio di illumina-
zione delle vie e piazze pubbliche del paese d'Isola della
Scala fatta dal detto Comune al sig. Hermann
Einstein fu Adamo di Milano via Bigli N°21,
rappresentante la ditta Einstein e C., per la durata
di anni 20 (venti) a partire dal giorno in cui la detta
illuminazione sarà inaugurata e pel canone annuo di
Lire Duemilaottocentosettanta/£2870 che il Comune vorrà
pagare in rate trimestrali posticipate.


Il Comune firmò l'11 aprile 1900, per mezzo del Sindaco, Cav. Dante Fogarini, "la concessione per impiantare una officina per la produzione e distribuzione dell'energia elettrica a precipuo scopo della illuminazione pubblica del Capoluogo d'Isola della Scala e Concessione in appalto del servizio di illuminazione delle vie e piazze pubbliche del paese [...]". La durata della concessione era di 20 anni per un canone annuo di lire 2.870.







Uno dei primi contratti per la fornitura di energia elettrica, che reca la data del 2 aprile 1901, venne sottoscritto dall'Abate di allora don Vincenzo Manfredi per l'illuminazione del complesso Abbaziale: erano previste sei lampade per la Canonica, quattro lampade per la Chiesa e due lampade per la sagrestia; il contratto prevedeva che le lampade fossero tutte da 25 candele ma che potessero essere momentaneamente sostituite con lampade da 32 candele in occasione di feste particolari. La corrente, fornita esclusivamente per l'illuminazione, era erogata dal tramonto all'alba. Presso l'archivio Parrocchiale è conservato sia il contratto per la fornitura di energia elettrica sia una bolletta; il costo era fisso commisurato al numero delle lampade e pertanto non si pagava, come oggi, l'effettivo consumo.






Hermann Einstein era il padre del più noto Albert Einstein ideatore della teoria sulla relatività generale; Albert soggiornò per un periodo a Isola della scala, ne è la prova una lettera che lo stesso Einstein scrisse al Prof. Salvatore Antonucci del dipartimento di fisica di Pavia nel 1951. 
La lettera riporta:"[...] una volta ho accompagnato lì a Isola della Scala il mio caro padre".1


1 Pasotto L., Grazie per aver rinfrescato il vecchio ricordo di Isola, pubblicato da L'Arena, 25/11/1986, Verona.



Fonte:  da  www.csrnet.it



VENDUTO IL MULINO DEL PALASIO.   L’HA COMPRATO L’ENTE FIERA




L’Ente Fiera ha completato l’acquisto dell’antico mulino del Palasio, la struttura di origine medioevale affacciata su via degli Emili, che per la sua collocazione sul fiume Tartaro in prossimità del Palariso, non solo rappresenta il naturale completamento dell’area fieristica, destinata in futuro ad ospitare anche un parco del riso, ma fa parte del patrimonio storico, culturale e affettivo del paese.

Il mulino entra infatti a pieno titolo nella storia locale: esisteva già nel Quattrocento e alla fine del Cinquecento aveva quattro ruote da macina e una pila da riso, le cui tracce si sono perse; nella seconda metà del Settecento era il più antico, quanto a struttura, dei tre opifici da macina attivi in paese; agli inizi del Novecento era stato utilizzato per azionare il primo impianto di illuminazione pubblica del paese da Rudolf ed Hermann Einstein, titolari di un’impresa di impianti elettrici, rispettivamente zio e padre di Albert, lo scienziato della teoria della relatività che in quell’occasione li aveva accompagnati.

Nonostante il suo valore storico, il mulino fu abbattuto nel 2009 per far posto ad un complesso residenziale di dodici appartamenti, che però non è mai stato realizzato per il fallimento dell’impresa costruttrice.

Così, chiuso il cantiere, l’area è stata abbandonata al degrado e i fabbricati sono finiti all’asta in due lotti nell’ottobre scorso, quando fu aggiudicato solo il primo, relativo ad una parte dell’immobile, ad un privato. Il secondo lotto, la parte più consistente del mulino, era andata di nuovo all’asta all’inizio di febbraio ed era stata acquistata dall’Ente fiera per meno di 38mila euro. Ora l’Ente, recependo gli indirizzi del Consiglio comunale, ha chiuso l’accordo di compravendita del primo lotto con il privato, per un valore di circa 20mila euro.

L’acquisto riguarda anche un’area parcheggi adiacente all’edificio e quella dove in futuro potrebbe sorgere un nuovo ponte per la fiera, alternativo a quello di via Bastia, 800 metri quadrati di superficie a disposizione dei progetti di Ente Fiera e Comune. 

«Il completamento dell’acquisto renderà il bene, una volta recuperato, concretamente fruibile», spiega l’amministratore unico di Ente Fiera Alberto Fenzi. «Il mulino del Palasio potrà diventare così la porta reale e simbolica della Fiera del Riso e ci aiuterà a raccontare ai nostri visitatori un pezzo di storia importante di Isola della Scala».

«L’amministrazione ha compiuto un’ operazione eccellente, grazie alla quale il patrimonio comunale si arricchisce notevolmente, sia in termini economici che di prestigio culturale», sottolinea il sindaco Stefano Canazza. «Ora porremo particolare attenzione ai progetti di recupero affinché l’anima dell’edificio venga rispettata anche nella sua nuova funzione». 

«A breve è previsto un incontro con il Consorzio di Bonifica Veronese per valutare l’opportunità di creare un museo dell’Acqua al Palasio», aggiunge il vicesindaco Michele Gruppo, assessore ai Lavori pubblici, «abbiamo allo studio anche un’area espositiva dedicata al riso e ad altre produzioni eccellenti dell’agricoltura veronese».

Mariella Falduto


Fonte: da L’arena di Verona del  18 agosto 2017










mercoledì 30 maggio 2018

E= mc2 : "TUTTO MERITO DEL VENETO OLINTO DE PRETTO

Olinto De Pretto



E=mc2: "Tutto merito  dello  scledense   Olinto De Pretto"

La tesi di un docente di matematica dell'Università di Perugia, ripresa dal quotidiano britannico "The Guardian"

MILANO - L'equazione della relatività di Einstein non sarebbe, in realtà, di Albert Einstein, bensì di un matematico autodidatta italiano, Olinto De Pretto. La sconcertante rivelazione arriva dal serissimo giornale inglese “Guardian” che già otto anni fa aveva raccontato la genesi della celebre formula della relatività (il tempo e il movimento sono relativi alla posizione dell’osservatore, se la velocità della luce è costante), altrimenti conosciuta come E=mc2 (l’energia è uguale al prodotto della massa per il quadrato della velocità della luce) e che nell'edizione di martedì scorso ha riproposto la controversa questione circa la primogenitura dell’equazione forse più famosa al mondo.

Stando a quanto si racconta, il 23 novembre del 1903 l'italiano De Pretto, un industriale di Vicenza con la passione per la matematica, avrebbe pubblicato sulla rivista scientifica Atteun articolo dal titolo “Ipotesi dell’etere nella vita dell’Universo”, in cui sosteneva che “la materia di un corpo contiene una quantità di energia rappresentata dall’intera massa del corpo, che si muovesse alla medesima velocità delle singole particelle”.
 Insomma, la celebre E=mc2  spiegata parola per parola, anche se De Pretto non mise la formula in relazione con il concetto di relatività, ma con la vita dell’universo.

Secondo la ricostruzione fatta dal professor Umberto Bartocci, docente di Storia della matematica all’Università di Perugia, questo difetto nell’impostazione di De Pretto sarebbe stato il motivo per cui inizialmente il significato dell’equazione non venne capito. Solo successivamente, nel 1905, lo studioso svizzero Michele Besso avrebbe avvisato Albert Einstein del lavoro svolto due anni prima da De Pretto e delle conclusioni alle quali era arrivato, che il geniale fisico e matematico avrebbe poi fatto sue, senza tuttavia attribuire alcun merito all’italiano.

Questa, ovviamente, è la tesi di Bartocci, alla quale il professore ha dedicato pure un libro, pubblicato nel 1999 da Andromeda: Albert Einstein e Olindo De Pretto – La vera storia della formula più famosa del mondo, dove viene appunto spiegata la teoria della “contaminazione einsteiniana” ad opera di De Pretto, morto nel 1921. «De Pretto non scoprì la relatività – ha riconosciuto Bartocci – però non ci sono dubbi sul fatto che sia stato il primo ad usare l’equazione e questo è molto significativo. Sono anche convinto che Einstein usò le ricerche di De Pretto, sebbene questo sia impossibile da dimostrare». Nel corso degli anni ci sono poi state altre polemiche circa i contributi scientifici che avrebbero permesso ad Einstein di scoprire e rendere pubblica la rivoluzionaria formula nel 1905 e fra questi, particolarmente importanti si dice siano state le ricerche del tedesco David Hilbert.

Sembra, però, impossibile porre fine alla controversia e nemmeno Edmund Robertson, professore di matematica dell’Università di St.Andrew, è riuscito nell’intento: «Una grande parte della matematica moderna è stata creata da gente a cui nessuno ha mai dato credito, come ad esempio gli Arabi – ha raccontato Robertson al Guardian - Einstein può avere preso l’idea da qualcuno, ma le idee stesse arrivano da ogni parte. De Pretto merita sicuramente credito per gli studi che ha svolto e il contributo che ha dato, se queste cose si possono provare. Ma ciò non toglie, comunque, che la genialità di Einstein resti indiscutibile». Il dubbio persiste, le polemiche pure, la sola certezza è proprio quell’equazione E=mc2, di cui tutti, almeno una volta, hanno sentito parlare.


Simona Marchetti


Fonte: dal Corriere.it del 13 aprile 2007




ALBERT EINSTEIN E OLINTO DE PRETTO: LA VERA STORIA DELLA FORMULA PIÙ FAMOSA DEL MONDO







Con una nota biografica a cura di Bianca Maria Bonicelli e il testo integrale dell’opera di O. De Pretto “Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo”. … per comprendere la teoria della relatività senza “matematismi”, per analizzare alcuni dei meccanismi con cui funziona la “comunità scientifica”…

"Il libro di Umberto Bartocci, Albert Einstein e Olinto De Pretto: La vera storia della formula più famosa del mondo (Bologna, Andromeda, 1999) rischia di diventare ancora più raro delle opere di De Pretto se l'editore non si affretta a ristamparlo. Il libro in questione fa parte della collana La storia impossibile, è un libro just in time , cioè stampato appena in tempo, in tempo per essere salvato.

È un po' il destino di quei libri che gli editori non ritengono adatti alla pubblicazione e che senza questa formula non riuscirebbero mai a vedere la luce. I manoscritti cadrebbero nel dimenticatoio, con il passare degli anni andrebbero persi in un trasloco o per colpa di qualche parente distratto. Vengono i brividi a pensare a quanti romanzi, a quanti saggi o a quanti lavori scientifici è stato negato anche il semplice venire alla luce.

Di certo la storia è stata scritta anche da mani sconosciute, delle quali a volte non è rimasta la benché minima traccia. Ed è quanto mai eccitante seguire queste orme misteriose. In un prossimo futuro - e può suonare quasi come una beffa - il libro di Bartocci potrebbe essere conteso da bibliofili alla ricerca di testi originali e profetici, testi che non hanno segnato un'epoca al momento della loro silenziosa uscita, ma l'hanno fatto a posteriori, in quanto anticipatori di verità divenute tali solo in futuro, talvolta a distanza di molti anni. Per questo motivo lo conservo gelosamente.

È una semplice brossura editoriale in ottavo, con la copertina nera su tutti i lati. Il volto di Einstein e il fungo atomico che campeggiano sul fronte sono due simboli molto chiari del concetto espresso dalla formula più famosa del mondo.

Prima di quel libro Bartocci aveva tentato - inutilmente - di far accettare per la pubblicazione un lavoro a quattro mani, con Marco Mamone Capria sullo stesso argomento. La rivista scientifica alla quale aveva indirizzato il manoscritto lo rifiutò, in maniera cortese ma inappellabile. Tutte queste difficoltà derivano dalla responsabilità che si porta dietro il nome di Albert Einstein.

Ancora troppo grande e fulgida è la sua stella per poterla offuscare senza esporsi brutalmente alle critiche dell' ortodossia scientifica. Einstein non può essere messo in discussione, non ancora, almeno.

Forse un giorno nuove concezioni del mondo della fisica ridimensioneranno le sue teorie, ma al momento resta un pilastro inamovibile, poco meno che intoccabile. Per questo motivo nessuna rivista che vuole costituire una voce degna di nota nell'ambito accademico oserebbe ospitare un intervento decisamente "contro corrente" che non sia suffragato da prove certe e inconfutabili circa un dubbio - sia pur sfumato - sulla paternità della formula più famosa del mondo. È logico che il problema, al momento attuale, non può essere presentato che a livello di congettura. Non è ancora dimostrabile, se mai lo sarà, che Albert Einstein lesse il lavoro di Olinto De Pretto e che, soprattutto, ne trasse ispirazione. Forse l'unica strada praticabile è quella di concentrare le attenzioni sulla figura di Michele Besso, che era amico di Einstein e collegabile a De Pretto. Einstein conosceva l'italiano, tenne anche delle conferenze nella nostra lingua.

La scienza sembra non volersi rendere conto che De Pretto, questo oscuro agronomo vicentino, forse ispirò il grande scienziato. Magari si tratta di elementi formali, non decisivi, dato che il concetto di etere non sembra essere applicato alla teoria della relatività, ma di sicuro la frase che compare nel lavoro di De Pretto del 1904 (un anno prima della pubblicazione di Einstein negli Annalen der Physik dei suoi due celebri lavori) è esplicativa al riguardo: 
"La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall'intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [ ... ] 
La formula mv2 ci dà la forza viva e la formula mv 2/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=l e v uguale a 300 milioni di metri, che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l'etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni"


Fonte: da macrolibrarsi.it 


domenica 27 maggio 2018

SELFIE




Mi manca, mi manca qualcosa. Ah, già! voi avete pensato subito a qualche rotella. È probabile. Mi manca però un racconto che li riunisca un po’ tutti quanti e che si accordi con il primo che parla di mia madre. Ho trovato!  Con la scusa di descrivere un episodio che ha come protagonista un mio amico, colgo l’occasione per parlare un po’ di me.

 Guerra permettendo, ricordo d’essere stato per qualche mese all’asilo: quello che c’è in fondo a Via Volturno. Ve lo immaginate un selvaggio campagnolo in grembiulino azzurro, colletto bianco e con un cestino di vimini per la merenda? Ebbene, quello ero io. E già lì, mi tolsero braghette e mutandine e mi diedero una scaldata da farmi passare la voglia di sedermi. Più che il male, fu la rabbia che la maestra avesse fatto vedere il mio pistolino (1) alle bambine.

 Sempre a causa della guerra, le aule delle prime classi elementari erano state sistemate nei locali del chiostro della chiesa di Sant’Ilario; ne ricordo le porte con le loro maniglie d’ottone dove un giorno m’attaccai e scalciai perché non volevo essere espulso dalla maestra Fornari. 

Come si smise di battere i tacchi e di fare il saluto fascista, si ritornò nella vecchia sede: la Bissolati. Finalmente una scuola con aule e corridoi e che, in tempo di guerra, era stata adibita a ospedale. Bello il posto, ma triste il ricordo del  maestro Bergomi. Oltre ad avermi allungato per bene le orecchie, con due ceffoni  mi fece passare il resto della giornata dietro alla lavagna. Lui aveva messo mio fratello Vito su un alto mobile che fungeva da libreria e, in difesa del mio sangue, io uscii dai banchi e gli sferrai un calcione negli stinchi.

 Le scuole Medie furono un vero disastro. Oltre a essere bocciato, facevo talmente tribolare in casa che per due anni, in seconda e terza media, mi misero in collegio: nel collegio vescovile Sfondrati, a seicento metri da casa.

 Una volta riuscii a fuggire, ma a pochi passi da casa venni ripreso dall'economo del collegio, il signor Claudio. Che di signore aveva ben poco, visto che ci metteva in riga con delle sonore sberle. Ma ci pensate?  Insieme ai figli dei contadini ero con Lanzoni l’unico cittadino. I suoi genitori erano presi dal commercio, essendo i proprietari del Fulmine, il più grande negozio d'abbigliamento di allora, i miei erano stufi di suonarmele. Caro papà, dovevi darmene di più. Forse le sberle non raddrizzano, ma di sicuro fanno riflettere.

 Finita la terza media, andai in vacanza con mia madre a Pesaro. E lì, cominciai a perdere i capelli a ciocche. Di ritorno a casa i miei cari amici, per il fatto che fossi un contestatore e che mi pelassi, incominciarono a chiamarmi Calvino. Se qualcuno, passando da Cremona, dovesse chiedere a qualche vecchiotto di Calvino, anche se è passato quasi mezzo secolo, può star sicuro che avrà la conferma che di me si ricordano ancora.

 Mia madre addolorata e preoccupata di questa mia improvvisa caduta di capelli, dopo un po' di tempo, mi fece visitare da un dermatologo. Quel giovane meridionale stabilì ch’ero esaurito e che avevo bisogno di punture di ricostituenti. Figuriamoci!  già ero un torello. Invece di tre seghe al giorno, me ne facevo quattro.

 Un paio d’anni dopo, altra visita da un altro dermatologo. Un vero luminare! Quell’anziano dottore di Parma m’avrebbe fatto ricrescere i capelli con quaranta applicazioni di ultravioletti e quaranta stimolazioni elettriche. Quarantamila lire era il costo di questi trattamenti. Felice d’aver trovato chi mi avrebbe fatto rifiorire una bella chioma, mi consegnai con ventimila lire di anticipo e iniziai la cura.

 Mamma mia, che successo! Dopo venti applicazioni di ultravioletti, ero abbronzato come avessi trascorso una stagione al mare. Avete presente il getto doccia? Orbene, dai fori per l’acqua uscivano invece scariche elettriche che mi martoriavano il capo. Una vera tortura! Già ero scemo, e con quelle applicazioni lo divenni ancor di più.

 Visti i risultati, a metà cura mi presentai  al medico per giustificare la mia rinuncia a proseguire. Assumendo un’espressione  addolorata:

 - Dottore, non ne posso proprio più! E mi tolga una curiosità: come mai lei s’impegna a farmi ricrescere i capelli quando della stessa cura ne avrebbe bisogno pure lei?

 - Caro, ragazzo, io son vecchio, e poi ho perso i capelli a causa dell’elmetto portato per tre anni di guerra. Vedi: tu sei come questo senatore romano, accarezzando una testa d'uomo in marmo con capelli corti alla Cesare e leggermente calvo, e che faceva bella mostra di sé sulla sua scrivania.

 - Può darsi che lei abbia ragione nel dire che la mia è una malattia anche se non è alopecia. Ma io non  posso diventar matto per una semplice calvizie arrivata anzi tempo. E poi, quei quattro peli biondi in più che lei ha notato, non giustificano queste mie sofferenze.

 Ci lasciammo in santa pace. Dei due, ve l’assicuro, ero il più contento. Era finito quel tormento e mi tenevo il mio bel soprannome di Calvino. Una volta sola questo epiteto m’infastidì: il giorno che Pamela alla stazione di Pizzighettone, con una voce da carrettiere, mi salutò gridando “Calvooo!”

 Pamela oppure Pami erano i due diminutivi di come chiamavamo Epaminonda. Un botolo più piccolo di me, grassottello, con la faccia di luna piena, sempre sorridente: un caro amico dell’oratorio. Giocava al pallone in porta, dove sulle palle alte non ci arrivava mai. Anche per questo m'era simpatico.

 Di lunedì mattina, un po’ prima delle sette, prendevo il treno per andare a Pavia all’università. Un bel dì, me lo trovai che faceva il capostazione a Pizzighettone, un paese sull’Adda  a meno di trenta chilometri dalla città, e che era, dopo Cavatigozzi, la seconda fermata. Come mi vide, esplodendo di gioia mi gridò Calvooo! Con una voce grossolana e sgraziata, paragonabile solo a quella d’un vaccaro.

Stavo parlando con una raffinata e bellissima compagna d’università, di cui ne ero anche innamorato. Rabbrividii! Lo salutai con una mano, allargai le braccia, e alla mia vicina:

 - Non pensar male, quello è il mio amico più raffinato. – e sorridendo aggiunsi – Difficile averne di peggio.

 Giuro che gli avrei ficcato quel suo fischietto di capostazione, sapete bene dove.

 Per un paio d’anni lo sopportai, anche se facevo di tutto per evitarlo.

 Quindici anni fa, da mio fratello mi feci indicare dove abitava. Andai a trovarlo: volevo sapere l’indirizzo di Leo, quello spilungone che ho citato nel racconto Mago Sabino e Rucheton. Questo mio vecchio amico, dopo il diploma di geometra, era andato a lavorare all’estero e non l’avevo più rivisto.

  Chiamai Pamela al citofono. Voleva sapere chi fossi, gli risposi ch’ero un amico.

 - Ma dimmi chi sei?

 - Non posso, rovinerei la sorpresa.

 - Ma…

 - Senti: se ti chiamo per soprannome vuol dire che ti conosco. Sbrigati, e vieni giù!

 - Mi metto i calzoni della tuta e scendo.

 Arrivò sospettoso all’ingresso del condominio, dietro a lui, l’ombra della moglie. Mi riconobbe e, quando ormai del suo “Calvooo” non me ne importava più un fico, con il tono mellifluo della lusinga:

 - Ma che sorpresa! …  È il dottor Monti!

  Non sono stato all'altezza: non l'ho accoppato. 


  1.      Piccolo pene.



Fonte: srs di Enzo Monti del  12 giugno 2017 








sabato 26 maggio 2018

ICO




   Di professione pittore, Ico vive della pensione minima: avendo lavorato qualche anno per la nostra Arena dipingendo scenografie. Con la crisi, non è che i pittori se la passino proprio bene: racimolano qualche spicciolo anche se sparano certe cifre.

 Orbene, quel che è di rigore per il resto degli uomini, non vale in genere per gli artisti. Hanno i coluri equinoziali sfasati e i più vivono anche fuori dalle righe. Ma la legge, al pari della vita, non transige purtroppo, e, come spesso accade, vengono castigati.

 In casa sua son tutti artisti, gatto compreso. Figlio d’arte, oltre il metro e settanta, con un profilo da medaglia, con occhi acuti e penetranti evidenziati da folte sopracciglia, porta un taglio di capelli d'altri tempi. Cavalca la moda, anzi, l'ha anticipata senza cadere nell'esagerazione dei calciatori del giorno d’oggi. Infatti, sulle tempie e ai lati il taglio è sempre stato piuttosto corto, mentre una scriminature centrale divide i capelli se non proprio ricci almeno mossi. Veste sempre con robetta da poco, rivelando buon gusto e stile d’artista. Mi fa impazzire quando d’estate sfodera la sua tuta di jeans su camicette variopinte  che gli danno un’aria di vacanziere più che da operaio in pausa di lavoro. Lo potete incontrare in tutte le osterie che praticano buoni prezzi, e lo potete riconoscere per le saracche che tira. Alla frontiera, potrebbe essere arrestato solo per contrabbando di bestemmie.

 Grande suo amico è Faustino, anch’egli artista: un ometto pelle e ossa, più piccolo di me, con muso da volpino, capelli biondo-castani lunghi e lisci raccolti a coda. Formano una coppia formidabile. A chi è dotato d'immaginazione danno l’idea d’un cane dal pelo lungo al guinzaglio del suo padrone. Certo che di Faustino non ne ho mai sentito  la voce, in compenso, so che non abbaia.

 Un bel giorno, accadde che questa felice coppia si recasse in Valpolicella. Lo scopo della passeggiata era di liberarsi dei loro terribili mali di testa e di soddisfare le voglie d’una ben nota ostessa.

  Alle undici entrarono nel locale, si sedettero a un tavolo e ordinarono pane e salame con del vino rosso. Alla giovane cameriera che li servì, chiesero della padrona. Questa sarebbe scesa nel locale all’ora di pranzo. All’improvviso, era ritornato il marito che fa l’autotrasportatore e che sarebbe ripartito nel pomeriggio.

 Leggendo il giornale e fumando qualche sigaretta tirarono l’ora di pranzo. Ordinarono un piatto di trippe. Le stavano gustando, quando scesero nella trattoria la proprietaria con il marito che, senza dar tanto nell'occhio, andarono a sedersi a un tavolo d'angolo per desinare. La donna finse di non averli visti. Al contrario, l’uomo li degnò in continuazione di sguardi cattivi, prevedendo che quei due avrebbero pagato il conto con qualche scarabocchio, visto ormai che di tele il locale ne aveva anche in cantina.

 Dopo mezzora, la donna venne al loro tavolo facendo finta di servirli, sottovoce confidò che il marito era in attesa d’una telefonata e che poi sarebbe ripartito per l’Austria. C’era solo da pazientare ancora un po’.

 Dalle quattordici in poi si misero a giocare a carte, a scopa naturalmente. Passarono il tempo segnando  punti, fumando sigarette, e bevendo vino: tanto vino. Venne l’imbrunire. Le voglie si afflosciarono e la pazienza per l’attesa si esaurì. Decisero di far ritorno in città. Prima di salire in macchina, per rassicurare e rincuorare l’amico, Ico:

 - Adesso, andremo pian pianino, in modo da non far incidenti e per non essere fermati dalla polizia.

 Ma per quanto si presti attenzione, sia in casa, per strada o sul lavoro, la vita d'oggi è talmente complicata che state pur certi che ci si dimentica di qualcosa. E poi, cosa ci volete fare se agli sfigati capitano una dietro l'altra?  Appena fuori di Negrar, la paletta dei Carabinieri intimò loro di fermarsi. Ci voleva anche quella!

 Come il finestrino s’abbassò, l'odor di vino arricciò il naso e tolse il fiato a quel nostro bravo carabiniere che si premurò di farli scendere e di accertarsi sulle loro condizioni. Entrambi i nostri eroi facevano fatica a reggersi in piedi. Non ci fu tanto bisogno di verifiche. Gli agenti si fecero consegnare la patente e il libretto della macchina. Ancora un altro intoppo: la macchina apparteneva al fratello di Ico, insegnante all'Accademia e anch'egli pittore. Oltre alla compilazione del verbale, si sprecò altro tempo per verificare la reale appartenenza dell’auto o se fosse stata rubata.

 Multa, ritiro della patente, fermo della macchina, e poi ritornare a Negrar facendosi, in quelle condizioni, più d’un chilometro per prendere l’autobus. Quante ne tirò Ico son solo da scordare. Non è stato portato dentro per miracolo.

 Dopo essersi allontanati di cinque o sei passi dai Carabinieri, Faustino ritornò indietro e avvicinatosi a uno di loro, in tono sommesso:

 - Scusi, mi tolga una curiosità: perché ci avete fermati?

 - Andavate a fari spenti.


Fonte: srs di Enzo Monti del 28 dicembre 2016 

venerdì 25 maggio 2018

NELLE BORSE DELLE DONNE





Circa un mese fa, Il mio amico mi spedì attraverso FB un messaggio in cui chiedeva se ricordassi gli ingredienti di un cocktail che si beveva a Cremona in un piccolo bar del corso. Da che c’ero, avrebbe gradito che accompagnassi la ricetta con un piccolo racconto sull’argomento. Come si fa a non accontentare un vecchio e caro amico? È inventato di sana pianta: uno dei pochi, se non addirittura il solo.


NELLE BORSE DELLE DONNE


  Secondo voi: si può giudicare una donna dal contenuto della sua borsa e poterne anche intuire la professione?

 Da ciò che vedevo sul tavolo del negozio quando qualche donna disperata, cercando l’occhiale, la carta di credito, il borsello o il telefonino, rovesciava il contenuto sul tavolo, credevo che le donne fossero tutte uguali nel portarsi dietro la casa. Analizzando con più cura il contenuto, m’accorsi che non sono gli occhi lo specchio della loro anima, ma quello delle loro borse. Certo, che sì! Il contenuto delle  borse rivela molto di più delle cianfrusaglie che contengono, addirittura, può essere un elemento di giudizio sulle loro condizioni sociali, culturali, morali, e perché no, anche di lavoro.

 Ne ebbi la conferma a Cremona, il giorno che in compagnia di Sperangelo entrai in un bar del corso.

 Di solito, andavo a gustare un tramezzino e a sorseggiare un Ferrari da Ugo. Non potevo far diversamente, essendo legato a Ugo e alla sua famiglia da vecchi e cari ricordi. Ma un dì, sul far del mezzogiorno e sotto alla galleria, Sperangelo mi prese sotto braccio di sorpresa e:

 - Adesso , vieni con me a bagnarti il becco!

 - Ma non andiamo da Ugo?

 - No! Ti porto in un posto nuovo … Sù, andiamo!

 Scendemmo verso Corso Campi. Camminando, lui mi confessò che il vero motivo per andare in quel locale non era solo per bere un piacevole cocktail, ma per rivedere un pezzo di gnocca che, da ben tre o quattro giorni e verso quell’ora, veniva a prendersi un caffè.

 A metà Corso Campi e sulla destra, entrammo in questo piccolo bar. In fondo al locale e in compagnia d’una donna, vi trovai due uomini tra cui un vecchio amico: quello spilungone di Miglioli, che mi accolse con un sacco di cerimonie. Sperangelo ordinò un  Carlone, che non era altro che un miscuglio a base di Campari, prosecco, qualche goccia di amaro e di succo, forse pesca, il tutto servito con spruzzi di seltz.

 Gli confessai che in quel posto c’ero già stato, invitato un giorno da Mario Colace e da sua moglie Antonia, una professoressa dalla memoria di ferro e che non mancò l’occasione di chiedermi di ritorno i suoi appunti di Meccanica Razionale. Frequentando nello stesso periodo l’Università di Pavia e dovendo fare lo stesso esame, m’imprestò i suoi appunti. Che rottura! quando ti chiedono di restituire roba di tanti anni prima e soprattutto quaderni  che non hanno ormai più alcun valore, se non quello affettivo.

 Con Sperangelo, oltre a rivangare vecchi e piacevoli ricordi, m’informai sui miei amici più cari e, mentre stavo chiedendo se anche mio fratello frequentasse questo posto, mi accennò che il soggetto atteso era arrivato.

 Bella, addirittura bellissima, come prima impressione! Da capo a piedi. Il colorito, i lineamenti, i capelli corvini e raccolti, gli occhi di fuoco, le labbra carnose ne esaltavano la bellezza mediterranea. Oltre il metro e sessantacinque, in taileur grigio con gonna sopra le ginocchia, e che gambe! Poi, quello che mi fa impazzire di più: scarpe con tacco sottile e dell’otto. "Una vera libidine!", come dice il mio cliente Gerry, e non come usano al giorno d’oggi la maggior parte delle donne mettendosi quelle orribili scarpe da ginnastica che rovinano tutta l’estetica delle gambe e la siluette della persona. 

 Era appena entrata, e non aveva fatto ancora tre passi che il mio amico Miglioli gettò un urlo: 

 - El lader! – e si precipitò fuori.

 Ma nella furia, urtò la donna e la mandò a gambe all’aria. Nonostante fosse preso dal ladro, s’arrestò un attimo e, vedendo che non aveva fatto un gran danno, gridò: - Pardon!- e sparì.

 Con Sperangelo ci precipitammo ad aiutare la donna a rialzarsi. Arrivò pure l’altro uomo a porgere le scuse dell'amico. A terra rimaneva tutto il contenuto della borsa.

 C’era di tutto. Non potete immaginare quanta roba! Chiavi di casa e della macchina, borsellino e portafogli, monete, fazzoletti di carta e uno di pizzo, sigarette e accendino, passaporto e biglietti di visita, una piccola agenda, una limetta per le unghie, caramelle, un pettine, una pinzetta, un rossetto, uno specchietto, e poi … Certo che non mi aspettavo qualche santino oppure un libretto di preghiere, ma trovare tre scatole di profilattici anallergici, è stata veramente grossa. Sì, sì, preservativi! E mentre  mi aiutava a raccoglierli, Sperangelo  se ne uscì con un: 

 -  Ferri del mestiere?

 Lei arrossì. Incredibile ma vero:  arrossì. E in tono di scusa:

 - Non sono per me, sono della mia amica Anna … lei si vergogna.

 Come si riprese, l'aiutammo a rimettersi in sesto e, dopo averla rincuorata, le offrimmo il caffè. Non fu facile intavolare un discorso dopo la scoperta di quei tre pacchetti. Da parte nostra, non potevamo chiedere cosa facesse a Cremona o qualcosa di più sulla sua amica. Si parlò di locali di ritrovo, di ristoranti, di luoghi da visitare, e ci dilungammo sulle abitudini, sui pregi e i difetti dei Cremonesi.  

 Prima di lasciarci, ci si diede l’appuntamento nello stesso posto e alla stessa ora. Ci presentammo poi vicendevolmente.

 Sfoderando un sorriso malizioso e stringendoci calorosamente la mano, ci sorprese con un:

 - Piacere, Anna!


Fonte: srs di Enzo Monti del 20 dicembre 2016