martedì 31 marzo 2020

QUANDO GLI ALBANESI SALVARONO VERONA DALL'INCENDIO




Nell'anno della terribile peste di Verona (1630) un gravissimo incendio scoppiato presso il Monte di Pietà rischiò di aggravare la situazione. Il 3 luglio bruciarono mobili e suppellettili per un valore di 189.800 ducati.

Tutti pensarono ad un'aggressione delle truppe tedesche. Ad impedire che l'incendio, dalla sede del Monte di Pietà, si propagasse alle case vicine intervenne una compagnia di albanesi.

Erano i cosiddetti Stradioti, unità militari di cavalleria della Repubblica di Venezia il cui nome deriva dal greco 'stratiotis', "soldato, guerriero". Erano chiamati anche "cappelletti" a causa dei piccoli cappelli rossi che indossavano (identici a quello raffigurato nel cortile della Casa di Giulietta: Cappelletti, Dal Cappello, Capuleti).

A Verona, che era una delle maggiori aree di acquartieramento permanente in Terraferma, i mercenari trovavano alloggio all’interno dell’area fortificata, affittando case. 

Famosi per la loro ferocia (infilavano sulle lance le teste mozzate dei nemici) venivano lodati per l'efficacia nella lotta ai banditi.
Questo il racconto del loro intervento a salvar Verona:

"Durante la contagione fu la misera città sovrapresa anco dall'incendio del S. Monte di Pietà, che seguì la terza notte di Luglio. Imperochè da un infetto (pel malor delirante, il quale abitava nelle Garzerie, in un luogo situato sotto le stanze ove erano custodite le robe nel monte impegnate) acceso il fuoco sotto del proprio letto, tanto si apprese, che innalzatesi Ie fiamme, ad un tratto abbruciarono la maggior parte del detto S. Monte con quanto vi era dentro, eccetto alcune gioie ed ori, che con prestezza furon salvati per opera di alcune milizie Albanesi, che indi poco discosto aveano il loro quartiere; e se i pubblici Rappresentanti non ci avessero con incredibile fatica assistito, certamente che il S.Monte con tutte le case in intorno sarebbero state dal fuoco incenerite. Non vi erano Muratori, nè Facchini, nè Torcolotti o portavini, quali sono obbligati per legge porger aiuto in tali occasioni, sendo perciò esenti dalla gravezza o estimo, a cui sono soggetti glI altri artefici. ll vino era per grande penuria salito a Scudi cinquanta la botte, che in oggi farebbe il prezzo di L. 450..."

Per cronaca, va aggiunto che questo infausto avvenimento "fece crescere d'assai la forza della pestilenza, per lo concorso delle persone accorse" a spegnere l'incendio in uno spazio così ristretto.

Fonte: srs di Andrea Schiavone, da facebook   LA ME BELA VERONA  del 28 marzo 2020 



domenica 29 marzo 2020

MENO DI UNA SIGARETTA… GESÙ CRISTO AL TEMPO DEL CORONAVIRUS



Di Domenico Airoma

Non fumo. La sigaretta non mi ha mai attirato, forse perché mio padre è morto per il troppo fumo. Ma da quando lo Stato ha dettato restrizioni alla libertà di culto, con l’accettazione ultrarestrittiva della Chiesa, comincio a riconsiderare la cosa.
Accade, infatti, che, domenica mattina, nel mentre mi reco nella chiesa vicino casa mia, venga fermato per il controllo da due agenti di polizia. Avevo il foglio del permesso debitamente compilato e alla voce «lo spostamento è determinato da» avevo scritto: «Accesso a luogo di culto». Lo consegno all’agente, il quale strabuzza gli occhi e mi fa: «Sono basito. Che significa?». Rispondo: «Che sto andando in Chiesa». E lui, di rimando: «Ma le Messe sono proibite». E qui il primo colpo al cuore. E la sensazione di essere osservato quasi fossi un pericoloso criminale; peggio, uno che non si rende conto della gravità del momento.
Riprendo: «Non si possono celebrare le Messe con la partecipazione dei fedeli, ma le Chiese possono rimanere aperte per chi vuole accedervi». Il nostro, poco convinto, mi fa: «Verificheremo». Ecco, penso fra me e me, cosa significa avere considerato le celebrazioni religiose al pari di qualsiasi altra «manifestazione ludica, sportiva o fieristica». Pazienza, mi dico.
Ma è proprio la pazienza a essere messa a dura prova, quando, al cospetto della carta di identità, lo zelante poliziotto, mi fa, non nascondendo la sorpresa: «Ah, lei è un magistrato!». Eh lo so, nessuno è perfetto, mi viene quasi da dire. Ma preferisco evitare lo humour: potrebbe essere frainteso. E allora opto per la modalità seria. «Mi rendo conto che le può sembrar strano che un magistrato senta la necessità di recarsi in Chiesa. Ma, veda, è proprio in questi momenti che, soprattutto chi ricopre incarichi istituzionali, cerca il conforto di Dio, che è l’unico che può davvero tirarci fuori da questa sventura».
E qui la conversazione si fa davvero interessante, perché il nostro obietta: «E non è la stessa cosa pregare a casa? Che bisogno c’è di andare in Chiesa?». Osservazione tutt’altro che peregrina, in effetti, perché la disposizione parla di ragioni che «determinano» lo spostamento. Gli rispondo: «Veda, sono fatto di carne e per sentirmi confortato ho bisogno di mettermi, quando posso, al cospetto di Dio. Ed è per questo che sento la necessità di andare a pregare dinanzi al tabernacolo, dinanzi a Gesù. Tutto qui». «Vabbè, dottò, vada pure», mi fa, oramai deposto il piglio inquisitorio iniziale, il bravo poliziotto.
Faccio per andare via, ma lo sguardo si posa su una bella «T» che giganteggia sul tabaccaio poco distante e mi viene spontaneo interpellare ancora il mio “controllore”. «Mi tolga una curiosità. Ma se io le avessi detto che stavo andando al distributore di sigarette, cosa mi avrebbe detto?». «Che era tutto a posto, dottò. E che dubbio c’è». E invece, il dubbio, anzi la certezza, è che per questo nostro mondo malato nel corpo e nello spirito, Nostro Signore Gesù Cristo valga meno di una sigaretta. Ed è davvero messo male se uno come me è chiamato a testimoniare che Ne abbiamo invece un bisogno tremendo.


Procuratore aggiunto, Napoli




Srs di Domenico Airoma, da Avvenire,   del 28 marzo 2020  

sabato 28 marzo 2020

LA PERDITA DEL RICCORDO


La migliore aula del mondo


Ricordo quando mio nonno veniva a mangiare la domenica da noi, e io lo portavo alla finestra del balcone per mostrargli le nuvole all’orizzonte:

“Nonno pioverà”?

“None. Non sono nuvole di pioggia, quelle!”

Non ricordo una sola volta in cui il nonno mi abbia risposto che sì, sarebbe piovuto. E non si è mai sbagliato, perché la memoria di 70 anni passati a rompersi la schiena nelle campagne arse dal sole, in attesa di una pioggia che non arrivava mai, non lascia spazio a facili ottimismi. Nemmeno a 80 anni. E non si smette mai di essere contadini, nemmeno da pensionati.

Ne stanno morendo tanti, di pensionati e di nonni, in questi maledetti giorni di pestilenza. Perché il coronavirus si accanisce soprattutto su di loro, lasciando illesi i più giovani e affidando la sorte di chi sta in mezzo ad una tragica riffa tra chi ha un sistema immunitario virtuoso, e chi invece si scopre improvvisamente fragile.

Certi giornaloni, tuttavia, non si stancano mai di annunciare con malcelato sollievo che questo virus “ammazza soltanto i vecchi”, “soltanto i malati”. E poco importa se puoi ritrovarti ad annaspare a 50 anni, ché comunque giovane non sei. E ancor meno importa, che basta avere la pressione un po’ alta per ritrovarsi nell’elenco dei “malati”, di quelli che “non ce l’avrebbero fatta comunque”. Si percepisce la sgradevole sensazione che al virus venga riconosciuta una dignità che non merita, nel ruolo di facilitatore, di acceleratore di un processo tanto inevitabile, quanto in fin dei conti benvenuto. Largo ai giovani, no?

Del resto erano gli stessi giornaloni, la stessa Pravda mondialista declinata in mille lingue diverse in tutto il mondo, ad auspicare che questi maledetti vecchiacci si togliessero dai piedi. Anche nel nostro Paese le solite teste parlanti discettavano fino a ieri dell’opportunità di modificare il suffragio universale per renderlo più al passo coi tempi: negando il diritto di voto agli anziani, per regalarlo ai minorenni. Colpevoli, i primi, di frenare le legittime e superiori istanze dei secondi, prepotentemente affermate in occasione delle “spontanee” bigiate collettive salva-clima dei mesi scorsi.

Ché il punto è proprio questo: gli anziani sono odiati dalle élite perché colpevoli di un crimine gravissimo. Il più grave tra tutti: gli anziani ricordano. Gli anziani ricordano il passato ormai remoto in cui le nostre economie crescevano, i servizi miglioravano, le opportunità aumentavano di generazione in generazione. Gli anziani ricordano la conquista della mobilità, e con questa, di un senso della libertà prima sconosciuto: ricordano la prima 500, la prima Lambretta, comprate coi primi stipendi da operai in fabbrica. Gli anziani ricordano le lotte sociali che hanno trasformato una massa informe di schiavi in unione di lavoratori consapevoli, e poi in quella classe media che avrebbe fatto la grandezza del nostro Paese. Gli anziani ricordano una classe dirigente colta e preparata, invidiata e temuta, ma capace di leadership e di visione. Capace di trasformare un Paese in rovina nella quarta potenza industriale del Pianeta.

Gli anziani ricordano. E per questo non si capacitano, non capiscono, e non perdonano. Anzi si arrabbiano. E quindi frenano il “progresso”. E quindi è bene che si tolgano di mezzo. E se il virus dà una mano, meglio ancora.

I giovani no. I giovani non possono ricordare. Nemmeno attraverso il racconto di nonni che in molti casi non vedono più, perché sradicati dalle loro città d’origine per inseguire stipendi miseri e occupazioni precarie, con il sogno nel cassetto di scappare all’estero in cerca di fortuna. Proprio come fecero i loro nonni. Perché proprio come i loro nonni, i giovani d’oggi hanno perso la guerra, rovinosamente. Solo che non lo sanno.

Certo è singolare, che tra quelli che buttano giù gli anziani dalla torre per far posto frettolosamente ai gretini, si annidino milardari più vicini al secolo che ai 70 anni. Personaggi i cui vaneggiamenti utopistici suonano come l’ennesima riproposizione di vecchie ideologie fallimentari, ma rinverdite in salsa Netflix e Instagram. Questi centenari che ispirano la Pravda che odia gli anziani, si sentono al sicuro. Ché il coronavirus non è la Morte Rossa, e nei panni del Principe Prospero proprio non ci si vedono. Ma come diceva Fra Cristoforo (non a caso in tempi di pestilenza), “verrà il giorno” anche per loro. E i giovani cresceranno, anche loro. E a certe conclusioni arriveranno comunque, anche se sarà più difficile farlo, senza i ricordi degli anziani.

In questi giorni sono tanti i ragazzi che si ritrovano in compagnia dei loro nonni. Perché in tanti hanno fatto rotta verso Casa, verso le famiglie di origine, anche a rischio di contagiare i loro cari. Ma al richiamo della terra non si resiste. E chissà che in questi giorni di clausura obbligata, tra il tintinnare di stoviglie e il profumo di polpette al sugo, qualcuno di quei giovani non abbandoni la playstation per farsi una chiacchierata con i nonni. Per farsi raccontare com’era il mondo, prima che ci rimbecillissero di politically correct e ci trasformassero in un’accozzaglia di zombie sradicati, adoratori di idoli scassati.

Fatelo, ragazzi. Fatevi raccontare il mondo attraverso gli occhi e i ricordi dei vostri nonni. O insieme ai vostri nonni, perderete anche il ricordo. E vi resterà solo il rimpianto.

“Nonno pioverà?
“None. Non sono nuvole di pioggia, quelle”.

Fonte: srs di Massimo Lupicino, da Climatemonitor del  23 marzo 2020 

venerdì 27 marzo 2020

I GHIRI NELLA CUCINA VENETA




Parlavo stamattina col mio dirimpettaio di bosco (lui ha la proprietà del bosco di fronte alla casa), e mi assicurava che il “gir in tecia” (ghiro in tegame, in umido), era considerato una prelibatezza da contendere al gatto di casa. Hanno gli ossicini piccoli (intendeva che finiva tutto sotto i denti) ma la carne delicatissima e tenera, a differenza dello scoiattolo, che ce l’ha legnosa. Oggi è un tipo di cucina non più praticato, almeno credo, con somma gioia dei simpatici animaletti che nutro io stesso con le mele del “pomaro” di casa, ma fino a una quarantina di anni fa tutto concorreva a placare la fame, e se era buono di sapore, era particolarmente gradito.

Come potete leggere sopra, oggi la caccia è vietata, e il povero ghiro può finire  come preda  solo di gatti domestici, volpi, faine. Chi  abita in mezzo al bosco deve stare però attento: è un animale infestante e se trova un pertugio si infilerà dentro casa vostra, specie in soffitta che diventerà un breve una nursery di simpatici ghiretti che vi lorderanno però con gli escrementi il pavimento e vi terranno svegli con tossicchiamenti vari e salti di contentezza (la loro) tutte le notti. Sono animali non molto veloci, per cui un gatto adulto ne può catturare anche più di due o tre per sera. Lo testimoniano le code che trovo intorno casa.

Fonte: srs di  Millo  Bozzolan., da Veneto storia  del 1 dicembre 2020

giovedì 26 marzo 2020

FELTRE - MONUMENTO ALL'EMIGRANTE DI ANTONIO BOTTEGAL

Monumento all'emigrante di Antonio Bottegal



Quando andavo a Milano per lavoro, prima di entrare nella stazione di Feltre, mi voltavo a guardare oltre le vette in direzione di San Donato, mio paese natale. Ricordo che provavo una stretta al cuore perché in quel momento era come se tagliassi ogni legame con la mia gente. Io però andavo solo a Milano! Cosa avranno provato allora i nostri emigranti che partivano per l'estero, recandosi in Svizzera, Germania, America e Australia, sapendo che non sarebbero tornati, o solo dopo anni!
Uomini laboriosi, intraprendenti, rotti ad ogni fatica che sono riusciti a fare grande il nome dell'Italia nel mondo, a prezzo di enormi sacrifici e, talvolta, della loro vita. La loro è stata una fuga di forza-lavoro, che ha penalizzato il nostro Paese negli ultimi due secoli.Ecco, allora, che il mio emigrante appare come un uomo imponente, massiccio, che nel modellato scabro rivela il carattere montanaro, simbolo di forza e prestanza fisica, fiero e consapevole delle sue capacità di cambiare il proprio destino in una vita migliore. Mentre si avvia al treno si volta a guardare il paese e il suo viso, pur nella fierezza del portamento, tradisce l'emozione del distacco. Le mani sono grandi, simili a strumenti di lavoro, la sinistra chiusa a pugno sottolinea rabbia e determinazione, grandi i piedi che hanno percorso le strade del mondo e la piccola valigia di cartone, contenente poche e povere cose, resta pur sempre un pesante fardello, inseparabile compagno di viaggio.

Fonte: srs di Ettore Beggiato; da Facebook di  Beggiato  del 26 marzo 2020


mercoledì 25 marzo 2020

IN RICORDO DI BEPIN SEGATO, L’AMBASCIATORE DELLA SERENISSIMA MORÌ IL 24 MARZO 2006





IN RICORDO DI BEPIN SEGATO, L’AMBASCIATORE DELLA SERENISSIMA MORÌ IL 24 MARZO 2006

di ETTORE BEGGIATO


Giuseppe Segato era nato a Borgoricco (Pd) il 17/06/1954,  laureato in scienze politiche all’Università di Padova con una tesi di storia veneta, autore di diversi volumi (Il mito dei Veneti, Io credo, Uno sconfitto di successo e altri); era l’ambasciatore dei Serenissimi che il 9 maggio 1997 occuparono il Campanile di San Marco a Venezia: per questo fu condannato a tre anni e sette mesi di reclusione, subendo tre carcerazioni e l’affido ai servizi sociali.

Le sofferenze patite lo portarono a morte prematura il 24 marzo 2006, a soli 52 anni.

Vorrei riproporre  a quanti non hanno avuto modo di conoscerlo, alcune note che avevo scritto qualche anno fa.

“Ho conosciuto Bepin Segato in una delle tante riunioni spontanee e semiclandestine che hanno caratterizzato l’area venetista verso la fine degli anni ottanta e fui colpito dalla sua mitezza e dalla sua dimensione in qualche modo “spirituale”: mentre noi parlavamo di progetti politici, di manifesti, di scritte murali e tutto il resto, Bepin Ti portava con le sue elaborazioni in un altro mondo nel quale emergeva comunque  la Sua inattaccabile fiducia nella capacità dei Veneti di riappropriarsi del proprio destino, della propria storia.

Ci siamo rivisti a Vicenza nella primavera del 1994. Avevo organizzato la presentazione del volume “I Veneti, progenitori dell’uomo europeo” alla presenza dei due (su tre) autori sloveni, Savli e Tomazic. Alla fine Bepin venne a salutarmi, con quell’atteggiamento a metà fra la timidezza, il rispetto, l’educazione innata che lo caratterizzava e mi regalò il suo volume “Il mito dei Veneti dalle origini a noi”. Ricordo la sua ritrosia quando gli dissi “Fame na dedica, Bepin” e lui si limitò a una firma in basso. Di quel volume ho evidenziato la conclusione che vi propongo, perché è quasi un testamento spirituale:

“ Dagli anni Sessanta conosce grande fortuna la comunità economica europea, con obiettivi politici di medio-lungo periodo. Il Veneto ritorna immediatamente al suo tradizionale splendore economico. Nutre il grande ideale dell’autogoverno di ogni popolo dell’Europa Unita. Le difficoltà  sono tante ma la fede dei Veneti è incrollabile perché la loro autorità culturale è massima e l’idea è serenissima”.

Per un po’ di tempo ci perdemmo di vista, anche se la sua azione di “divulgatore di storia veneta” come amava definirsi continuava in silenzio, com’era nel suo stile; diffondeva soprattutto le carte del Veneto con i toponimi in lingua veneta: Altin, Padoa, Sitadea, Casteo (Castelfranco per gli italiani) che ritrovavi puntualmente nell’ingresso dei laboratori artigiani ma anche nella hall degli  alberghi  o nella sale d’attesa dei medici.

Lo incontrai in un altro incontro, penso fosse il 96-97, e mi passò un volantino intitolato “Non una Regione ma una Veneta Nazione” che si concludeva con un messaggio nel quale, a distanza di qualche anno, si può intravedere l’ipotesi dell’azione di San Marco

“Oggi, molti giovani veneti lottano  contro ogni avversità e con fede incrollabile per concretizzare i loro ideali  di libertà. AIUTALI ANCHE TU! E non chieder mai cosa puoi ricevere, ma soltanto cosa puoi fare, affinché la grande e nobile veneta storia riprenda il suo corso nello splendore di una nuova, libera, indipendente e sovrana Veneta Serenissima Repubblica. W SAN MARCO.”

Il volantino era firmato “Portavoce interinale G. Segato”: cosa volesse dire credo che nessuno l’abbia mai capito, ma questa era un’altra caratteristica di Bepin; lanciare messaggi, parole d’ordine, segnali “subliminali” come li chiamava lui con lo scopo di risvegliare l’amore dei veneti per la propria terra, per la propria storia.

Lo ritrovai, e con me milioni di veneti e di europei, nel maggio del 1997 nell’azione dei “Serenissimi”, in piazza San Marco, a Venezia. Bepin fu arrestato il giorno dopo la spettacolare azione del campanile, in quanto accusato di essere “l’ambasciatore” del gruppo, colui che doveva gestire i contatti fra i patrioti veneti asserragliati in piazza San Marco e le forze dell’ordine.

Sull’azione del campanile  è stato scritto di tutto, ormai; per me rimane una straordinaria dimostrazione d’amore verso la madrepatria veneta da parte di otto, nove, dieci, undici  “Serenissimi”. Un’azione che poteva veramente sfociare in qualcosa di importante, vista  la straordinaria partecipazione con la quale il popolo veneto seguì gli eventi.

Fu stoppata da chi ha sempre avuto timore e sospetto nei confronti della potenzialità e dell’identità del popolo veneto, da quell’Umberto Bossi che non a caso parlò di “uomini dei servizi segreti” e peggio. Per non parlare della spropositata reazione dello stato italiano, l’allora presidente Scalfaro in testa, che reagì in tutte le sedi con una durezza inaudita,  arrivando a teleguidare la stessa magistratura che con una velocità impressionante condannò i Serenissimi a svariati anni di carcere. Bepin Segato, soprannominato “l’ideologo” del gruppo fu condannato a tre anni e sette mesi di carcere. Bepin, per la verità, ha sempre preferito dichiararsi “l’ambasciatore dei Serenissimi” e questo è il ruolo che il gruppo gli aveva affidato; anche in questo frangente emerge l’onestà intellettuale del Nostro che rifugge un ruolo non suo, anche se di maggior impatto mediatico.

In quel periodo ero consigliere regionale ed avevo quindi la possibilità di entrare in carcere. Ritrovai  così Bepin dietro le sbarre, proprio a Vicenza e qui emerge, a mio modesto avviso, la dimensione più autentica e più significativa di Segato:  la straordinaria serenità con la quale ha affrontato il periodo del carcere. Pur consapevole di non aver compiuto alcun atto violento né di aver mai teorizzato azioni violente, Bepin affronta il carcere come un apostolo pacifico e nonviolento della causa veneta, certo che il Suo sacrificio potrà rappresentare un prezioso patrimonio per tutti che lottano per l’autogoverno, per l’autodeterminazione del nostro popolo veneto.

Ricordo con emozione come mi ringraziò per aver lanciato l’iniziativa di spedire delle cartoline  ai Serenissimi: “E’ straordinario, siamo sommersi da saluti che arrivano da tutte le parti”  mi disse con l’aria festante di un fanciullo che ha appena ricevuto un regalo inaspettato.

E anche in carcere, pur non essendo un capopopolo, diventa un punto di riferimento per tanta gente, che vedono in lui un megafono per istanze di libertà e di giustizia. Un portavoce che non guarda al colore della pelle dei suoi compagni di sventura, né alla loro religione, né alle loro colpe.

Nel 2000 Bepin dopo essere stato più volte scarcerato e imprigionato è nell’inferno dantesco del carcere circondariale di Padova.

Anche qui si fa apprezzare da tutti, lo vedo più volte, una volta accompagnato da due europarlamentari fiamminghi e gallesi (eravamo riusciti a far passare una mozione per la Sua scarcerazione nel Parlamento Europeo), un’altra per raccogliere la sua accettazione alla candidatura al Senato nelle politiche del 2001; non viene eletto per pochi voti ma la mobilitazione che viene scatenata per la sua ingiusta incarcerazione  è notevole e il 4 giugno il “Mandela bianco”  viene scarcerato.

Da allora continua incessante la sua attività per la tutela e la valorizzazione della nostra storia e delle nostre tradizioni: dalla pubblicazione di volumi (in particolare “Uno sconfitto di successo” e “Io credo”)  alla festa del boccolo, il giorno di San Marco, al capodanno veneto (primo marzo) che rilancia con varie iniziative a partire dalla stampa dei calendari veneti. 

Ciao Bepin, grazie di tutto, e …..non temere,   “la fede dei Veneti è incrollabile”!
Viva San Marco!”

Fonte: srs di Ettore Beggiato, da  Miglioverde del 24 marzo 2020

giovedì 19 marzo 2020

DURI I BANCHI!




In Veneto impari fin da piccolo che:
"Non ce la faccio" - non si può dire.
"Non ci riesco"- non esiste.
"Sono stanco"- non è mai abbastanza.
Cresci così, un po' chiuso, un po' con la convinzione di non essere mai all'altezza.
Ecco come li riconosci i veneti: testa bassa e a lavorare.
I veneti, quelli veri, sono polentoni.
Si...perche' la polenta è ciò che li rappresenta.
Ruvida, dura e fredda fuori, con quella crosticina che si forma appena sfornata.
Tenera e avvolgente dentro, non ti delude mai.
I veneti sono proprio così: un po' tonti, ruvidi e schivi;
Ma dentro sono buoni e dal cuore tenero.
Lo so, lo so, niente di speciale la polenta: acqua, sale e farina gialla;
Ma si sa, le cose semplici sono speciali perché rassicuranti, perché ci sono...
I veneti ci sono.
Sempre.
Ci puoi contare.
Piange il Veneto.
Senza far rumore, per non disturbare.
Giace a terra, fatta a pezzi da un nemico vigliacco subdolo, che non si fa vedere.
Gli occhi sono bassi, tristi e pieni di paura.
Ci sono solo ambulanze e silenzio.
Veneto tu non mollare proprio adesso.
Ricordi?
"Non ce la faccio"- non si può dire.
"Non riesco" - non esiste
"Sono stanco" - non è mai abbastanza.

DURI I BANCHI !


Elena Zanon‎ a Made in VENETO
-tratto dal web -

domenica 15 marzo 2020

CORONAVIRUS STRADE DESERTE E PM10 IN SALITA




Verona  15 marzo 2020

Ecco la prova che le  auto  incidano poco o niente   nello  sviluppo  di PM10... cinque giorni di strade quasi deserte e il PM10 non ha fatto altro che salire... solo il vento di ieri lo ha fatto calare...

lunedì 9 marzo 2020

RESTI DELLA PRIMA CHIESA DI SAN GREGORIO – VERONA, VIA MADONNA DEL TERRAGLIO.




Verona - La prima notizia della chiesa risale al 1270, quando venne fondata dalla compagnia laica dei Penitenti; all'edificio sacro era annesso un piccolo ospedale. 

Grazie ad un testamento del luglio 1414, quando i coniugi Montebello dell'Isolo di sotto donarono alcuni beni all'ospedale, ed ad un inventario del 1550 sappiamo che il nosocomio disponeva di quindici posti letto. 
La chiesa, con l'ospedale e due oratori, venne demaniata dai francesi nel 1806; due altari furono trasportati nella chiesa di Mazzurega. 
Della chiesa attualmente rimangono solo un tratto di muro ed un portale gotico in marmo rosso veronese. 
Era detta "di San Gregorio" anche una piccola porta delle mura scaligere, attualmente visibile all'interno del santuario della Madonna del Terraglio.


Fonte: srs di Giuliano Meneghini; da facebook, La me bela Verona del 5 marzo 2020

domenica 8 marzo 2020

PERCHE’ DICIAMO CIN CIN




Il termine Cin-Cin deriva dal cinese: Ch'ing Ch'ing che significa prego-prego.
Secondo la tradizione, i marinai inglesi negli anni imperiali del fiorente commercio con la Cina, portarono in Europa questo termine come saluto cordiale e scherzoso. 
Con il tempo venne associato al brindisi per somiglianza onomatopeica.

Fonte:  Cantina F.lli Lozzo

mercoledì 4 marzo 2020

I CESSI




Se non ogni fameja, almanco un paro, in ogni corte, gavèva ‘na stalèta con ‘na vachèta e, Tutte: galine e coniji. I Mii, anca pai e ochi e i Tura, che i gavèva tanta tera, anca un musso par tirare i carèti de erba, fèn o legna. El Musso, comunque, era de uso promiscuo, bastàva domandarlo e Chichi lo imprestava.

Le galine le se rangiàva nel punàro, che ogni tanto, però, vegnèva netà dai schitì che parevano come un pavimento spussolente. I me mandava sempre mi nettare el punàro e me impienavo anca de piocci pulxini. Che spissa intanto, prima che me mama me lavasse col saòn col’l solfàro. 

Tutte le altre bestie, vache in testa, bisognava curarle ogni giorno o comunque pì spesso delle galline e le pèttole dei cuniji e cavre e le boasse delle vacche, in qualche posto, bisognava pur portarle.

I luamari, fonte de concime naturale, e spussa perenne, i ghe xèra in ogni corte e solo i Tura i gavevà fato un bel luamàro contornà de muro di cimento e vasca per il pisso, però Luri i tegnèva in stala tre o quatro vache , le altre fameje al massimo una, o un par de cavre.

Tutte le altre fameje, al luamaro, i ghe affiancava “el bagno de casa”. Sempre concime diventava, tuto.

Nella mia corte c’era il cesso dei Cuchi della casa nova, il cesso de Me Nona, ‘pena fora dal’orto, il cesso dei Sacchi e il cesso di Medeo. I Cini e l’Angelina Barbai avevano il cesso dentro l’orto che era recintato con la rete. A parte questi due cessi, tutti gli altri erano disponibili per tutti i residenti della corte e bastàva solo bàttere sula porta prima de ‘ndare dentro, per capire se ghe xèra dentro kalche altro. ‘Lora bisognava spettare, o cambiare cesso.

Le case, suito dopo la guera, le gavèva el seciàro con l’acqua corrente, del sindaco, ma i Murari non i pensava ancora de fare un bagno in casa, perche i pensava che la merda spusasse, in casa, e che, comunque la servisse de più per concimare orto e campi e xèra un pecà… butarla xò par il vater. Io sentivo dire “caga sui tursi”, mai altri posti. 

Il cesso più moderno era quello della casa nova dei Cuchi che aveva anca una canna dell’aqua e una cassetta per la carta per forbiìrse el culo e anca una lampadina, piena de mosche e sporca, come quella che era in stalla dai Tura, però, con le sue venti candele, un fià de luce facevà e de note, d’inverno, il giasso almanco si vedeva e, almanco là, non si sbrissiàva. 

Tutti i cessi erano di forma come un frigorifero de’na volta alti e stretti, come una grande moscaròla, con ‘na porta de legno o lamiera davanti e un buco, alto sul muro, dietro, per non sofegàrse anche con la propria spussa.

La carta ‘genica in corte non era ancora stata vista e il Giornale di Vicenza offriva tanti strappi, così come la carta, un fià rùspia, dove il munàro incartava i faxùi sechi, o Fabiano la pasta, o Bastian la carne.

Un un cesso io non ‘ndavo quasi mai perché la “domenica del corriere” che i Martini metteva nella cassetta, era troppo lucida e non si riusciva a far bene la cosa.

‘Medèo, secondo mi, non ha mai doparào carta, perché ogni volta era troppo svelto a vegnèr fora dal cesso e brontolare a noi boce. Medèo, infatti , spussava più dei altri.

Nelle camere de ‘lora non era ancora stato inventato il comodìn con i cassettini. C’era il “Buffèto” che aveva due portele, al posto dei cassetti: serviva per mettere dentro el vaso da notte, che se avevi la mossa di corpo o, comunque da fare in pressa, non facevi ora ‘ndare al cesso in corte. Noi boce potevamo restare smerdà anche fin matina, che avevamo il ciripà, Ma i omeni e le done normali i doparàva el vaso da notte , che, dopo i rimetteva nel bufeto. Sarà per la loro spussa, intrinseca che ‘desso non se trova più, i buffèti de ‘na volta. 

Dopo, I muràri gà scuminsià a fare i bagni in casa e ‘lora, un fià ala volta, xè sparìe le galine, i ochi, i cuniji, le cavre e le vache dalla Contrà e, il musso, era già morto di suo. 

Sono spariti i luamàri… ma de merda, in giro… ghe ne xè de più ‘desso, anca se, pare, che la spussa manco; ma sempre pieni de merda semo!

Nono Lessio da Lugo Vicentino
22 Luglio 2018.


Fonte: da Facebook di Alezzio Rizzato del 18 febbraio 2020
Fonte: Da Veneto Storia di Nilo Bozzo  del 20 febbraio 2010