giovedì 26 dicembre 2019

LA BANDIERA CON LO UNION JACK E IL LEONE DI SAN MARCO





Quando Napoleone dichiarò guerra alla Serenissima (primo maggio 1797) ordinò “di far atterrare in tutte le città di terraferma il Leone di San Marco”; i soldati francesi e i collaborazionisti giacobini italiani e veneti eseguirono con particolare determinazione il decreto del Bonaparte e migliaia e migliaia di leoni furono distrutti e scalpellati: Napoleone aveva capito molto bene il valore di un simbolo come il leone di San Marco e cercava di annullarne l’immaginifica potenza. Senza grandi risultati, per la verità, vista la straordinaria diffusione del simbolo marciano anche ai nostri tempi.

Nonostante la furia distruttrice di Napoleone e accoliti vari, nel 1800 nasceva nelle isole Ionie, con capitale Corfù, La Repubblica Settinsulare,  libera e indipendente dal 1800 al 1807, che mise proprio il Leone di San Marco nella propria bandiera, con l’aggiunta  di sette frecce rappresentanti il patto federale delle sette isole.

Nel 1807 nelle isole ritornarono i francesi e ci rimasero fino alla caduta di Napoleone; il Congresso di Vienna non riuscì a dipanare  la matassa ionica, anche per la valenza strategica delle isole sulle quali, dopo il lungo  periodo  della Serenissima, si erano scatenati gli appetiti dell’Inghilterra, della Francia, della Russia e dell’impero ottomano, e  solo il 5 novembre 1815 , con il trattato di Parigi, i potenti dell’epoca trovarono la soluzione.

Nascono gli “Stati Uniti delle Isole Ionie”, protettorato inglese: per la prima volta nella storia si utilizza l’istituto giuridico del “protettorato” che sarà largamente usato dagli stati della vecchia Europa cambiando notevolmente l’atlante geopolitico del mondo. Attraverso un protettorato,  uno stato più forte (protettore) si riserva il diritto di rappresentare nell’ambito del diritto internazionale uno stato più debole (protetto) in virtù di un accordo (trattato di protezione).

Lo stato protetto  ha una notevole autonomia per quanto riguarda l’amministrazione interna  (a differenza della colonia);  il protettorato viene, solitamente, governato da una figura che rappresenta lo stato protettore  (governatore, commissario).

L’istituto del protettorato venne utilizzato soprattutto dagli inglesi (Swaziland nel 1846, Brunei nel 1888, Zanzibar nel 1890, Transvaal nel 1891), dai francesi (Tunisia nel 1850, Laos nel 1869, Congo nel 1880, Marocco nel 1912), dai tedeschi (Camerun nel 1884 e Burundi nel 1907), dagli italiani (Somalia nel 1889). 

Gli Stati Uniti delle Isole Ionie si danno una costituzione che entra in vigore il primo gennaio 1818 e la prima cosa che balza all’occhio è … la bandiera: fondo blu con in alto a sinistra l’Union Jack e in basso a destra il Leone di San Marco con le sette frecce rappresentanti le sette isole ioniche; uno schema che diventerà popolare e che sarà riproposto dagli inglesi in tante parti del mondo.

La bandiera con l’Union Jack e il Leone di San Marco continuerà a sventolare fino al 29 marzo 1864 quando, con il trattato di Londra, le isole ionie furono annesse al Regno di Grecia.


Fonte: srs di ETTORE BEGGIATO, da MiglioVerde del 24 dicembre 2019


domenica 22 dicembre 2019

IL GIORGIO BOCCA CHE NON CONOSCIAMO

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca passò con entusiasmo dal fascismo al marxismo: la cesura è l'8 Settembre, quando nella sua Cuneo aderì a Giustizia e Libertà.

Non parlerò di quando era attivista tra gli universitari di Torino né quando scriveva articoli a favore delle leggi razziali.
Il 27 dicembre del '43 aveva consegnato due prigionieri tedeschi ad Andrea Spada, il famigerato capo della polizia partigiana.

Erano un maresciallo e un soldato semplice. Quest'ultimo singhiozzava prevedendo la fine che l'attendeva, mentre l'altro, inutilmente mostrava dal portafoglio le foto della famiglia coi suoi bambini.
Furono fucilati non dal plotone che si era rifiutato, ma dal boia Spada.

Nel comune di Sampeyre Giorgio Bocca faceva il giustiziere e uccise a sangue freddo un prigioniero tedesco che aveva in consegna, H. Dieter Klein di 30 anni.

Il 12 aprile del '44 uccise un sergente repubblicano catturato durante l'attacco al presidio di Busca. Si chiamava Amedeo Leonardi e aveva 19 anni. Scriverà: "nel caricatore ho venti pallottole grosse come nocciole, coperte di rame lucente, per chiudergli il becco".

La notte tra il 28 e il 29 aprile si appostò lungo la strada per Genola e tese un agguato a una colonna di tedeschi. Colpì i primi bersagli e poi fuggì per i campi.
Per rappresaglia i tedeschi fucilarono quindici civili.

Per il citato assalto al presidio di Busca gli fu concessa la medaglia d'argento al valor militare perché "contro un nemico infinitamente superiore (...)per aver ucciso in combattimento e a distanza ravvicinata (sic) il comandante del presidio ottenendo la resa della guarnigione".
Lui sparò per uccidere il comandante sì, che si era arreso.
Una delle tante farlocche medaglie che disonorano l'autentico valore militare.
Il presidio in questione contava una ventina di militi che Bocca moltiplicherà scrivendo che "era pieno di quattrocento fascisti".
Non approfondì che in quelle giornate di fine guerra i presidi si arrendevano anche senza sparare. 

Da commissario politico fu giudice del tribunale del popolo che condannava giovani donne accusate di essere spie.
Ci sono i documenti e c'è la sua firma.

Non si creda che non vi sia dell'altro. Migliaia di documenti conservati negli istituto storici della resistenza non sono consultabili.
A settant'anni da quelle ultime giornate di guerra.


Fonte: srs di Gianfranco Stella, da Facebook   di Gianfranco Stella del 4 ottobre   2019

mercoledì 18 dicembre 2019

I 10 LADRI DELLA NOSTRA ENERGIA….



Dai Lama: ecco chi sono i 10 latri della nostra energia


La nostra energia può essere rubata, assorbita, trasformata da tutto quello che ci circonda, soprattutto dalle persone che ruotano intorno a noi e alla nostra vita.

Come sappiamo, tutti noi siamo fatti di energia. L’energia, grazie alla “Legge di Attrazione”, in seguito si trasforma in pensiero cosciente facendoci creare il mondo intorno a noi.

Capita a volte, di sentirsi giù di morale, stanchi, apatici e non più in linea con quello che desideriamo dalla vita. Questo accade perché la nostra energia si abbassa. 

Il Dalai Lama ha riconosciuto i “10 ladri della nostra energia” e ha indicato come impedire loro di continuare a derubarci. 


Eccoli:

1 – Lascia andare le persone che condividono solo lamentele, problemi, storie disastrose, paura e giudizio sugli altri. Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente.

2 – Paga i tuoi debiti in tempo. Nel contempo cerca anche di riscuotere i tuoi crediti o scegli di lasciare perdere, se chi dovrebbe pagarti non può farlo.

3 – Mantieni le tue promesse. Se non l’hai fatto, domandati perché… Hai sempre il diritto di cambiare opinione, scusarti, compensare, rinegoziare e offrire un’alternativa ad una promessa non mantenuta; ma non farlo diventare un’abitudine. Il modo più semplice per evitare di fare una cosa che non vuoi, è dire NO subito.

4 – Elimina se puoi o delega i compiti che preferisci non fare e dedica il tuo tempo a fare ciò che più ti piace.

5 – Permettiti di riposare quando ti serve e datti il permesso di agire se hai un’occasione buona.

6 – Butta, raccogli e organizza le tue cose: niente ti prende più energia di uno spazio disordinato e pieno di cose del passato che ormai non ti servono più.

7 – Dai la priorità alla tua salute: se il macchinario del tuo corpo non lavora bene, non puoi fare molto. Prenditi delle pause.

8 – Affronta le situazioni tossiche che stai vivendo, non tollerare le azioni negative, gli insulti, i soprusi di un compagno, di un familiare o di un gruppo; fai ciò che è necessario.

9 – Quando non puoi fare altro… accetta. Niente ti fa perdere più energia che litigare con una situazione che non puoi cambiare.

10 – Perdona e lascia andare le situazioni che sono causa di dolore, e lascia andare anche i ricordi dolorosi.


Fonte: da Aprilamente



martedì 17 dicembre 2019

IL PRIMO CRISTIANO DI VERONA ERA UN BIMBO DI 3 ANNI

L’epigrafe a San Procolo per Victor(i)nianus, morto a due anni e 11 mesi dopo essere stato battezzato (BATCH)


Si chiamava Victorinianus, è vissuto alla fine del IV secolo dopo Cristo ed è morto in tenerissima età (per un motivo che si è perso nella notte dei tempi), a nemmeno tre anni: è lui il più antico cristiano veronese di cui abbiamo testimonianza. Il primato, appunto quello di iscrizione paleocristiana più antica di Verona, appartiene a un’epigrafe ritrovata lungo le scale che conducono alla cripta dell’antica chiesa romanica di San Procolo, a poche decine di metri da San Zeno.

Un’iscrizione riaffiorata durante i lavori, datati anni Ottanta, di recupero funzionale dell’edificio sacro sorto sull’area di un sepolcreto romano dove, evidentemente (grazie al piccolo Victorinianus ne abbiamo ora le prove) già nel IV secolo era previsto un settore dedicato alla comunità cristiana. Già allora era stata fotografata e studiata.
 Ma la vera «scoperta», tra quelle lettere incise con poca cura da uno scalpellino su una lastra di calcare locale rozzamente rifinita, risale solo a qualche settimana fa. «Ero a San Procolo per studiare una serie di iscrizioni», racconta Alfredo Buonopane, docente di Epigrafia latina e Storia romana all’università di Verona e autore della ri-scoperta appena pubblicata sulla rivista di settore «Hormos», «quando, rileggendo la lapide in questione, mi sono accorto che di questa epigrafe doveva essere sfuggita all’attenzione degli studiosi precedenti la committenza cristiana».

Su quella lastra infatti, in origine coperchio di una tomba terragna, ritrovata in posizione orizzontale in un contesto di reimpiego, alcune righe di testo, ammassate verso l’alto e con lettere poco regolari: «Hic innofitus| Victornianus,|qui vixit anos|II, mesis XI». «Qui (giace) il neofita Victornianus, che visse due anni e undici mesi». Tra queste, ad attirare l’attenzione di Buonopane, una parola in particolare: «innofitus», grafia raramente attestata che sta per «neophytus», sostantivo documentato in molte varianti, che in questo caso presenta all’inizio una -i eufonica, l’elisione della e davanti alla o e l’omissione dell’aspirazione, con uno scambio di i per y.

«L’aspetto più interessante di questa nuova iscrizione è certamente rappresentato dal fatto che il piccolo Victorinianus venga chiamato neophytus, vocabolo con cui si indicava un individuo che da poco aveva ricevuto il battesimo. Battesimo che, a quei tempi, avveniva normalmente in età adulta, salvo che, come in questo caso, non vi fosse la necessità in battezzare il bimbo in articulo mortis. Ed è da questo particolare che possiamo considerare il bambino un cristiano. Il più antico di cui abbiamo testimonianza a Verona. Le altre iscrizioni paleocristiane, in città, risalgono tutte al V secolo avanzato o al VI secolo».

L’iscrizione di San Procolo, infatti, viene datata da Buonopane tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo d.C.: «Considerando il tipo di monumento funebre, gli aspetti onomastici, quelli linguistici, tipici dell’epigrafia tardoantica, e paleografici, come la decorazione: i due delfini che compaiono ai lati del testo sono immagine molto diffusa nella committenza cristiana dell’epoca come metafora della morte. L’ichtýs sotér, infatti, il cetaceo salvatore che accorre in soccorso degli uomini nel momento del naufragio, secondo i padri della Chiesa era metafora della morte e della salvezza: li portava in salvo, traghettandoli verso la nuova vita». 
Questa ri-scoperta a San Procolo segue quella, sempre da parte di Buonopane, di un’altra interessante iscrizione nella vicina basilica di San Zeno. Un’epigrafe funeraria tardoantica, su un frammento incastonato vicino alla porta laterale, che ricorda la sepoltura di un Massimo, originario del villaggio di Kaprozabada, in Siria. In definitiva, corsi e ricorsi storici. «Già allora, infatti, per ragioni forse legate alla pressione demografica e al conseguente bisogno di nuovi spazi, un nutrito di gruppo di persone provenienti dalla Siria si stabilì in diverse località dell’Italia settentrionale», conclude Buonopane. «Tra queste, oltre a Concordia, Aquileia e Trento, c’era anche Verona». •

Fonte: srs di Elisa Pasetto, da L’Arena di Verona del  24 dicembre 2017

giovedì 5 dicembre 2019

BEPI DEL GIASSO.




No, non è riferibile al venditore di ghiaccio che, alla mia epoca, con la carriola portava il ghiaccio per le calli per venderlo alle massaie. 
È L’epiteto, coniato dagli anarchici veneziani, per indicare niente po’po’ di meno IOSEF VISSARIONOVIC più tardi chiamato STALIN (d’acciaio) circolante in Venezia nel 1907. 
Arrivò nella nostra città per sottrarsi alla polizia zarista che lo braccava, con l’intenzione di raggiungere Lenin in Svizzera. 
Chiese ospitalità alla comunità monacale armena dell’isola dei San Lazzaro, dato che ne conosceva perfettamente l’idioma acquisito negli oratori della sua terra, il Priore dell’isola gliela concesse e lo assegnò al compito di campanaro, al cui servizio si dedicò anche se per breve tempo. 
Lasciò l’isola declinando l’offerta dei monaci per un suo più importante impegno nella comunità. 
Il soprannome gli venne attribuito per la sua provenienza dalla Russia, terra a clima freddo, dagli anarchici che per primi lo accolsero, dando prova alla veneziana, di sapere appioppare epiteti adeguati. 
Se ne ritornò in Russia e da campanaro, cioè da annunciatore di fede e di amore, passò alla sua congeniale inclinazione: quella di gran epuratore. 

Ecco chi fu BEPI DEL GIASSO.


Fonte: srs di  Geppetto Giulio Scorla Mastro, da facebook del  30 novembre 2019

domenica 1 dicembre 2019

UNA PALLOTTOLA PER IL GENERALE CANTORE





Una pallottola per il generale

Era italiano o austriaco il cecchino che il 20 luglio del 1915 sulle Tofane uccise il generale Antonio Cantore? Ed a trapassare il cranio dell'ufficiale fu un proiettile calibro 8 millimetri austriaco o un 6.5 millimetri italiano? A distanza di novant'anni l'interrogativo è ancora aperto.

Il foro lasciato dal proiettile sulla visiera del berretto non basta, da solo, a risolvere l'enigma. Perché il cuoio col passare degli anni si è ristretto ed ora, da quel foro, è impossibile stabilire con certezza il calibro ed il tipo di arma impiegata.

Solo la riesumazione dei resti della vittima, con il relativo esame del cranio, potrebbe eventualmente fornire una risposta certa sul tipo di fucile imbracciato dal cecchino.

IL PROIETTILE. Un indizio che tuttavia, per quanto importante, non risolverebbe definitivamente il caso. Supponiamo che venga accertato che ad uccidere il generale sia stato un proiettile calibro 8 partito da un fucile austriaco Mannlicher, anziché un calibro 6,5 esploso dal modello 91 italiano. Ebbene, in tal caso, ci troveremo comunque nell'impossibilità di identificare con certezza la nazionalità e l'autore di quello che qualcuno ha osato beffardamente definire come 'il più bel tiro della Prima guerra mondiale", per la precisione millimetrica con la quale andò a segno. Non sfugge una certa macabra ironia, a chi la voglia intendere, sull'obiettivo centrato, per l'appunto il generale Cantore, cioè uno delle alte gerarchie militari accusate all'epoca dai soldati di mandare allo sbaraglio le truppe con assalti alle trincee nemiche su terreno scoperto che risultavano micidiali.

Ma qualsiasi sia stata l'arma usata, dunque, è ancora un giallo sulla morte di Cantore. Si racconta che pochi istanti prima di morire il generale Antonio Cantore, comandante della Seconda divisione della Quarta armata in Cadore, si rivolse ad un soldato che lo invitava a ritirarsi in trincea dicendo: 'Non è stata ancora fusa la pallottola per me!" e ancora: 'Tiratori principianti!" riferito ai cecchini austriaci. Bell'uomo, alto, tutto d'un pezzo, coraggioso e sprezzante del pericolo, Antonio Cantore era un militare di vecchio stampo, che si era guadagnato sul campo la seconda stelletta di generale di divisione (equivalente al grado odierno di maggior generale).

FORCELLA FONTANA NEGRA. E' il pomeriggio del 20 luglio 1915 a Forcella Fontana Negra, nelle Tofane, quando il generale, rimane fermo, impassibile a due proiettili che lo sfiorano. E cade subito dopo colpito mortalmente da un terzo colpo che lo centra in piena fronte forando la visiera del berretto che portava abbassato sul capo. Nato a Sampierdarena (Genova) 55 anni prima, il 'Padre degli Alpini" si era fatto notare nella Guerra di Libia dove comandava il Reggimento Speciale Alpino formato dai Battaglioni Susa, Vestone e Tolmezzo. Poi, all'inizio della Prima guerra mondiale, viene promosso generale di divisione in seguito alle azioni brillanti sul Monte Baldo del maggio del 1915. E viene quindi assegnato sul fronte delle Tofane, in sostituzione del collega Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo tenero nel comando. Pare addirittura che interi battaglioni si fossero rifiutati di combattere.

Anche perché da 400 anni Cortina d'Ampezzo era sotto il “dominio” austriaco che peraltro aveva governato con una amministrazione corretta e rispettosa delle tradizioni (nelle scuole si insegnava l'italiano) e dunque non c'era alcun motivo di ostilità. La fama di Cantore tra la truppa, invece, nella versione non ortodossa, era quella di un militare fanatico, che li avrebbe certamente condotti alla morte. Il piano che andò ad illustrare la mattina del 20 luglio 1915, quando uscito dall'Hotel Posta raggiunse il villaggio Vervei dove alloggiavano i suoi ufficiali, prevedeva l'intera evacuazione della popolazione civile di Cortina. Dopodiché sarebbe seguito l'attacco frontale alle postazioni austriache che si trovavano a quota 1800 metri. Come dire che i soldati italiani, dalle loro trincee a 1300 metri avrebbero dovuto risalire la montagna per circa 500 metri sotto il fuoco degli austro-ungarici. Un sicuro bagno di sangue al quale gli austriaci avrebbero fatto seguire la distruzione della città, grandi alberghi compresi (Cortina all'epoca era già un centro turistico internazionale). Tanti buoni motivi, insomma, che avvalorano la tesi dell'uccisione del generale per mano italiana. Di più.

L'INVIATO DI CADORNA. Si racconta, che i soldati italiani festeggiarono per una settimana la morte dell'alto ufficiale. Antonio Cantore, insomma, inviato da Cadorna come ariete di sfondamento del fronte, non dev'esser stato molto simpatico ai suoi uomini! Benché la storiografia ufficiale e la retorica dell'epoca lo dipingano come un 'esempio costante e fulgido di indomito ardimento alle sue truppe", contrapposta alla vox populi che, come abbiamo detto, demolisce 'quell'anima eroica degli Alpini, salda come le rupi che lo videro cadere colpito in fronte, ardente come la fede per cui mori", come recita l'epigrafe sul poderoso obelisco eretto in sua memoria a Cortina d'Ampezzo. 
A distanza di 90 anni, non è nemmeno possibile determinare se sia stato un proiettile calibro 8 mm. proveniente da un Mannlicher austo-ungarico di un cecchino nemico, oppure un calibro 6,5 mm. esploso dal'91 di un italiano a forare la visiera in cuoio del kepi del generale. 
Forti dubbi permangono tutt'oggi addirittura sul luogo dell'evento, come ha detto e scritto lo storico ampezzano Paolo Giacomel in questi anni: «Perché mai il nemico avrebbe risparmiato gli altri quattro ufficiali che erano insieme a Cantore a Forcella Negra? E perché nella motivazione dell'onorificenza concessa al capitano Adolfo Argentero di Verona, datata 21 luglio del 1915 (il giorno dopo l'uccisione di Cantore), per aver recuperato la salma del suo comandante, non si nomina nemmeno il generale?». 
Anche Gianrodolfo Rotasso, esperto d'armi, ha molte perplessità al riguardo: «E' vero che il foro della visiera oggi è quello di un proiettile 6,5 millimetri. Ma se consideriamo che il cuoio con il tempo si restringe, non si può nemmeno escludere che ad attraversarlo in origine sia stato un proiettile calibro 8 mm del Mannlicher austriaco. 
L'unica cosa assolutamente certa - prosegue l'esperto balistico ed ex maresciallo degli Alpini - è, che per colpire con una simile precisione un bersaglio mobile alla distanza di poco meno di 200 metri, dall'alto verso il basso, e dunque compensando il calo del proiettile, il cecchino dev'essere stato un tiratore formidabile. Non dimentichiamo che stiamo parlando di un proiettile cilindrico di vecchia concezione, pesante e tozzo, con traiettoria poco tesa, derivato dal vecchio calibro 8 a polvere nera».

IL CECCHINO. E allora potrebbe essere verosimile la dichiarazione resa in punto di morte ed apparsa sui giornali una quarantina d'anni fa da un certo Attilio Berlanda di Levico Terme (Trento), che all'epoca combatteva dalla parte degli Austo-ungarici, e dunque dopo l'annessione del Trentino Alto Adige all'Italia, non aveva alcun motivo di rivelare d'esser stato lui ad uccidere il famoso general Cantore detto il 'Padre degli Alpini", se non in punto di morte, appunto, come fece. Sicuramente Berlanda possedeva le doti di buon tiratore. Risulta, infatti, che fu insignito dell'Aquila d'argento alle gare di tiro militari di Vienna.

«Ma vi furono perlomeno altre quattro rivendicazioni in tal senso», commenta Paolo Giacomel, per il quale non esistono ad oggi sufficienti elementi che possano chiarire se a premere il grilletto sia stata effettivamente una mano amica o nemica.

E nemmeno la riesumazione e l'esame del cranio, che potrebbe chiarire una volta per tutte il calibro dell'arma usata dal cecchino, dopo tanti anni avrebbe più molto senso, né risolverebbe il giallo.
Roberto De Nart

Fonte: srs di Roberto De Nart, da  Il corriere delle Alpi del  15 luglio 2005



UNA PALLOTTOLA PER IL GENERALE MACELLAIO: AUSTRIACA O ITALIANA?






DI MILLO BOZZOLAN · 6 NOVEMBRE 2019


Eroe per l’Italia, era invece considerato un vero macellaio dagli alpini e dai fanti, dato che la sua comparsa al fronte significava solo attacchi allo scoperto e carneficine senza senso. Parlo del Generale Cantore di cui Emilio Lussu, testimone oculare, descrisse le gesta di un personaggio simile (gen. Leone), che mi dicono era Giacinto Ferrero . Quando arrivava lui tutti si toccavano gli attributi e scrivevano le ultime righe a casa.  E si auguravano la sua morte, considerandolo un alleato degli austriaci

 E’ conservato un suo cimelio, il kepì che indossava al momento della morte per mano di un cecchino. Ma, dato l’odio della truppa, e i casi analoghi di ufficiali “zelanti” fucilati alle spalle da fuoco amico, l’articolo esamina le varie ipotesi sulla morte.
Poteva esser stato colpito anche da un tiratore di Cortina, motivato dal fatto che l’offensiva italiana avrebbe significato la distruzione certa della cittadina, già allora un centro turistico internazionale.

“Era italiano o austriaco il cecchino che il 20 luglio del 1915 sulle Tofane uccise il generale Antonio Cantore? Ed a trapassare il cranio dell’ufficiale fu un proiettile calibro 8 millimetri austriaco o un 6.5 millimetri  italiano? A distanza di novant’anni l’interrogativo è ancora aperto. Il foro lasciato dal proiettile sulla visiera del berretto non basta, da solo, a risolvere l’enigma. Perché il cuoio col passare degli anni si è ristretto ed ora, da quel foro, è impossibile stabilire con certezza il calibro ed il tipo di arma impiegata.
Solo la riesumazione dei resti della vittima, con il relativo esame del cranio, potrebbe eventualmente fornire una risposta certa sul tipo di fucile imbracciato dal cecchino…..





E’ il pomeriggio del 20 luglio 1915 a Forcella Fontana Negra, nelle Tofane, quando il generale, rimane fermo, impassibile a due proiettili che lo sfiorano. E cade subito dopo colpito mortalmente da un terzo colpo che lo centra in piena fronte forando la visiera del berretto che portava abbassato sul capo.

Nato a Sampierdarena (Genova) 55 anni prima, il ‘Padre degli Alpini” si era fatto notare nella Guerra di Libia dove comandava il Reggimento Speciale Alpino formato dai Battaglioni Susa, Vestone e Tolmezzo. Poi, all’inizio della Prima guerra mondiale, viene promosso generale di divisione in seguito alle azioni brillanti sul Monte Baldo del maggio del 1915. E viene quindi assegnato sul fronte delle Tofane, in sostituzione del collega Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo tenero nel comando. Pare addirittura che interi battaglioni si fossero rifiutati di combattere.

Anche perché da 400 anni Cortina d’Ampezzo era sotto il dominio austriaco che peraltro aveva governato con una amministrazione corretta e rispettosa delle tradizioni (nelle scuole si insegnava l’italiano) e dunque non c’era alcun motivo di ostilità.
La fama di Cantore tra la truppa, invece, nella versione non ortodossa, era quella di un militare fanatico, che li avrebbe certamente condotti alla morte. Il piano che andò ad illustrare la mattina del 20 luglio 1915, quando uscito dall’Hotel Posta raggiunse il villaggio Vervei dove alloggiavano i suoi ufficiali, prevedeva l’intera evacuazione della popolazione civile di Cortina.  Dopodiché sarebbe seguito l’attacco frontale alle postazioni austriache che si trovavano a quota 1800 metri. Come dire che i soldati italiani, dalle loro trincee a 1300 metri avrebbero dovuto risalire la montagna per circa 500 metri sotto il fuoco degli austro-ungarici. Un sicuro bagno di sangue al quale gli austriaci avrebbero fatto seguire la distruzione della città, grandi alberghi compresi (Cortina all’epoca era già un centro turistico internazionale). Tanti buoni motivi, insomma, che avvalorano la tesi dell’uccisione del generale per mano italiana.

Benché la storiografia ufficiale e la retorica dell’epoca lo dipingano come un ‘esempio costante e fulgido di indomito ardimento alle sue truppe”, contrapposta alla vox populi che, come abbiamo detto, demolisce “quell’anima eroica degli Alpini, salda come le rupi che lo videro cadere colpito in fronte, ardente come la fede per cui mori”,…come recita l’epigrafe sul poderoso obelisco eretto in sua memoria a Cortina d’Ampezzo. A distanza di 90 anni, non è nemmeno possibile determinare se sia stato un proiettile calibro 8 mm. proveniente da un Mannlicher austro-ungarico di un cecchino nemico, oppure un calibro 6,5 mm. esploso dal’91 di un italiano a forare la visiera in cuoio del kepi del generale.

articolo intero qua

Fonte: srs di Milo Bozzolan, da Veneto Storia  del 6 novembre 2019