domenica 31 luglio 2011

VERONA. GLI SCAVI DEL PARCHEGGIO DI PIAZZA
CORRUBIO: LA DISTRUZIONE DEL “MARTYRIA” DI VERONA

I resti della chiesa di San Zeno in Piazza Corrubio 

Visto che su L'Arena di mercoledì 13 luglio 2011 è apparso il mio nome, ritengo opportuno far conoscere «telegraficamente» ai lettori ciò che dissi alla commissione Cultura in municipio a riguardo degli scavi per il parcheggio di piazza Corrubio.

Nel 1967, in piazza San Zeno si rinvennero le prime tombe cristiane del III secolo: si era di fronte ad un «martyria» (cimitero cristiano) posto fuori dalle mura cittadine. Per legge romana  tutti i morti dovevano essere sepolti, per l'igiene, fuori dalle città.

Dal 1983, vengono restaurate le chiese di San Zeno e San Procolo e si venne a conoscere la loro evoluzione architettonica, e ciò che nascondevano nel loro interno.
La chiesa di San Procolo era la prima cattedrale (si sapeva già): un rettangolo con l'abside e all'interno tombe romane e cristiane. Della chiesa di San Zeno non vi erano novità, solo che venne costruita sul cimitero di San Procolo.

Durante gli anni 2003-2004  in via Da Vico, dietro all'abside di San Zeno, per la costruzione dei garages condominiali, si rinvennero resti archeologici importantissimi per la storia di Verona.
Una tomba preistorica dell'età del Rame di circa 5.500 anni fa, un probabile vascone in mattoni forse appartenente ad una lavanderia romana, il tutto attorniato da tombe romane; sotto a tutto vi era un possente condotto in muratura di un acquedotto, anch'esso romano, che si immetteva, forse, nell'Adige.  Sopra le tombe romane sono apparse le casette della domus zenoniana. Queste casette erano fatte di un solo locale, con pavimento in terra battuta sul quale si alzava un basso muro a secco in ciottoli dell'Adige legati con semplice argilla, poi si elevavano pareti in legno e il tetto era di paglia. Tutto questo se fosse confermato dagli addetti ai lavori sarebbe l'anello mancante alla storia della città.

La presenza della tomba preistorica direbbe che nelle vicinanze vi era un villaggio dell'età del Rame  e l'acquedotto indica che nei paraggi vi era una fonte d'acqua.  Difatti, nell'incrocio stradale tra via Torretta e via Da Vico nasce una risorgiva che dava origine al famoso Fossetto. Questa risorgiva era fondamentale per la vita del quartiere di San Zeno.  Ecco il motivo per cui non si vuole scavare sotto via Da Vico.
In piazza Corrubio era apparsa l'introvabile prima chiesa di San Zeno della quale il Papa Gregorio Magno ricordò il miracolo delle acque che non entrarono nella chiesa di San Zeno.  Questa chiesa era la fotocopia di quella di San Procolo, ma una aveva tre absidi perché, al Concilio ecumenico di Nicea, per distinguere le chiese cattoliche da quelle eretiche Ariane si decise di costruire le tre absidi: una per il Padre, la seconda per il Figlio e la terza per lo Spirito Santo.

Ma non è finita: resta da risolvere il mistero delle tre tombe o casse in piombo.  Una raccolta nella chiesa di San Zeno, la seconda ancora visibile nella chiesa di San Procolo, la terza nella distrutta chiesa di San Zeno. Teniamo presente che la salma del Beato Papa Wojtyla avevano una tripla bara di cui una in piombo

ZEVIO  15 luglio 2011
ALBERTO SOLINAS

Fonte: srs di Alberto Solinas, da L’Arena di Verona di  martedì 19 Luglio 2011,  LETTERE, pagina 17


sabato 30 luglio 2011

EUGENIO BENETAZZO. - NON UNO DI MENO

Molti lettori mi scrivono chiedendomi un mio pensiero sul tal partito politico, sul tal esponente politico o sulla tal proposta di riforma legislativa avanzata da questa o quella fazione politica. Perdono tempo, da anni ormai ho smesso di dedicare le mie energie alla critica o contestazione della politica italiana, tanto non serve a niente. Vi sono già abbastanza contenitori mediatici televisivi che dedicano interi palinsesti a questo tipo di intrattenimento: parlare o sparlare del personaggio politico cult del momento. Chi invece ha smesso di andare a votare perché ormai è disgustato dalla solita propaganda politica riscaldata (tanto a destra quanto a sinistra), sbaglia.

Chi si sente tradito dall'attuale legge elettorale che non consente più di specificare ed indicare nominativamente il candidato da cui ci vogliamo far rappresentare e per questo rinuncia alla lotta politica di resistenza e si lascia abbandonare a quel che sarà, anche lui sbaglia.
Non sono più di tanto la nostra classe politica (che rappresenta lo specchio della popolazione) o l'attuale legge elettorale i veri problemi dell'Italia.   Il nostro Paese (al pari di altri in Occidente) si trova in profonda difficoltà economica e sociale, in conseguenza del periodo di turbolenza finanziaria iniziata ormai quasi tre anni, eppure a livello politico abbiamo ascoltato sempre i soliti proclami senza mai aver visto proposte di rilancio realmente efficaci per l'economia.

La risposta a questo immobilismo politico non è conseguenza del grado di incompetenza e affarismo della nostra classe politica, né tanto meno conseguenza della eterna faida dialettica tra destra e sinistra (tanto entrambe sono le ali dello stesso avvoltoio). Il parlamento italiano è inefficace nella sua veste di organo legislativo a fronte della sua stessa composizione.
Da oltre vent'anni Camera e Senato sono composti per circa i 2/3 da liberi professionisti (soprattutto avvocati e medici). Che parte del Paese allora sono in grado di rappresentare ? Per caso ci sono nella fila di deputati e senatori anche altre figure professionali come insegnanti di scuola media, elettricisti, agricoltori, poliziotti, falegnami, interinali, autotrasportatori, macchinisti, tabaccai, ricercatori universitari, impiegati di banca, guardie forestali e aggiungete voi chi più vi sta a cuore.

Il nostro Paese non funziona proprio per questo motivo in quanto privo di una rappresentanza popolare delle professioni, dei mestieri e delle tipologie di lavoro che sono presenti massicciamente nel nostro territorio e che non sono in grado di essere assistite in quanto non vi è nessuno che può farsi portavoce delle loro problematiche in quanto chi siede in Parlamento è soggetto estraneo a quel mondo lavorativo. Non cambierà molto per l'Italia se venissero abolite le Province, accorpati amministrativamente i Comuni, congelate i vitalizi alla classe parlamentare o diminuito il numero dei deputati. Sicuramente ne beneficerà la spesa pubblica, ma il Paese non muterà il suo outlook.

Ho provato recentemente a farlo presente all'interno di una nota trasmissione televisiva, ma sono stato tosto fermato: quanto sopra rappresenta la vera chiave di svolta per un cambio epocale di governance politica ovvero l'istituzione delle Quote Professioni.  Dopo aggiungiamoci tutto il resto, sovranità monetaria nazionale, abolizione di tutti i privilegi politici, tassazione della prostituzione, detassazione degli utili reinvestiti, e tanto altro ancora (per accontentare molti sostenitori in passato scrissi il Manifesto Economico che ricevette anche notevole consenso), tuttavia senza Quote Professioni continueremmo ad avere un parlamento (magari meno costo al contribuente), ma non per questo efficiente ed eclettico, atto a soddisfare le esigenze di crescita e rilancio di un paese, come il nostro, ormai in via di sottosviluppo.

Fonte: srs di Eugenio Benetazzo, 5 luglio 2011

venerdì 29 luglio 2011

Verona. La “rete matta” dei pescatori del Garda bruciata in Piazza delle Erbe

L' edicola viscontea il "luogo dei malfattori"

Come sanno i pescatori del Garda, la “rete-matta” o «rematto» misura ben 400 metri di lunghezza e 40 di larghezza.
Oggi è in uso ufficiale in tutto il lago, ma alla fine del 1600 questa distruttrice di pesci era vietata. Lo dimostra il seguente episodio:
Nell'aprile del 1677 era stata fatta nel Garda una cattura di sardine più che eccezionale usando una rete importata dal lago d'Iseo.
A Manerba in soli tre giorni s'era fatta una pesca di sardine superiore ai 100 quintali. La nuova rete chiamata «rete matta» venne fatta oggetto di vivacissime proteste.
Il podestà di Verona aveva pubblicato proclami di proibizione inutilmente.
La mattina del 25 aprile 1677 una flotta di 16 barche guidata da un barchetto pavesato di rosso era partita da Garda alla volta di Portese.
Dicono gli atti del processo che le barche erano armate « di gente con i suoi archibugi ».
Venne catturata la rete infamata. Il 12 maggio venne processata, condannata e bruciata nella « piazza Grande di Verona» al luogo dei malfattori.
Il «luogo dei malfattori» era presso la colonnetta o edicola viscontea dove un tempo si ergeva pure la «berlina ».


giovedì 28 luglio 2011

GIRELLI EGIDIO; scultore veronese


L'angelo della preghiera del 1901, bronzo eseguito per la tomba Avanzi nel cimitero Monumentale di Verona


GIRELLI EGIDIO. - Nacque a Sommacampagna, nel Veronese, il 4 genn. 1878 da Giuseppe e Amalia Caprara; all'età di soli due anni, già orfano dei genitori, si trasferì in città forse ospite di alcuni parenti. Nel 1892 si iscrisse al corso di scultura presso l'Accademia di belle arti G.B. Cignaroli di Verona segnalandosi ben presto per le doti artistiche, confermate dalla medaglia di bronzo vinta nel 1893 al termine del primo corso di "Modellazione dei solidi, estremità, busti dal gesso e studi di anatomia". Poco dopo si iscrisse a Milano alla Scuola superiore di scultura di Brera dove ebbe modo di perfezionare la tecnica sotto la guida dello scultore Enrico Butti, conseguendo, al termine degli studi, il diploma e una medaglia d'argento. La frequentazione dell'ambiente artistico lombardo contribuì senz'altro ad avvicinare il G. alle tematiche simboliste che permeavano l'opera di alcuni maestri, come Leonardo Bistolfi, e al linguaggio di alcuni protagonisti della plastica d'Oltralpe, quali Auguste Rodin e Aristide Maillol. Nel 1899 fu nominato professore di scultura presso l'Accademia di belle arti di Verona. Agli inizi del nuovo secolo cominciò a insegnare modellato presso la Scuola d'arte Napoleone Nani di Verona, e divenne inoltre docente e direttore della scuola Brenzoni di Sant'Ambrogio di Valpolicella, carica che avrebbe ricoperto sino al 1947.

Il modellato vigoroso e l'equilibrio delle forme divennero i tratti peculiari del suo linguaggio imperniato su un realismo carico di intensità emotiva, che valse all'artista larghi consensi in ambito non solo locale: la sua carriera espositiva fu scandita, agli esordi, dalla partecipazione alle Biennali di Venezia del 1901 (Primavera della vita, gesso), 1905 (Triste abbandono, gesso), 1909 (Il bacio, gesso) e 1910 (Nella raffica, gesso), e dalla presenza nel 1910 e nel 1912 alle mostre organizzate dalla Società di belle arti di Verona. Nello stesso 1912 si classificò tra i premiati a un concorso per le porte del duomo di Milano (Un nuovo successo…). Con gli artisti riuniti intorno alla figura di Felice Casorati, trasferitosi a Verona nel 1911, fu tra i veronesi selezionati per la Seconda Esposizione nazionale di belle arti del Comitato nazionale artistico giovanile, svoltasi a Napoli in palazzo Tarsia tra il gennaio e il marzo del 1913, iniziativa maturata nello spirito di una generazione animata dall'intento di stimolare nuovi contatti tra le diverse scuole locali e di rinnovare i tradizionali schemi figurativi. Resistenza è l'opera con cui partecipò alla mostra "Pro Assistenza civica" (IX Esposizione…, ill. n. 133), allestita nell'aprile 1918 a Verona, città dove l'anno seguente, tra il 24 maggio e il 24 giugno, si sarebbe tenuta la Cispadana di belle arti, per la quale fu invitato a far parte della commissione giudicatrice. Il vivo interesse per la figura umana, spesso legato a una vena narrativa di matrice ottocentesca, sin dagli esordi dominò la produzione plastica del G. sempre imperniata su valori di armonia ed equilibrio formale. Ne sono testimonianza, tra gli altri, L'angelo della preghiera del 1901, bronzo eseguito per la tomba Avanzi nel cimitero Monumentale di Verona, in cui traspare una spiccata vena sentimentale peculiare di molte sue opere; Silhouette, busto in gesso presentato all'esposizione veronese del 1910, acquistato per l'occasione dalla Società di belle arti e poi assegnato a uno dei soci; o ancora Nella raffica, gesso esposto nel 1910 alla Biennale di Venezia e riproposto due anni dopo nella già citata mostra veronese, in occasione della quale fu acquisito da una collezione privata (IX Esposizione…, ill. n. 133).

Quest'ultimo lavoro, nel rappresentare una giovane donna mentre fugge nella bufera stringendo a sé il figlio, fu segnalato dalla critica come opera di passaggio dal "vecchio genere", ancora appesantito da spunti "un po' antiquati e retorici",  al "nuovo" ispirato alla ricerca di un dinamismo plastico in sintonia con gli impulsi futuristi dell'epoca (Spaventi).
Se inizialmente il suo impegno artistico ed espositivo sembrò aprirsi a un contesto culturale ampio, per quanto di carattere prettamente nazionale, nel corso degli anni Venti andò limitandosi sempre più all'ambiente strettamente veronese. Nel 1920 realizzò il monumento in bronzo eretto in piazza delle Erbe, presso la Camera di commercio, per commemorare le ventinove persone morte il 14 nov. 1915 a causa di una bomba lanciata dagli aerei nemici. Sempre a Verona, alla XXXIX Esposizione d'arte promossa dalla Società di belle arti tenutasi tra il 10 maggio e l'11 giugno 1925, con lo scultore Ruggero Dondè e i pittori Giuseppe Zancolli, Angelo Zamboni e Guido Farina fu invitato a comporre la giuria d'accettazione e di collocamento; ma solo nell'edizione successiva, allestita due anni dopo nella sede consueta del palazzo della Gran Guardia, fu presente con alcuni lavori, quali i busti in marmo raffiguranti il conte Gian Antonio Campostrini e la contessa Emma Campostrini Martinelli, entrambi in collezione privata. Con il ritratto di Marisa Cinciari fu invitato alla mostra del centenario della Società di amatori e cultori di belle arti, inaugurata a Roma nel dicembre 1929, l'anno stesso in cui, già membro del direttorio del sindacato degli artisti, fu scelto per far parte della commissione d'accettazione e collocamento per la XLI Biennale di Verona.

La fama e il prestigio acquisiti a Verona trovarono conferma nelle numerose commissioni ricevute per la realizzazione di sculture di carattere funebre destinate alle tombe, all'interno del cimitero Monumentale, di proprietà di alcune delle famiglie più facoltose della città; si ricordano, in particolare, quelle realizzate per i Drezza (1901), gli Avanzi (1901), i Ferrari (1907), i Tosadori (1923) e i Chiavellati (1927). Suoi sono inoltre i monumenti ai caduti inaugurati a Soave il 29 maggio 1921, a Bosco Chiesanuova il 3 sett. 1922, a Colà di Lazise il 26 maggio 1924, a Villafranca il 26 maggio 1929 (realizzato in collaborazione con l'architetto Ettore Fagiuoli) e a Zevio (1929). Nel 1925 assunse la direzione dell'Accademia di belle arti di Verona che tenne fino al 1970.

In varie occasioni fu invitato a far parte della giuria di accettazione per alcune rassegne artistiche, quali la II Sindacale d'arte tenutasi dal 13 apr. 1933 nel palazzo della Gran Guardia a Verona, in cui fu peraltro segnalato dalla critica per il Ritratto della cantante Rosa Raisa (collezione privata) in marmo di Candoglia; la I Mostra del Sindacato nazionale fascista di belle arti aperta nella primavera dello stesso anno a Firenze; la XLIV Biennale di Verona allestita nell'agosto 1934 e l'edizione successiva del maggio 1936, in cui espose due lavori in bronzo, Richiamo e Adolescente, già inviati nel 1935 alla mostra dei quarant'anni della Biennale di Venezia insieme con il ritratto di Rosa Raisa. Espose due bronzi alla IV Sindacale veronese del 1937 e un ritratto in marmo rosato nell'edizione successiva del 1939. Alla prima mostra del premio Verona, inaugurata il 1° ag. 1942 nel palazzo della Gran Guardia, una giuria composta, tra gli altri, da Felice Casorati e Marcello Mascherini, attribuì al suo Cavallo in bronzo un premio di 2500 lire, uno dei vari riconoscimenti assegnati in quell'occasione ad artisti di fama nazionale (Zorzi, p. 31). Il 23 dic. 1944 morì a Sant'Ambrogio di Valpolicella la moglie, Teresa Eugenia Andrioli, dalla quale aveva avuto quattro figli, Giuseppe, Anna, Francesco e Sergio. Solo il terzogenito avrebbe proseguito l'attività del padre, senza tuttavia eguagliarne la potenza espressiva e le doti di raffinato e forte modellatore.

Adolescente è il bronzo con cui G. partecipò alla mostra allestita a Verona tra febbraio e marzo del 1950 per celebrare il bicentenario dell'Accademia G.B. Cignaroli. Già agli inizi del secolo alcuni suoi lavori figuravano in collezioni private; ma sono pochi quelli attualmente documentati in raccolte pubbliche veronesi: un ritratto in bronzo di Achille Forti realizzato nel 1938, ora presso la Galleria d'arte moderna e contemporanea di Palazzo Forti, e un Cavallo di proprietà della CariVerona Banca riferibile anch'esso alla fine degli anni Trenta, forse lo stesso premiato nel 1942.

Il Girelli  morì a Verona il 30 aprile  1972.

Fonti e Bibliografia:
All'Accademia di pittura e scultura, in Arena, 4-5 sett. 1893; IX Esposizione internaz. d'arte della città di Venezia (catal.), Venezia 1910, n. 133; S.M. S(paventi), I veronesi alla IX Esposizione internazionale d'arte a Venezia, in Pro Verona, I (1910), 7, p. 1; Un nuovo successo del prof. E. G., in L'Adige, 3 genn. 1912; L. F(iumi), L'esposizione d'arte "Pro Assistenza civica", ibid., 9 apr. 1918; B. Barban, Il cimitero Monumentale di Verona, Verona 1928, pp. 73, 100, 102 s., 122, 124, 127, 129 s., 141, 144, 155; E. S., Una squisita opera di E. Girelli. Il monumento ai caduti di Villafranca, in Arena, 9 giugno 1929; G. C., La V mostra sindacale d'arte alla Gran Guardia, in Il Garda, I (1939), 6, pp. 347 s.; F. Zorzi, Ricognizione della mostra. Le sculture, in Verona e il Garda, IV (1942), 4, pp. 29, 31; U. Zannoni, Verona primo Novecento, Verona 1951, pp. 88, 176 s.; Fragiocondo (G.C. Zenari), Cronache montebaldine, Verona 1953, p. 39; T. Lenotti, Piazza Erbe, Verona 1954, pp. 78 s.; U.G. Tessari, In memoriam, in Vita veronese, XXV (1972), 5-6, p. 181; M. Cressoni, E. e Franco Girelli, tesi di diploma, Verona, Accademia di belle arti G.B. Cignaroli, a.a. 1988-89, pp. 60-133.


Fonte: srs di  L. Lorenzoni;  Dizionario Biografico degli Italiani, TRECCANI.IT





mercoledì 27 luglio 2011

VERONA 14 NOVEMBRE 1915: BOMBARDAMENTO PIAZZA ERBE, L'UMILE FIGURA DI DON BASSI FRA LE VITTIME DEL BOMBARDAMENTO DI PIAZZA ERBE




Piazza Erbe "piazzetta XIV Novembre" - Monumento ai caduti del 14 novembre 1915.  « figura simbolica della giustizia ultrice », opera dello scultore veronese Egidio Girelli

14 novembre 1915: fra le 8,10 e le 8,40 di quella mattina, tre aerei austriaci, tre «Tauben », apparvero nel cielo e mentre - troppo tardi - due aerei italiani si alzarono in volo, il bombardamento venne effettuato indiscriminatamente: le bombe caddero in più punti, ma lo spettacolo più impressionante era in Piazza delle Erbe.

L'allarme dato dalla T arre dei Lamberti aveva fatto accorrere la gente che numerosissima affollava la piazza, sotto il volto Barbaro e i portichetti adiacenti, oltre che sulle gradinate della Camera di Commercio. D'improvviso, un grande fragore: una bomba era caduta all' angolo di via Pellicciai, ad un metro dal primo arco della Camera di Commercio. Sul fragore dello scoppio, si udì lo scroscio delle vetrate che andavano in pezzi, sullo scroscio le grida, i lamenti dei feriti, le urla delle donne impazzite dalla paura e dalla vista del sangue che lento scorreva lungo i gradini, scendeva in rivali verso la strada. Per la prima volta nell' era moderna, Verona vedeva il sangue della sua gente scorrere per le sue strade. Sotto il porticato e all'intorno, uno spaventoso gruppo di cadaveri e di moribondi.

Ecco il racconto dell'episodio che illuminò la terribile giornata:
«Eravamo attorno alla catasta orrenda dei morti e dei moribondi, innanzi al porticato della Camera di Commercio, muti, impietriti dal raccapriccio, mentre si organizzavano i primi soccorsi. D'un tratto un giovane, robusto sacerdote, il curato di S. Anastasia, s'avvicinò a noi correndo, gettò a terra il cappello, indossò la stola e ginocchioni, carponi, piangendo a calde lacrime, singhiozzò le parole del supremo conforto spargendo l'Olio Santo su quell'informe ammasso di sanguinolenti brandelli di carni, qua e là dove pareva si delineasse una testa, un volto umano. Sulle orme della morte si inoltrava, immortale, la Fede ». Furono queste le parole del cronista de « L'Arena ». che non disse neppure il nome di don Adolfo Bassi, di colui che diverrà il santo parroco della basilica di Sant' Anastasia.

I  29 morti e 48 feriti saranno ricordati e commemorati nel 1920 elevando nella piazzetta appunto dedicata al « I4 novembre» un monumento in bronzo rappresentante la «figura simbolica della giustizia ultrice », opera egregia dello scultore concittadino Egidio Girelli. Una lampada votiva per i Caduti venne appesa nel I926 all'angolo della Camera di Commercio, di fronte alla targhetta in bronzo che ricorda il triste avvenimento.


martedì 26 luglio 2011

VERONA. LE PAVIMENTAZIONI DI PIAZZA DELLE ERBE

Il rifacimento di Piazza Erbe del 2003

La prima pavimentazione di Piazza delle Erbe l'abbiamo da una vecchia cronaca  da cui rileviamo che la nostra Piazza Maggiore fu lastricata a quadri di pietra nel 1242, sotto Ezzelino.
Passarono poi altri tre secoli ed un' altra cronaca ci narra come nel 1520 sia stato deliberato di lastricare la Piazza, concorrendo alla spesa la Città e la Camera di Commercio e con l'obbligo ai bottegai di lastricare a proprie spese un breve tratto adiacente al negozio. Il lavoro fu ultimato nel 1523.
Nel 1700 la Piazza delle Erbe era pavimentata parte a lastre di pietra, parte a mattoni e parte era nudo terreno.
Il 17 giugno 1833 il mercato di Piazza Erbe viene provvisoriamente trasportato nella vicina Piazza dei Signori  ed ha inizio la nuova pavimentazione della nostra Piazza.
I lavori però non procedono troppo sollecitamente, perché la pavimentazione risulta ultimata un anno dopo, e cioè il 9 maggio 1834.
L’ultimo rifacimento  della  piazza è avvenuto nel 2003

lunedì 25 luglio 2011

VERONA. PER IL RITORNO DEL LEONE DI S. MARCO IN PIAZZA ERBE IL «TAM - TAM » VIGOROSAMENTE PERCOSSO

25 aprile 1886:  il  ritorno del Leone  di San Marco in Piazza Erbe

Per antichissima usanza - forse d'origine romana - sui luoghi di mercato, si solevano elevare colonne e capitelli,  cosi anche Venezia, volle nelle piazze delle città e paesi a lei sottomessi la fiera insegna del Leone di San Marco.
E questa colonna fu voluta dalla città nel 1523: sul capitello sono gli stemmi del doge Gritti, del podestà Marcello, del capitano Tron e della città di Verona.
Nel 1797 il leone venne abbattuto dai giacobini veronesi, nell’euforia rivoluzionaria dei tempi nuovi; l'attuale venne rimesso il 25 aprile, festa di San Marco, del 1886.

Ma ecco come tale ristabilimento venne ricordato dai giornalisti del tempo su « L'Illustrazione popolare» del 30 maggio 1886.

«A Verona, al tempo della caduta della Repubblica Veneta, i giacobini francesi si fecero una gloria d'atterrare con schiammazzi plebei il leone alato della dominante Venezia, leone che sorgeva nella Piazza delle Erbe. In questi giorni Verona pensò bene di riparare allo stupido vandalismo di quei spregevoli padroni di ventiquattro ore, e collocò di nuovo, al suo posto il fiero, il simbolico, il glorioso Leone di San Marco.
La festa si celebrò il 25 aprile e fu bellissima.

Noi riproduciamo una fotografia dell'intiera Piazza delle Erbe nel momento della inaugurazione.
Da ogni finestra, da ogni terrazzo, da ogni balcone, pendevano arazzi bianchi, rossi, verdi, gialli, azzurri e palloncini variopinti e dietro agli arazzi s'affollavano elegantissime signore.
E non solo· si vedevano persone sui poggiuoli, sui terrazzi e alle finestre, ma persino sui granai, sui tetti. »

« A mezzodì, - scrive l'Arena, - in lontananza echeggiano le trombe. È la banda cittadina che si avanza, preceduta dai pompieri e seguita dalla rappresentanza municipale e da molte società.

« I pompieri passano, la rappresentanza municipale passa, poi succede un parapiglia indescrivibile.

« Guardie, carabinieri e vigili, vengono respinti dalla folla, e un'onda di popolo irrompe nella piazza mandando urla di trionfo.

« Sono le dodici e un quarto. Da una finestra si tira il cordone che dovrà far cadere la coperta del Leone. È un momento solenne. Tutti gli occhi guardano la cima della colonna: un silenzio assoluto regna su quel mare di teste che si perde in lontananza.

« La coperta si agita, poi cade, e mostra il glorioso Leone di San Marco, bianco come se fosse di neve, colla zampa fieramente posata sul Vangelo. Un uragano d'applausi scoppia attorno alla colonna e si propaga fino in fondo alla piazza e giù giù nelle vie adiacenti:

«- Viva il Leone di San Marco! Viva! ...

« Tutti i vicini stringono la mano al giovane scultore Poli, l'autore del Leone.

« Mille, duemila, diecimila braccia s'agitano burrascosamente e sui poggiuoli, sui terrazzi, sulle finestre, e persino sulla torre s'agitano bianchi fazzoletti. Un fragoroso squillo di trombe copre tutte quelle grida e quelle esclamazioni. Le due bande militari del 67° e 68° intuonano la marcia del maestro Ascolese che viene salutata da un vivo applauso. Fra gli squilli di trombe s'ode di quando in quando il tam-tam vigorosamente percosso ».

Fonte: da “Piazza delle Erbe”, dell’Automobile Club Veronese (fine millennio)


venerdì 22 luglio 2011

VERONA. LA TORRE DEI LAMBERTI, IL « RENGO » E LA « MARANGONA »

La Torre dei Lamberti

Le cronache di Pier Zagata ricordano:
« L'anno 1172 fu brusà tutta la città di Verona per li cittadini per la gran  parte, ch’era tra loro, et in quello anno fò fatto il fondamento della torre di Signori Lamberti, che si chiama da mo la torre delle campane sopra el Palazzo de Verona».

Tuttavia ben poco sappiamo di questi Lamberti che pur dovevano costituire una famiglia molto facoltosa per poter sopportare spese tanto ingenti.  Infatti si sa soltanto che qualcuno dei Lamberti fu podestà di Cerea dal 1202 al 1222. Detta famiglia deve essersi estinta ben presto o presto trasferita altrove.
La torre passò di  carattere pubblico forse nel 1294 allorché vi si posero due campane, di cui una, la piccola, doveva servire per il fuoco, l’altra per riunire il Consiglio o per chiamare alle armi i cittadini.
Da questa data assunse nei documenti ufficiali i nomi di « Turris Palacij Comunis Veronae » o « Turris a campanis » o « Turris major horarum».
La bella torre, alta 83 metri, non aveva orologio fino al 1779 ed in un primo tempo era di altezza modesta: la si distingue dalle linee di tufo e cotto della base. Venne innalzata fino all'altezza odierna dal 1403 al 1463.
Le due citate campane si chiamano Marangona l'una e Rengo l'altra.
L'ultima deriva palesemente da « Aringo» e sulla prima è ancora viva un’antica leggenda.

Si narra che una gentildonna, gelosa del marito, lanciasse un giorno da una finestra una grossa pietra sulla testa della presunta rivale che passava per la via al seguito di una processione. Inquisita dalla Giustizia ed essendo nobile, se la cavò a buon mercato.  Venne cioè condannata alla spesa del getto di una campana per la torre e poiché la presunta rivale era la moglie di un marongon (falegname),  quella campana fu chiamata Marangona.

In realtà il nome della campana deriva dalla Marangona di San Marco a Venezia perché anche le funzioni di questa erano quelle di segnalare le fasi di lavoro dei « marangoni» e cioè dei falegnami e degli artigiani in genere.




mercoledì 20 luglio 2011

EUGENIO BENETAZZO: TASSIAMO LA PROSTITUZIONE, PER IL “PENE” DI TUTTI.

Il nostro paese sta attraversando un momento di compromessa credibilità sulle scene internazionali, questo è dovuto non soltanto per gli episodi di gossip politico che contraddistinguono queste ultime settimane, ma soprattutto per le insuperabili difficoltà strutturali che sembra avere ormai il Bel Paese. La nuova manovra finanziaria di questi giorni ancora una volta tenta di generare nuove risorse finanziarie da utilizzare per la copertura del deficit, senza contare che di recente abbiamo anche sentito parlare di manovre lacrime e sangue, di austerità politica, di tassazione una tantum, di prelievi coatti sulle giacenze bancarie: tutte soluzioni di ripiego, contingenti, proposte politiche dell'ultim'ora nel disperato tentativo di far quadrare i conti come un mediocre contabile di impresa. 

L'Italia ha difficoltà strutturali che sono state definite insostenibili, queste considerazioni scaturiscono dalla consapevolezza di un peso dello stato sociale sempre più gravoso, dalla constatazione che il potenziale di produzione industriale si sta giorno per giorno ridimensionando, dalle preoccupazioni delle giovani generazioni che percepiscono l'Italia come ormai un paese in via di sottosviluppo. Le famose riforme di cui sentiamo parlare da decenni non verranno e non potranno mai essere implementate dalla attuale classe politica per ragioni di incompetenza e convenienza politica. La crisi del debito sovrano in Europa ha fatto emergere come possibile prossimo paese candidato a trovarsi in quarantena finanziaria sia proprio il nostro: i recenti episodi di turbolenza finanziaria che hanno colpito le quotazioni dei titoli di Stato con scadenze a medio lungo termine non sono un altro che un'anticipazione della pressione che colpirà il mondo del lavoro ed il mondo delle imprese nei prossimi anni in Italia.

Le possibili exit strategy ci portano a ipotizzare anche per il nostro paese una serie di misure volte a inasprire il disagio sociale che sta caratterizzando questi ultimi semestri. Esistono paesi in Europa che hanno dato dimostrazione di esemplare reazione a livello di elettorato: uno di questi l'Inghilterra per voce del suo Primo Ministro ha proposto le cosiddette manovre lacrime e sangue per riassestare il costo dell'amministrazione pubblica e per tentare di rilanciare l'economia dell'isola. Chi ha a cuore il destino del proprio paese in questo momento si rende conto che è arrivata l'ora della medicina amara. Per anni si è continuato a dare e a garantire tutto a tutti attraverso sistemi e meccanismi di protezionismo sociale sfrenato, adesso è arrivato il momento di presentare il conto, non è più possibile continuare a mantenere il paese ricorrendo alle solite politiche demagogiche del tutto va bene e del non preoccupatevi che il domani sarà roseo. 

Per la maggior parte degli Stati occidentali si prospetta un decennio di profondo ridimensionamento economico al quale si affiancherà un lento declino del benessere socioeconomico. L'Italia nonostante la sua situazione di criticità economica vanta ancora alcune credenziali atipiche rispetto agli altri paesi come ho avuto modo di spiegare anche all'interno di altri contesti. In quest'ottica dovrebbe essere seriamente presa in considerazione l'idea di istituire, regolamentare e tassare ufficialmente la prostituzione vista come un possibile strumento di governance economica per raccogliere ogni anno nuove risorse finanziarie da utilizzare per il contenimento della spesa pubblica o per la copertura del deficit di bilancio. La prostituzione in Italia è largamente diffusa in ogni ambito sociale anche grazie al ricorso a varie forme di adescamento clientelare, in questi ultimi anni ha sviluppato una presenza capillare in ogni contesto professionale ed imprenditoriale grazie alle potenzialità di contatto dei social network.

Fenomeni adolescenziali come il sexting o il web camming dimostrano come oggigiorno in Italia esistano centinaia di migliaia di persone che erogano prestazioni sessuali (anche virtuali) a fronte di una contropartita economica, per loro scelta personale e senza imposizione alcuna. La prostituzione in Italia potrebbe generare un gettito annuo stimato fra i 10 e 15 miliardi di euro considerando una flat tax del 25% ed un volume d'affari (che nessuno riesce a stimare complessivamente) di circa 50/60 miliardi di euro all'anno. Chi pensa che la prostituzione non venga istituita in Italia a fronte della presenza ed ingerenza del Vaticano nella vita politica del nostro paese non ha bene messo a fuoco il potenziale economico che questo “settore professionale” produce ogni anno: oltre il 30% dei proventi economici delle organizzazioni criminali è dovuto al racket della prostituzione. I primi ad essere danneggiati da un'eventuale tassazione di stato sarebbero proprio le mafie internazionali. 

Chi alla lettura di questo articolo non farà altro che denigrare il sottoscritto accusandolo di immoralità cristiana, dovrebbe farsi un esame di coscienza e rendersi conto di come la prostituzione sia che sia istituita attraverso un dispositivo di legge o imposta e gestita da attività criminali continuerà ad esistere e a manifestarsi per quanto tale in ogni luogo ed in ogni tempo. Quello che possiamo fare è sottrarre questo flusso di cassa che alimenta e rende economicamente forti le organizzazioni criminali, con lo scopo di far introitare tali ingenti somme al servizio della fiscalità diffusa (cosa che avviene in quasi tutto il mondo), Questo consentirebbe di supportare l'attività dello Stato ed evitare che in questo momento venga ulteriormente appesantita l'imposizione fiscale o vengano aumentati i prelievi ai contribuenti. Per finire, probabilmente, tutti quelli che continuano a sentirsi indignati per proposte di questa portata, probabilmente sono i primi che usufruiscono dei servizi di intrattenimento ed accompagnamento di donne e ragazze dai facili costumi. Tassiamo la prostituzione, per il pene di tutti.


Fonte: srs di Eugenio Benetazzo  del  18 luglio 2011-07-19



VERONA. I TRE SECOLI DI PALAZZO MAFFEI, L'ERCOLE... EVIRATO E, I "PERSICI" DEL '700

La balaustra di Palazzo Maffei in Piazza Erbe

La Piazza Erbe non poteva avere uno sfondo più fastoso ed elegante di palazzo Maffei.
E fu esattamente trecent'anni fa, nel 1668, che i più facoltosi banchieri veronesi, i Maffei, decisero di sostituire ai vecchi edifici  dei loro « Cambio », una unica grande e sontuosa costruzione « su disegno venuto da Roma» come ci assicura il famoso Scipione.
La più curiosa particolarità del palazzo è costituita dall'alta balaustrata adorna di statue pagane, tutte scolpite, meno una, alla maniera barocca e che rappresentano Ercole, Giove, Venere, Mercurio, Apollo e Minerva. La prima di queste, quella immediatamente a lato della Torre del Gardello, è di uno straordinario candore, perché ricavata in blocco di marmo pario, pietra notoriamente pregiata e rinvenuta gettando le fondamenta della costruzione la quale - come già accennammo - sorse su ruderi di preesistenti monumenti romani.

L'Ercole evirato di Palazzo Maffei

Ma a proposito di questo pittoresco Ercole veronese correvano, fino a tutto lo scorso secolo, curiose e piccanti storielle. Le autorità anzi, pensarono - bene o male che fosse - mutilare l'Ercole stesso di una sua vistosa parte anatomica la quale soprattutto era tema salace e spregiudicato dell'erbivendole montebaldine. Prima azione ... moralizzatrice inutilmente tentata assai più tardi con ... i cavalli non meno famosi del ponte della Vittoria!

Ma ecco come proprio il Maffei, mirando la piazza stupenda da uno dei balconi del suo palazzo, nel 1732, descrive le merci prelibate al turista che - di buon mattino - si reca a zonzo tra i « casoti »  non ancora allietati dai pittoreschi ombrelloni bianchi, ma pur tanto allietati dalla frutta più succosa e dalla verdura più rugiadosa:

« ... gioconda veduta gli si presenterà tale da non potersi per avventura di leggeri sperare altrove. I nostri persici (detti pesche dai fiorentini) sono famosi dappertutto, e ricercati da lontane parti, e di varie specie: ma il sapore e dolcezza di tutte le frutta, quando siano mature, è tanto particolare che le regioni più calde dell'Italia, nonché gli altri paesi, troverebbero da invidiare: singolarmente fichi rari, melloni (poponi dei toscani), fraghe, marostiche, verdacchi, pomi di varie specie, asparagi, carciofi di strana grandezza, marroni, tartufi d'eccellente odore, ed altre molte.   Più specie abbiamo ancora, e quali altrove non si vedono, come olive da mangiare, delle quali fin Parigi annualmente si provvede ... le pere di madama e la delicata uva garganica e la marzemina,  che non è altrove sì dolce, e  che senza dubbio è la nerissima che si soleva conservare fin dai tempi di Catullo! ».

Circa quarant'anni più tardi anche il non meno noto poeta e filosofo tedesco Volfango Goethe visitando la piazza dirà:

« Nei giorni di mercato, specie verso le ore avanti il meriggio, la folla sulla piazza è grandissima, e l'occhio si può rallegrare alla vita di vere montagne di  frutta e di legumi. Tutti gridano, cantano e scherzano per tutta la giornata: si spingono, si urtano, fanno strepito e ridono continuamente. Il clima temperato e il tenue prezzo delle derrate rendono la vita facile; e tutto ciò succede all'aria libera ».

Oggi il « tenue prezzo delle derrate» è un sogno e tutto vi è - purtroppo! - caro quanto a quei tempi le « naranze ».
Infatti, gli aranci - secondo le cronache del tempo - erano una rarità e la ragione di questo fatto curioso è appunto da ricercarsi nella scarsità e difficoltà delle comunicazioni che la nostra regione aveva con l’Italia meridionale, specie con la Sicilia che (non conoscendo ancora la concorrenza ... americana!) era la produttrice maggiore di questo caratteristico prodotto italiano.

Fonte: srs di Giovanni Solinas da “Piazza delle Erbe” a cura della  Commissione Turistica   ACI  (fine millennio)

martedì 19 luglio 2011

Verona. Piazza Erbe fine ottocento

Popolani davanti alla fontana di Madonna Verona,  dipinto di Angelo Dall'Oca Bianca

Accanto ad una colonna di marmo rosa, sulla quale il sole si arrampica con l'ora, come su un albero di cuccagna, una immensa facciata di casa, interamente dipinta a fresco, e che rappresenta scalate al cielo da parte di Antei e Enceladi, e terribili mischie di corpi giganti, affreschi, che paiono la tela michelangiolesca d'una arena di lottatori colossali, e nei quali, finestre abitate da teste viventi, fanno, qua e là, un buco in una anatomia del muro.
Abbasso, sotto ombrelloni di tela bianca, attraversati dalla luce prorompe il caleidoscopio degli scialleti e delle cuffie delle erbivendole, come fiordalisi e papaveri, sui campi verdi delle lattughe, dei porri, dei cavoli, distesi ai loro piedi. Sono erbivendole brune, con i capelli arrotolati sulle tempie, in volute che somigliano a quelle con cui la Jonin ha fatto i capitelli delle sue colonne, e sono, alcune, venditrici bionde, i cui capelli crespi e feste voli mettono intorno al loro ovale come una irradiazione piena di sole.
Molte di queste venditrici sono vecchie donne di campagna, che portano un cappello di paglia piccolo, di dove sfuggono, frammezzo a enormi pendenti d'oro attaccati alle orecchie, ciuffi liberi di capelli, i quali battono con i loro ricci grigiastri i gialli profili scultorei, che si direbbero scolpiti nel bosso.
E nel bel mezzo di questa verzura d'ortaggi, si vedono e quarti di bue sanguinanti, posati sui primi gradini di scale di palazzi in rovina; e trippaglia in vendita, sotto cui cani, senza colore e irsuti, lappano bricciole di polmone; e mostre di picchiverdi: un cibo di cui qui si è ghiotti, uccelli gialli con le teste rosse.
A parte, si vendono mazzolini di fiori, montati su grandi steli, e cose di ogni sorta e d'ogni colore, fra le quali cercano di passare asinelli carichi di fagotti, perduti nella boscaglia del loro carico.
Là, per tutta la mattina, passeggiano e errano, a fianco di vecchi italiani, dal naso rubicondo, facendo le loro spese in una sporta, nascosta sotto il mantello, le piccole borghesi di Verona, dall’ andatura languida, la testa velata dentro un pizzo bianco, la fronte convessa, gli occhi ravvicinati al naso, la bocca dalle linee tormentate: donne delicate, affascinanti di quella grazia sofferente dei Botticelli e dei Gozzoli, e che paiono, in questo nord dell'Italia, modelli, serbati viventi, dei quadri primitivi.

Fonte: srs di  Edmond e Jules de Goncourt;  da “Piazza delle Erbe”, Commissione  Turistica   ACI,  (fine millennio)

lunedì 18 luglio 2011

VERONA. BARACCA E BURATTINI IN PIAZZA ERBE


Intorno al 1840 dava i suoi spettacoli di burattini in Piazza delle Erbe, certo Giovanni Vallotto ed il « teatro» consisteva in una logora baracca a castello rivestita d'una tela rappezzata ed addossata alla colonna del leone veneziano. La rappresentazione era annunciata da un acuto insistente suono di piva che chiamava gli spettatori a prendere posto in un piccolo quadrato di panche. Fra un atto e l'altro il burattinaio girava col suo piattello raccogliendo pochi soldi e molti lazzi di scherno dalla ragazzaglia sguaiata. La quale una volta giocò questo brutto tiro al povero burattinaio: fu tirata una fune dalla baracca ad una carrozza, furono sferzati i cavalli a gran corsa per la piazza e palco attori, burattinaio, ceste, scene, tutto insomma andò gambe all' aria provocando un fuggi fuggi ed una risata generale.


venerdì 15 luglio 2011

VERONA. LA PIAZZA ERBE NEL RINASCIMENTO

Gli affreschi  rinascimentali su Palazzo Mazzanti

Nel Rinascimento la nostra Piazza Erbe aveva il mercato molto più fiorente e frequentato di oggi, cosi diviso: a partire dall' edicola «viscontea» (edificata nel 1401) trovavamo prima il « triangolo del vin » fino al capitello erroneamente detto «Berlina », poi gli «scudelleri» ed altri banchi minori; passati questi vi erano le ortolane, mentre i soliti mercanti di lana e panni stavano verso la Torre del Gardello per essere più facilmente in comunicazione colle « sgarzerie » dove si lavoravano le lane, Sotto la casa « Costa », e cioè nel tratto che univa la nostra piazza a quella dei Signori, si vendevano le frutta e particolarmente le « naranze ».

mercoledì 13 luglio 2011

VERONA. LA GUGLIA DEL MERCATO DI PIAZZA ERBE


La guglia viscontea di Piazza  Erbe

In piazza delle Erbe attira l'attenzione del turista anche la colonnina viscontea o guglia del mercato.
Tale colonnina, come altre sparse nella città, ricorda un'usanza della quale non si è potuta conoscere l'origine ma che però risale a tempi antichissimi; forse all'età romana.
Abbiamo visto che la colonna e il leone non costituivano che una forma particolare dell'idea rappresentata, mentre altre volte essa veniva raffigurata in modo diverso, con differenti emblemi ed immagini. L'uso della colonna col leone fu introdotta sotto il governo veneto; prima si usava una colonna sormontata da un capitello dove’ erano scolpite immagini della Vergine o di qualche santo, od anche la figura emblematica di un animale, come per esempio sulla ex piazza di S. Michele a Porta (all'imbocco del Ponte della Vitoria), dove si trova raffigurato un agnello perché attorno vi si trafficavano le lane.
Il capitello era il simbolo del mercato ed il centro a cui si conveniva pei bisogni del commercio. Sulla piazza o nel luogo stabilito per il mercato, stava in permanenza il magistrato incaricato di appianare e risolvere le vertenze che potessero eventualmente sorgere fra venditori e compratori; e vi si trovava pure il rappresentante della finanza pubblica, che esigeva il toloneo o posteggio, tassa che il venditore della merce doveva pagare all'erario quale affitto dello spazio del suolo occupato.
La guglia del mercato è lavorata a spirale sugli spigoli e porta un'edicola terminante a piramide con colonnine agli angoli. Forse venne scolpita da Antonio da Mestre nel 1401, sotto il dominio visconteo.

martedì 12 luglio 2011

VERONA. IL BORGOLETTO

Il Borgoletto

Quante antiche città non hanno la Via Borgoletto o Borgolecco? Nè tale misteriosa denominazione manca a Verona anche se troppi veronesi l'hanno dimenticata.
E la zona del Borgoletto è quella che si estende dalla Torre del Gardello alla piazzetta XIV Novembre: un susseguirsi di disarmoniche ma caratteristiche case di origine rinascimentale con alla base negozi delle merci più svariate, dal tabaccaio al magazzino di mode. La casa d'angolo con la piazzetta XIV Novembre ha sul fianco una bilancia in rilievo: ultimo ricordo della sua antica denominazione di Torre della Stadera e cioè sede del Dazio. 

lunedì 11 luglio 2011

VERONA. LA “COSTA” DI PIAZZA ERBE

La Costa

Sotto l'arco che unisce il Palazzo della Ragione alla « Domus nova », pende una costola di balenottero o « ittiosauro » che desta notevole curiosità.
Poco se ne sa: sopra una tela del Creara dipinta all'inizio del 1600 e in una mappa del 1630 figurava il cavalcavia senza la « costa » che si nota invece in una stampa della metà del Settecento.
Era probabilmente uno di quei pezzi esotici che si usava appendere all'ingresso delle spezierie. Infatti ai piedi dell'arco esistevano appunto delle « spessiarie ».

domenica 10 luglio 2011

VERONA. LA «DOMUS MERCATORUM»

La Domus Mercatorum

La Domus Mercatorum, o Casa dei Mercanti, è un edificio che si affaccia su Piazza delle Erbe  e  si eleva esattamente dove sorgeva la romana Basilica, luogo degli affari e del commercio in periodo imperiale.  Caduta la marmorea Basilica, i consoli dei mercati ed i tribunali di commercio vi elaborarono un fabbricato in legno. La sede medioevale venne costruita da Alberto I della Scala, fatto podestà della  «Domus Mercatorum» nel 1301 e  ospitò, appunto, la Casa dei Mercanti (la quale rappresentava le arti e le corporazioni). La Domus Mercatorum attuale venne restaurata nel 1878. È stata per anni la  sede della Camera di Commercio, mentre oggi vi ha sede la Banca Popolare di Verona.

sabato 9 luglio 2011

VERONA. LA TORRE DEL GARDELLO

Torre del Gardello

Ci narrano le storie che nel 1363 Cansignorio restaurò  ed innalzò la torre del Gardello « in capo alla piazza grande »,
Certo dunque la torre preesisteva ed il suo nome deriva, palesemente dall'antichissima voce Ward per garda con significato militare « guardia ».
Nel 1370, Cansignorio vi fece collocare una mirabile campana fusa da maestro Iacopo e che porta lo stemma scaligero con l'immagine di San Zeno ed una caratteristica iscrizione in caratteri gotici.
La campana serviva per il rintocco delle ore e da questa data la torre venne chiamata « dell’orologio ».
Il primo quadrante « dell'orologio» venne offerto soltanto nel 1421 da certo Domenico da Brescia.
L'orologio cessò di funzionare nel 1661. Dal 1779, sulla torre del Gardello un pompiere sorvegliava la città e dava l'allarme quando si profilava all'orizzonte il fumo di un incendio.
La nuova  sistemazione della torre e dell'orologio venne effettuata qualche decennio fa.

venerdì 8 luglio 2011

VERONA. L'ANTENNA DI PIAZZA DELLE ERBE


Il 5 luglio 1405 gli ambasciatori di Verona, recatisi a Venezia per giurare fedeltà alla Serenissima ebbero in dono dal Doge un gonfalone da issare sulla Piazza di Verona.
Infatti il 2 agosto dello stesso anno quel gonfalone venne issato sopra un’antenna verso l'attuale piazzetta XIV novembre, già Piazzetta del Pesce poiché qui si vendevano i prodotti, del Garda e dell'Adige.
L'antenna era costituita da un tronco di pino colorito di rosso. Nel 1736 era alta 25 metri. Nel 1797 l'antenna venne mozzata dai  partigiani francesi ed il 20 gennaio 1801 il troncone rimasto venne dipinto nei tre colori. Postovi un fascio repubblicano con la scure ed il berretto frigio, servì da albero della libertà, atterrato poi 1'8 aprile 1805.
L'antenna venne ripristinata il 13 maggio 1923 e lo scavo per la sua fondazione ha rivelato la storia documentata dei livelli stradali succedutisi dal lastricato romano.

giovedì 7 luglio 2011

Il Palazzo dei Mazzanti e gli affreschi del Cavalli


Nel quinquennio che va dal 1532 al 1537, Matteo Mazzanti restaurò la casa acquistata dai suoi avi, adornandola di finestre rettangolari e, sui due lati che fanno angolo in piazza, di grandi affreschi. Tali affreschi, ora in parte scomparsi, sono opera di Alberto Cavalli, allievo del celebre Giulio Romano. In questi maestosi dipinti, elogiati dagli storici veronesi di tutti i tempi, erano raffigurati personaggi mitologici, (come ad esempio il Laocoonte), che avevano una potenza di concezione e un tono cromatico veramente michelangioleschi, sebbene l'autore fosse notoriamente un raffaellita. 

mercoledì 6 luglio 2011

VERONA. LA TRIBUNA NON È LA BERLINA


Al centro di  Piazza Erbe si eleva la Tribuna o il Capitello, detta da troppi veronesi la Berlina.

Qui venivano proclamati i Signori, i Podestà e all'interno delle 4 colonnette esisteva una specie di tronco marmoreo andato disperso qualche decennio fa.  Il Podestà vi giurava di osservare gli Statuti e riceveva con: le chiavi la bacchetta nera, emblema dell'alto suo ufficio.

Le misure del quarel  e del coppo

Sul Capitello sono altresì scolpiti i campioni delle antiche misure commerciali veronesi: la « pertica », il « passo », il « ponte », le dimensioni del « coppo» (tegola) e del « quarel» (mattone]. Fissato ad una catena, l'anello che misurava la grossezza della «masa » o fascina e cioè del fascio di legna da ardere. Se nascevano contestazioni fra i mercanti, là si andava a constatare la frode o la giustizia.

Annessa alla Tribuna, vi è una fontana che fu a vicenda tolta e poi rimessa definitivamente nel 1764.

In questa - come prescrivevano gli Statuti Veronesi - si tuffavano per tre volte i bestemmiatori quando non pagassero una stabilita pena pecuniaria e cioè:
Si puniva con lire 50 la bestemmia, contro Dio; con lire 25 quella contro la Vergine; con lire 15 quella contro i Santi.

All'estate - perché i tuffi erano validi solo d'inverno! - i bestemmiatori insolventi venivano denudati sulle spalle e si conducevano per tre volte attorno alla Tribuna sotto i colpi di una frusta. 

martedì 5 luglio 2011

Madonna Verona era la dea Minerva?

Piazza delle  Erbe: la fontana di Madonna Verona

Uno studio pregevole del compianto don Pietro Albrigi è uscito su « L'Avvenire d'Italia» del 10 maggio 1963 sull'opera apostolica di San Zeno in Verona e poiché da tale studio si può trarre anche nuova luce sulla storia della nostra più bella piazza, crediamo opportuno stralciare qualche brano.

Scrisse infatti don Albrigi che nel 1560 un certo Vincenzo Curioni, « merzar », fece costruire una casa presso la torre del Gardello, nell'angolo tra piazza delle Erbe e il Corso Porta Borsari; negli scavi per le fondamenta fu trovata una lapide romana, che egli fece collocare nel muro della nuova fabbrica, insieme con una sua epigrafe, che ricordava appunto l'erezione di quella casa.

La lapide romana faceva parte del basamento di una statua antica, come si rileva dall'iscrizione; la statua fu ricercata con molta cura, ma non fu ritrovata.
Anche la lapide romana nelle vicende dei tempi, purtroppo è andata dispersa, ma il tenore della scritta ci è stato conservato dal Canobbio nella sua Storia di Verona.
Eccola:

HORTANTE. BEATITUDINE.
TEMPORUM. DDD. NNN.
GRAZIANI. V ALENTINIANI.
ET. THEODOSII. AUGG.
STATUAM. IN. CAPITOLIO.
DIU. IACENTEM. IN.
CELEBERRIMO. FORTI.
LOCO. CONSTITUI.
IUSSIT. VAL. PALLADIUS.
V. C. CONS.VENET.ET.HIST.

Per renderla leggibile a tutti completiamo le abbreviazioni:
«Hortate beatitudine - temporum Dominorum nostrorum - Gratiani Valentiniani - et Theodosii Augustorum - statuam in Capitolio - diu iacentem in - celeberrimo fori - loco constitui - iussit Valerius Palladius - vir c1arissimus consularis Venetiae ed Histriae ».

E ora diamone la traduzione:
«Per invito della tranquillità dei tempi dei nostri signori Graziano, Valentiniano e Teodosio imperatori, l'illustre Valerio Palladio, governatore della Venezia ed Istria, fece collocare in (questo) luogo frequentatissimo del Foro, (questa) statua, che da lungo tempo era giacente nel Campidoglio ».

Si tratta dunque del trasporto di una statua dal Campidoglio veronese al Foro della città (piazza delle Erbe) per ornare quel luogo tanto frequentato con un monumento d'arte, trasporto avvenuto circa l'anno 380.
Ora precisiamo - continua don Albrigi - quale sia la statua, il luogo (Campidoglio) da cui fu tratta, e la ragione del trasporto.
Anche Verona, come in genere tutte le città romane, aveva il suo Campidoglio, cioè un tempio a  tre celle (cappelle), dove erano onorate con altrettante statue le tre divinità capitoline: Giove, Giunone e Minerva.

Il Campidoglio veronese non si trovava sul colle di S. Pietro, come un tempo alcuni avevano pensato, ma presso la piazza delle Erbe: anche presentemente tra la via Pellicciai e il corso Porta Borsari vi è un rialzo di terreno (piazzetta S. Marco) formato dalle rovine del tempio capitolino: in esplorazioni recenti sono apparse le tre celle dedicate alle tre divinità.

La statua dunque trasportata nel Foro era un idolo, che un tempo aveva ricevuto culto pagano e poi era caduta a terra per l'abbandono in cui era stata lasciata.

Cosi si faceva alla fine del secolo IV anche a Roma, a Capua, a Benevento e in altre città come scrisse il Grisar nella sua opera «Roma alla fine del mondo antico ».

Nel trionfo del cristianesimo i templi pagani venivano chiusi ed abbandonati; ma gli idoli che di solito erano anche splendidi monumenti di arte, venivano portati ad adornare le piazze, le basiliche civili e altri luoghi pubblici.

Qui l'idolo pare che fosse caduto a terra da tempo (in Capitolio diu iacentem) segno che il suo culto era stato abbandonato da anni. A quale delle tre divinità si riferisse l'iscrizione non lo dice, e la statua non fu purtroppo ritrovata. Alcuni pensano che sia quella stessa che nel 1368 fu fatta collocare da Cansignorio sulla fontana di Madonna Verona: in tal caso vi si potrebbe ravvisare Minerva ».

Dunque la nostra Madonna Verona venne posta nel Foro da Valerio Palladio, consolare della Venezia, nel 380, fu posta poi nella fontana nel 1368 (altro prossimo centenario!) da Bonino da Campione. Le quattro teste inferiori ricordano Verona, l'imperatore Vero, Alboino re dei Longobardi e Berengario. La fontana venne alimentata con le acque del Lorì(Lo Rio) provenienti da Avesa.

La statua è da taluni ritenuta opera greca od ellenizzante, mentre la vasca sarebbe proveniente dalle antiche terme romane che si elevavano dove oggi sorge la Cattedrale quanto la vasca battesimale nella basilica di San Zeno.

Fonte: da srs di Giovanni Solinas

lunedì 4 luglio 2011

VERONA. IL FORO ROMANO NEL PERIODO DELL' IMPERO

La Verona romana

Nell'epoca romana, sull'area occupata da Piazza delle Erbe sorgeva il Forum (l'etimologia della parola deriva dal latino a ferendo, cioè dal portare a vendere le merci, servendo il Foro anche da mercato) dove i cittadini discutevano delle pubbliche faccende e dove - secondo quanto narra lo storico veronese Vitruvio, che visse nella fine del primo secolo, i gladiatori davano spettacolo, prima che Verona avesse la sua Arena (II secolo d. C.), come avveniva in altre città.

Nel medioevo e pia tardi ancora si bandivano le leggi, si insediavano i Signori ed i Podestà, si tenevano giostre pittoresche e trattenimenti vari per divertire il popolo. Pietro, il figlio dell'Alighieri, vi tenne la prima «lectura Dantis ».

Nelle sue interessanti memorie il Moscardo afferma che questa piazza era cosi grande e spaziosa che si estendeva fino all’ antichissima chiesa di San Giovanni in Foro. Essa deve il suo nome, da tempo immemorabile, al mercato della verdura, delle frutta e dei fiori, che vi abbondano favoriti dal clima soave e dalle terre feraci della nostra provincia.

domenica 3 luglio 2011

VERONA: L’UMANITA' DI PIAZZA ERBE


di DINO MONICELLI

Penso a un dramma di Thorton Wilder: al « Lungo pranzo di Natale ».
Protagonista è un tavola attorno alla quale le generazioni si succedono: gente che va, gente che viene, che nasce, che muore; un dramma che non ha principio, che non ha fine: una famiglia è seduta attorno alla tavola per un pranzo: i personaggi si trasformano; da bambini, diventano grandi, poi giovani, poi maturi, poi anziani, poi vecchi, poi scompaiono, poi diventano ricordi. Cosi per generazioni. Anche le cose attorno nascono, vivono, finiscono. La tavola rimane. È la tavola attorno la quale la famiglia celebra la natività.

Cosi la Piazza Erbe. È la protagonista della città. È umana: passare di generazioni, gioie  di generazioni, pianti di generazioni, nascite di generazioni, morte di generazioni l'hanno resa umana con la sua ininterrotta, immutabile, continua vita. Ed ho scritto tre sinonimi per sottolineare tre volte il fatto che è viva, che è la nostra vita.

Come nacque questo che è spazio, l'aria che vi è sopra albe e tramonti, cielo e nuvole e costellazioni?
Come nacque questo che è cuore perché noi se potessimo camminare nel tempo vi ritroveremo nostro padre, nostra madre, i nostri nonni, gli avi e tutti quelli che ci precedettero e nel futuro tutti quelli che ci seguiranno?
Come nacque?

Forse è bene pensare a manipoli che si accampano per la prima volta, a fuochi accesi per il bivacco, a soldati odorosi di cuoio, di aglio, di sudore; a tende rizzate per gli ufficiali, a belle prede discinte: donne rapite a tribù incontrate; un bivacco sicuro perché più in là c'è il fiume, perché più in là c'è la collina, perché il grosso dell'armata è alle spalle.

Piazza Erbe centro della città: Decumano Massimo: Corso Porta Borsari; decumano primo destrato: Via Pellicciai; secondo destrato: Via Mazzini. Cardo Massimo: Via Cappello. Templi, Basiliche sparse, scalee di marmo: cosi al tempo dei Romani.

Poi i barbari: gente vestita di pelli e ornati di collane di conchiglie, gente che si ciba di carne cruda e di pomi acerbi; gente che ricalca orme antiche che calpesta suolo e idoli immortali; gente che va, viene, rimane.  Heine: Verona rifugio di popoli.

Gente che alterna l'imbandigione sanguinolenta al vino trincato in crateri ampi.
Hans Bart: Verona, cantina dei popoli. Eruli Ostrogoti, Longobardi, Franchi, Ungari. Sulle macerie di vecchi edifici si sovrappongono altri fabbricati.

L'Adige che straripa e inonda vi pone la ghiaia, la sabbia, fa scomparire e livella. Re antichi:  Pipino, Berengario, Teodorico, Alboino.
Mi rifaccio a Poeti, al « Ritmo Pipiniano » che descrive la città; a cartograti antichi, all’'« Inconografia Rateriana ».

Cosi la Piazza nasce, muore, e rinasce, e si eterna: infinite forme, infinite creature; creature viventi sotto uno stesso cielo e respiranti una stessa aria e nutrite di un unico cibo: cielo, aria, nutrimento di dimensioni cosi vaste, di risorse cosi inesauribili.

Epoca romana, poi buio, poi immaginazione, poi documenti:
Ecco il secolo XII: il podestà Guglielmo Dall'Ossa fa erigere il « palatium comunis Veronae ». È quello che sorge all'angolo della Piazza con Via Gallina, che ora appare come una torre mozza; eretto, fu distrutto da un incendio, fu poi riedificato; fu tribunale e carcere e nel I227 qui fu rogato e firmato il patto che rinnovava la Lega Lombarda, il giuramento di Pontida.         

Dopo la Torre un « pontesel » e sotto di esso appesa « la Costa» che destò, e desta, curiosità ai nostrani ed ai forestieri. La strada che passa sotto al « pontesel » per andare in Piazza dei Signori si chiamava « viam sogarium » e più tardi anche « bina sogeriorum » dai botteghini e mercanti di funi e di pellicce che erano ivi allogati. Più in là, vi è la casa dei Giudici dove si adunavano i Consigli degli Anziani, dei Gastoldoni, dei Sapienti ad Utilia.

Il 1300 fu il secolo della lana, cosi come questo è il secolo della nafta e della gomma, cosi come quello scorso fu quello del carbone.
A portar l'arte della lana a Verona furono dei frati che odoravano di eresia: gli Umiliati. A quell'epoca il Lori e il Fibbio, i figli minori dell'Adige, erano rumorosi di « Folli» e di « Gualcherie », ma qui nella Piazza Erbe era il mercato dei panni. E i panni andavano ovunque per l'Europa, cosi che i mercanti di lana e di panni erano una corporazione importante e per loro fu costruito, prima in legno e poi in cotto, quel Palazzo che per le sue bifore, per il suo porticato, per la sua scalea, per i suoi « quarei » rossi più di ogni altro ci parla del « Medioevo»: la Casa dei Mercanti, oggi Camera del Commercio.
Chi tradusse in pietra la prima costruzione fu Bartolomeo della Scala che con grande solennità pose, con le sue mani, la prima pietra. Una volta le pareti esterne erano tempestate di stemmi che ricordavano vicari, giudici, podestà e consoli delle Arti. Ora da un lato è rimasta sola una bellissima Madonna. La merlatura in alto ci parla ancora di Medioevo, di guelfi, di ghibellini, di partiti e di fazioni e della fede politica della città che accolse esule Dante.

Ecco il « volto barbaro» dovuto alla magnificenza del Capitano veneto Zaccaria Barbaro; il « volto barbaro» è carico di leggende: storie di sangue, di assassini, di attese, di pugnali lucenti nel buio,· di gente mascherata, di mantelli neri e cieli di tenebre.

Ecco la Casa dei Mazzanti che ci conduce fino al Corso che porta a S. Anastasia: « la bina degli orefici» dove Romeo comperò l'anello nuziale per Giulietta, dove le bellissime dame comperavano i monili lucenti per adornare il collo candido e le braccia tornite. Girando attorno alla Casa dei Mazzanti si trovano le botteghe di mercerie - Via Pignolatarum: sete, nastri, trine, panni forestieri e panni nostrani.
Il palazzo verso la Piazza fu dipinto a fresco da Alberto Cavalli per commissione di Matteo Mazzanti. Famiglia questa ricca e importante che fini per un fallimento causato dalle tasse e dai balzelli del « dazio della stadera » al quale erano sottoposti pesi misure e stoffe a garanzia di equità e di perfezione.

Il Palazzo Maffei: Barocco, Arcadia, statue di numi a corona. Chi fece il progetto?
La Torre del Gardello, negli atti pubblici è spesso chiamata Torre dell'Orologio.
Piazzetta 14 Novembre, prima guerra mondiale: scoppi, incendi, stragi; una domenica di sole e di lutti: la città è affranta.
L'ultimo tratto di case per arrivare a via Mazzini faceva parte del « Ghetto ». Gli ebrei vennero a Verona a ondate e l'ultima fu quella di ebrei spagnuoli, sefarditi, condotti da Mosé Goran e da Jacobbe Navarra alla metà del '400.

Ma la piazza è un altare civico e i monumenti come il capitello che sta al centro, come Madonna Verona, come la colonna del Leone, come la colonnina Viscontea, come l'antenna del Gonfalone furono testimoni e protagonisti degli eventi che segnarono per la città date ed epoche: vennero i Visconti che rizzarono la colonnina ritorta con la sua edicola consacrata a Santi protettori, vennero i Veneti che da essa scalpellarono le insegne del Biscione; i Gonfaloni e le chiavi della città furono consegnati, davanti al capitello, ai rappresentanti della Serenissima.
Stando ad alcuni versi del poeta Francesco Corna, sotto al capitello doveva esservi una « sedia di marmo lavorata »; qui, davanti al capitello, dopo aver suonato la tromba, si leggevano bandi e grida; qui i podestà ricevevano le insegne della loro carica; secondo uno statuto di Cangrande i bestemmiatori dovevano essere immersi tre volte nel lavello ove oggi le erbivendole lavano l'insalata; alle colonne dovevano essere legati i mercanti che commettevano frodi, al capitello si esponevano le teste dei giustiziati.

L'Antenna del gonfalone e il Leone di San Marco ci ricordano le furie del 1799 quando i giacobini nostrani e forestieri distrussero le insegne della Signoria morente.

Ma ecco Madonna Verona, il cuore del cuore.
Si dice che la statua fosse stata fatta erigere nel Foro ancora nel quarto secolo da Valerio Palladio e nella Piazza Erbe fu poi adattata ad una fontana eretta dai fratelli Comacini, da questi misteriosi lapicidi che giravano per l'Europa portando la loro arte e i misteri della loro confraternita. Le teste di pietra dalle cui bocche escono gli zampilli sono quelle di Verona, dell'imperatore Vero, che si dice fondatore della città, del re Alboino, del re Berengario.
Cosi la storia della Piazza che vide, vede, vedrà le fortune della città e nostre, ma il colore, ma l'aria che circola, ma il popolo che qui vive, ma le ombre, nessuno può dirle.


Fonte: Da srs di Dino Monicelli, a cura della  COM.TUR. ACI  (fine millennio)