mercoledì 31 luglio 2013

LA LIBERTÀ INDIVIDUALE È LA SOLA NOSTRA SICUREZZA DAGLI ABUSI DEI GOVERNANTI





Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la traduzione integrale in italiano dell’articolo Liberty and Safety di Andrew P. Napolitano, ex giudice della Corte Superiore del New Jersey, commentatore ed opinionista presso Fox News Channel. Ha scritto sette libri sulla Costituzione americana. (Traduzione di Luca Fusari)

Quando Edward Snowden ha rivelato che il governo federale, non rispettando il Quarto Emendamento della Costituzione, in maniera illegittima ed incostituzionale, ha spiato tutti gli americani usanti telefoni, messaggi di testo o email per comunicare con altre persone, ha aperto un vaso di Pandora di accuse e recriminazioni reciproche. Le accuse che ha mosso sono che gli americani hanno un governo che assale le loro libertà personali, opera in segreto e viola la Costituzione e i valori su cui essa si fonda. Le recriminazioni a tali accuse sono che la sicurezza sia un bene più grande della libertà e che Snowden abbia interferito con la capacità del governo di tenerci al sicuro esponendo i suoi segreti, e per tal motivo dovrebbe essere messo a tacere e punito.

Nel corso di questo dibattito avrete sentito l’argomentazione che tutti debbano sacrificare un po’ della loro libertà al fine di garantire la nostra sicurezza, che la libertà e la sicurezza sono in equilibrio, e che quando si scontrano è il governo che deve bilanciare l’una contro l’altra e decidere quale delle due debba prevalere. Questo è naturalmente un argomento che il governo ama, in quanto presuppone che il governo abbia il potere morale, giuridico e costituzionale per agire in maniera diabolica.

Non è così. Dagli imperatori romani ai capi tribù, da re Giorgio III ai rivoluzionari francesi, dai dittatori del XX° secolo ai presidenti americani del XXI° secolo, tutti hanno affermato che il loro primo compito è quello di tenerci al sicuro, e così facendo essi si sono in qualche modo arrogati il diritto di portar via le nostre libertà, qualsiasi sia la motivazione presente nei loro discorsi, capricciosamente amano invadere la privacy ed ambiscono alla nostra proprietà privata e alla nostra ricchezza.

Questo argomento è antitetico al valore principale su cui l’America è stata fondata. Tale valore è semplice, gli individui (creati ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi in possesso delle libertà che Egli gode e ha condiviso con noi) sono i fautori del governo. Un sovrano è la fonte dei suoi poteri. Il governo non è un sovrano. Tutta la libertà che gli individui possiedono l’hanno ricevuta in dono da Dio, che è l’unico vero sovrano. Tutti i poteri che il governo possiede lo ha ricevuto da noi, dai nostri depositi personali di libertà.

Thomas Jefferson ha riconosciuto questo quando ha scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza che i nostri diritti sono inalienabili, che non possono essere separati da noi, perché ne siamo stati dotati dal nostro Creatore. James Madison, che ha scritto la Costituzione, ha osservato che nella storia del mondo, quando la libertà è stata vinta, ciò è accaduto perché chi era al potere malvolentieri ha consentito alla libertà, quale condizione per restare al potere o addirittura poter rimanere in vita.

Ma non in America. In America si è verificato il contrario, la libera gente ha acconsentito volontariamente al governo di esercitare un limitato potere necessario per proteggere la libertà. Questo è noto come “il consenso dei governati”. Per Jefferson e Madison, un governo privo di consenso è illegittimo.

Il principale autore della Dichiarazione d’Indipendenza e il principale autore della Costituzione erano dunque dello stesso parere: tutte le persone sono per natura libere, e per conservare tali libertà hanno dato il loro consenso ad un governo. Quello fu il governo che ci diedero, non era il potere a permettere la libertà, ma la libertà a permettere il potere, e lo strumento di tale autorizzazione è stata la Costituzione.

La Costituzione è stata creata da uomini liberi al fine di definire e limitare il governo in modo che esso possa difendere ma non minacciare le nostre libertà. Dal momento che solo delle persone libere possono acconsentire ad un governo, il governo non può esistere legalmente senza questi consensi. Qui è dove i tiranni moderni e gli apologeti del grande governo sono riusciti a confondere le persone ben intenzionate. Hanno elevato la sicurezza (che è un obiettivo di governo) al livello della libertà, la quale ha creato il governo. Questo argomento comune e pedante rende la creatura (la sicurezza) pari al suo creatore (la libertà). Questa è una impossibilità metafisica perché presume che il bene da acquistare sia in qualche modo uguale alle libere scelte dell’acquirente.

Cosa significa? Significa che quando i politici ci dicono che la libertà e la sicurezza devono essere bilanciate l’una contro l’altra, sono filosoficamente, storicamente e costituzionalmente in errore. La libertà è la condizione basilare, la libertà è l’essenza del nostro stato naturale, essa non può assolutamente essere uguale a un bene che abbiamo incaricato al governo di ottenere.

Qual è l’unico rapporto morale tra libertà e sicurezza? Non può essere d’equilibrio, perché la libertà e la sicurezza non sono uguali, dato che l’una genera l’altra. Può essere solo una predisposizione continua verso la preferenza della libertà. Ogni scontro concepibile tra le libere scelte delle persone e le loro istruzioni sul loro governo al fine di salvaguardare la libertà devono favorire le libere scelte, perché la libertà è inalienabile.

Così come non posso autorizzare il governo nel togliere la tua libertà, non più di quanto possa autorizzare a portar via la mia, in una società libera una maggioranza non può autorizzare il governo a sottrarre la libertà ad un individuo. Quindi, se in qualche modo la libertà e la sicurezza si scontrano, è la libera scelta di ogni persona che risolve lo scontro, e nessun governo può moralmente farlo in sua vece.

Il governo dovrà sempre fare delle scelte che favoriscano il suo potere, perché, come Ludwig von Mises ci ha ricordato, il governo è essenzialmente la negazione della libertà. Se qualcuno crede veramente che con l’essere azzittiti, monitorati o tassati dal governo, esso ci protegga, e che quelli siano i mezzi meno restrittivi per farlo, tale persona si contraddice nel suo discorso sulla privacy e sulla ricchezza. Il resto di noi manterrà la nostra convinzione e baderà da sé alla propria sicurezza.

Le ragioni per le quali abbiamo accettato un governo limitato sono la preservazione della libertà di perseguire la felicità, la libertà di essere diversi e la libertà di essere lasciati soli. Nessuna di queste libertà può esistere se siamo asserviti al governo in nome della sicurezza o di qualsiasi altra motivazione.


Fonte: visto su L’Indipendenza del  29 luglio 2013

lunedì 29 luglio 2013

IL LAVORO È FONTE DI VALORI MORALI E SPIRITUALI, MA SOLO SE A MISURA D’UOMO




di Francesco Lamendola

Il fatto che la riflessione sul senso, sul fine e sulla dignità del lavoro umano sia così scarsa e lacunosa nel pensiero dei filosofi moderni è la miglior testimonianza dell’obnubilamento che si è impossessato della nostra civiltà e di quanto gli effimeri e pericolosi successi della tecnica e l’aumento dei beni materiali (ma a vantaggio, ricordiamolo, solo di una piccola parte dell’umanità) le abbiano fatto perdere di vista i valori che contano e senza i quali non può esservi autentico progresso, ma solo crescita quantitativa, disordinata e potenzialmente distruttiva.

Eppure, esistevano tutti gli elementi per rendersi conto di quanto ci si stesse allontanando dalla giusta prospettiva; c’era di che riflettere su come si stesse smarrendo il senso della dimensione umana, laddove ci si limitava ad inseguire i miti ingannevoli di un progresso materiale fine a se stesso, che rendeva – è vero – la vita più comoda sul piano materiale - anche se, lo ripetiamo, per una parte soltanto del genere umano, e a detrimento di tutte le altre specie viventi -,  ma che allontanava sempre di più l’uomo dal significato spirituale della sua esistenza, lo alienava dal lavoro delle sue mani, lo imprigionava entro un rigido meccanismo produttivo – e, da ultimo, speculativo – nel quale era destino che finisse stritolato e fagocitato, ridotto a servitore cieco e obbediente di leggi impersonali che lo avrebbero degradato a semplice strumento.

Questo pericolo avrebbe dovuto apparire chiaro allorché, sulla scia dello sviluppo industriale del XX secolo, anche il mondo dell’agricoltura è stato investito dalla ventata della modernizzazione e il rapporto rispettoso, amorevole, quasi sacrale dell’uomo con la terra è stato sostituito da un rapporto di predazione, di saccheggio, di sfruttamento cieco e indiscriminato.

Giovanni Brotto, un parroco che è stato anche, per oltre mezzo secolo (dal 1955 alla morte, avvenuta nel 2010), consigliere ecclesiastico nella Coldiretti di Treviso, organismo che fin dal suo statuto si ispira alla dottrina sociale della Chiesa, ha parlato del valore morale e spirituale del lavoro agricolo in termini che si potrebbero estendere al lavoro in quanto tale, purché si tratti di un lavoro a misura d’uomo e non di sfruttamento o alienazione; e che potrebbero essere accettati e condivisi, in gran parte, anche da chi non muove da una prospettiva specificamente cristiana, ma crede nella dimensione spirituale della vita (da: G. Brotto, «Pensieri sociali sulla vita e professione agricola», a cura della Federazione Provinciale Coldiretti di Treviso, 1969, p. 21-24): 
«L’attività agricola esige:  pazienza nelle difficoltà;  costanza nella fatica;  solerzia nel trovare vie nuove;  coraggio nell’affrontarle. Favorisce la semplicità di vita:  gesto, parola, tratto, spontaneità, limpidezza; sviluppa i talenti della persona  e la arricchisce moralmente. Ha un contenuto di carità, di servizio sociale a favore della giustizia e della pace nel mondo. La natura è occasione di ricreazione, di divertimento, di sviluppo, di contemplazione. Pio XII: “La terra ha prodotto nei secoli una categoria di persone sane di mente e di corpo”.

Le campagne, i “pagus”, si convertirono per ultime;  ma sono sempre le ultime a scristianizzarsi.  La tradizione religiosa fu sempre viva nel mondo rurale. Giovanni XXIII disse: L’attività agricola conserva l’integrità della vita religiosa, costantemente e schiettamente vissuta.

La Bibbia si muove, quasi interamente, sullo sfondo di una economia  e artigiana. Sessanta “passi”  del V. T. e 25 del N. T. illustrano aspetti tecnici, sociali, liturgici, religioso-morali dell’attività agricola. Il lavoro della terra è esecuzione di un comando di Dio. Realizza il piano divino di estendere la redenzione anche alle cose che, con il lavoro, vengono messe a disposizione e fatte servire alla utilità dell’uomo. È una collaborazione alla crescita del mondo.  La terra è richiamo alla bontà delle cose. Esse sono un raggio della Bontà, Potenza, Sapienza divine. La fatica del lavoro agricolo assolve a un compito purificatore. Ha valore di merito. Si nobilita e libera mediante il progresso messo a servizio dell’uomo. È un atto nobile, degno di rispetto, perché è attività di una persona divinizzata, di un figlio di Dio. La terra,  p richiamo mistico alla contemplazione, alla preghiera.

Ha un valore sacramentale. Le cose vengono da Dio, sono per noi; recano l’impronta di Cristo che nella umanità le ha consacrate. Sono segni visibili di realtà invisibili, spirituali. Hanno un messaggio per noi: l’aratro è immagine della croce; i solchi sono i cuori scavati dal dolore, il granaio è il regno di Dio, l’acqua simboleggia la grazia, il fuoco l’amore, la luce la verità, le tenebre il peccato, il sale la bontà, l’olivo la pace. Sotto le mani di Cristo tutto si trasforma: l’acqua in vino a Cana, il vino in sangue nel Cenacolo, il pane nel Corpo di Cristo. La terra solidarizza con l’uomo nel premio o nel castigo, nella gioia o nel dolore. Con lui si esalta nella lode o trema  per siccità e disgrazia.  È, il teatro della nostra vita e santificazione. L’uomo lavora, ma è sempre  “Dio il protagonista che dà l’incremento”. Pio XII: “Alla luce della fede, penetrando il senso religioso della creazione, si dà alla pietra una basse solida e si restituisce alla vita rurale l’equilibrio cristiano che fece a lungo la sua forza e stabilità”. Ecco perché nel mondo rurale la dimensione religiosa è sempre molto viva. In sintesi, l’attività del coltivatore è una professione  completa perché sviluppa i valori materiali, tecnici, umani (intellettuali, sociali, morali, spirituali). È quindi in grado di rispondere alle esigenze  della persona umana e di svilupparla. […] Non basta più un giudizio di quantità sulle cose possedute o prodotte. L’agricoltura è attività sulle cose vive e no, per trasformarle, moltiplicarle, distribuirle.
Perfeziona l’uomo che quelle cose usa per vivere e crescere, perfeziona il lavoratore che su quelle cose, complesse e delicate, esercita la sua intelligenza; perfeziona il cittadino che, se riceve dagli altri, deve anche dare agli altri; perfeziona il cristiano chiamato a fare la volontà divina dominando le cose, consacrandole, purificandole, ridestinandole al bene di tutti, a contemplazione, a scala per salire alle realtà invisibili…» 

Ci sembrano concetti, ripetiamo, largamente condivisibili anche da chi non muova da una specifica prospettiva di fede, ma abbia sufficiente obiettività per riconoscere il valore formativo, spirituale e morale del lavoro, di quello agricolo in modo particolare; solo l’accento posto sul “dominio” da esercitare sopra le cose ci sembra una nota stonata (anche da un punto di vista cristiano), perché non di dominio si dovrebbe parlare, ma di uso legittimo e rispettoso di quanto la terra, madre amorevole, mette a disposizione dei suoi figli.

Quando quelle parole venivano scritte, la sensibilità ecologica, purtroppo, non si era ancora adeguatamente sviluppata ed era diffusa l’idea, non solo nella cultura religiosa, ma anche – e soprattutto – in quella laica, che l’uomo abbia il pieno diritto di disporre da padrone delle cose, manipolandole a suo piacere; furono in pochissimi ad intuire che, da una tale filosofia, non poteva derivare che un progressivo snaturamento del giusto rapporto fra l’uomo e la terra, fra l’uomo e gli altri esseri viventi e, in ultima analisi, anche dell’uomo nei confronti dei suoi simili e di se stesso, in quanto anch’egli partecipe – almeno in parte – della realtà naturale.

In particolare, furono in pochi a rendersi conto che lo sviluppo industriale, concepito come una forma “naturale” di dominio sulle cose, avrebbe portato non solo ai disordini, alle contraddizioni e alle laceranti devastazioni, materiali e morali, di un “progresso” basato unicamente sull’aumento della produzione di fabbrica, ma anche allo stravolgimento della stessa agricoltura e della filosofia di vita del contadino. Furono in pochissimi a rendersi conto che, in un mondo ridotto a luogo di esclusiva concorrenza economica e di competizione sociale esasperata, e quindi anche a campo di battaglia dell’uomo contro la natura, il lavoro non sarebbe più stato fonte di valori morali e spirituali, ma avrebbe condotto a un progressivo inaridimento, a una progressiva alienazione, a una progressiva disumanizzazione del lavoratore.

Eppure, i segni premonitori c’erano tutti. Non era poi così difficile intuire che, una volta posta la massimizzazione del profitto al centro dell’orizzonte del lavoratore, il contadino non si sarebbe fatto scrupolo di trasformarsi in un nemico dichiarato della natura; che avrebbe fatto ricorso a quantità sempre più massicce di prodotti chimici, avvelenando la terra e i suoi prodotti, fino al punto da dover indossare un autentico scafandro per poter vendemmiare senza intossicare gravemente il proprio organismo; che avrebbe eliminato le siepi, dismesso le colture diversificate, abbandonato i vigneti più malagevoli di collina, per concentrare tutte le sue cure nella monocoltura intensiva, desacralizzando il rapporto con la terra e riducendolo ad uno sfruttamento sistematico e brutale; che avrebbe trasformato gli animali da fedeli collaboratori della sua fatica in schiavi da ingrassare, da mungere e da far rendere sempre di più, imprigionandoli in stalle “razionali” simili a luoghi di tortura, affidandoli alle macchine e riducendoli essi stessi a delle macchine muggenti, belanti e chioccianti.

E quel che stava per accadere nell’agricoltura, non era che lo specchio di quanto già si era verificato e continuava a verificarsi nel mondo dell’industria, dell’artigianato, dei servizi, delle libere professioni. Il lavoro si andava trasformando in un meccanismo puramente materiale, atto a produrre dei profitti e a immettere sul mercato non cose utili e necessarie, non cose belle e sane, fatte con amore e con virtù, ma cose sempre più inutili e perfino dannose, sempre più ingombranti e disumane, le quali, un poco alla volta, avrebbero trasformato il lavoratore in un automa senz’anima e degradato il lavoro stesso a una fatica ingrata e molesta, a una faccenda sgradevole e persino detestabile, a una prigione da maledire o a un non-senso da sopportare senza ombra di gioia, di speranza, di bellezza, di spiritualità.

Fu errore colpevole il non averlo visto; ma fu errore di tutti, a cominciare dagli uomini di cultura che, pure, avevano gli strumenti per lanciare un grido d’allarme; per proseguire con i sindacalisti, che si preoccuparono unicamente della giustizia sociale e disconobbero il valore spirituale e la dignità fondamentale del lavoro in se stesso; per arrivare agli economisti, agli amministratori pubblici e agli uomini politici, a null’altro interessati che ai falsi miti del “progresso”, della “crescita”, dello “sviluppo”, incapaci di avvedersi che, così facendo, contribuivano alla corsa verso il precipizio.

E che non vi sia stato alcun serio ripensamento nemmeno in seguito, quando i danni e le storture del modello adottato sono apparsi evidenti e ci hanno portati in prossimità di una crisi ecologica planetaria e, forse, irreversibile, lo dimostra il fatto che gli intellettuali (non osiamo parlare di veri “uomini di cultura”, categoria forse estinta), i sindacalisti, gli economisti, gli amministratori e i politici di oggi non hanno saputo fare altro che proporre correzioni pressoché impercettibili alla direzione catastrofica d’un tale sistema, parlando timidamente, e contraddittoriamente, di “sviluppo sostenibile” e altre sciocchezze del genere: come se si potesse conciliare il concetto di uno sviluppo materiale illimitato (e sottolineiamo i due aggettivi, sempre sottesi, di “materiale” e “illimitato”) con l’idea della sostenibilità, ossia di un  modello economico, sociale e culturale che non sia in guerra perpetua contro la natura, ma in armonia con essa, in atteggiamento di rispetto verso di essa, capace di gratitudine e amore nei suoi confronti.

Sì, la natura tutta aspira alla redenzione, come afferma San Paolo in un celebre passo delle sue epistole; ma tale redenzione non si attua per mezzo di uno sfruttamento illimitato da parte dell’uomo, bensì mediante una pacifica, saggia e filiale collaborazione tra l’uomo e la terra, tra l’uomo e l’aria, tra l’uomo e l’acqua, tra l’uomo e le altre creature viventi. Non si tratta di convertirsi ad un naturalismo, perché non si vuol fare della natura una realtà assoluta, auto-sussistente ed autonoma; ma di una forma di spiritualismo che sappia vedere come l’uomo, che è parte della natura, anche se parte evoluta e cosciente di essa, non possa né debba esercitare uno sfruttamento selvaggio ed ingrato nei suoi confronti, ma debba porsi verso di essa in un atteggiamento di meraviglia, di gratitudine, di ammirazione, riconoscendo che essa gli è madre, anche se non è l’Essere dal quale ogni ente deriva e nel quale ogni ente trova il proprio scopo e la propria ansia di redenzione.

Perché l’uomo, a sua volta, non è una creatura auto-sussistente ed orgogliosamente autonoma: è creatura e non signore, né delle cose, né di se stesso; il suo atteggiamento verso il mondo non deve ridursi alla mera e presuntuosa “curiositas” (singolare il fatto che «Curiosity» sia il nome della sonda spaziale inviata recentemente sul pianeta Marte), ma deve ispirarsi alla “virtus”, fatta di senso del limite, di senso del mistero, di compassione e di amore verso tutte le cose, quelle che possono essergli utili e anche quelle che, in apparenza, non gli servono o gli sono addirittura ostili. Perché tutto ciò che esiste ha un significato; e, se è vero che l’uomo ha il diritto di difendersi dalle minacce che gli vengono dalla natura (virus, batteri, tumori), non per questo deve assumere le vesti del vendicatore o dello sterminatore: la sua azione deve essere proporzionata, lungimirante, consapevole. Non è ammissibile che egli, per combattere le zanzare, sconvolga l’intero ecosistema di vaste regioni terrestri; né che egli, per sperimentare nuovi farmaci, vivisezioni e torturi migliaia e milioni di altre creature viventi – quando, poi, le malattie che intende debellare sono proprio il risultato del suo modo arrogante e radicalmente sbagliato di porsi nei confronti della natura.

Ma quel che sta accadendo oggi, era già inscritto nei presupposti filosofici della modernità, fin dal suo sorgere: fin da quando la terra è stata vista solo come fonte di guadagno e come occasione di sfruttamento implacabile delle sue risorse, e fin da quando il lavoratore della terra è stato deriso dal cittadino, dal mercante, dal “borghese”: ridotto a zimbello di scrittori e intellettuali, a figura comica del teatro e della letteratura; inoltre, fin da quando l’uomo ha voltato le spalle alla sua condizione creaturale e ha preteso di ergersi a signore assoluto di un mondo desacralizzato, divenuto soltanto un deposito da saccheggiare e una discarica ove gettare i prodotti di rifiuto del suo “progresso”.

Non sappiamo se vi siano ancora i margini per rimediare a tale sbaglio colossale, per invertire la direzione di marcia, per ricostruire una giusta prospettiva spirituale, che restituisca valore, bellezza e dignità alla natura ed al lavoro umano. Sappiamo però che è uno sforzo che va fatto: ne va non soltanto della nostra sopravvivenza, ma anche della nostra anima.

Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Fonte: visto su Arianna Editrice  del  15 luglio 2013

giovedì 25 luglio 2013

COME UCCIDERE I COMMERCIANTI SAVONA, 5MILA EURO DI MULTA PER DUE PEZZI DI PIZZA




Nel Savonese una pizzeria al taglio rischia di chiudere per aver servito due tranci di pizza ai clienti seduti al tavolo. E intanto altri 250mila posti di lavoro vanno in fumo

Entrare in una pizzeria al taglio, chiedere una margherita e sedersi mentre viene scaldata, ringraziare il gestore che - con un gesto gentile - ci porta il nostro trancio fumante al tavolo, senza farci alzare.

Una scena ordinaria in molti locali, ma che rischia di costare cara. Come è successo ad Albisola Superiore (Savona), dove la pizzeria "Benvenuti al Sud" si è vista comminare una multa da 5mila euro solo perché il proprietario ha portato due pezzi di pizza ai clienti seduti al tavolino esterno.

Una sanzione severa imposta dalle normative che vietano l'esercizio di servizi non previsti dalle licenze e sulle quali gli agenti che in questi giorni stanno battendo a tappeto il litorale savonese non possono fare molto.

Come racconta Il Secolo XIX, a rimetterci è la pizzeria, una delle tante imprese costrette a chiudere a causa della burocrazia. "Abbiamo fatto un consistente investimento per affittare il locale, rimetterlo a posto e avviare l’attività", spiega il titolare Massimo Abategiovanni, "Ora non siamo in condizione di pagare, rischiamo di finire in ginocchio. Parleremo con il commercialista per valutare cosa si può fare. Abbiamo sbagliato, perché la nostra licenza non permette di servire al tavolo. Il cliente può sedersi, ma deve prendersi la pizza dal banco. Il nostro errore è stato di aver fatto una gentilezza agli unici due clienti di quel pomeriggio. Mai avremmo pensato di incorrere in una sanzione del genere. Tra l’altro la crisi si sente, il flusso di persone che speravamo di trovare non c’è affatto".
Dal canto loro i vigili difendono il proprio lavoro e sottolineano come i controlli erano stati annunciati: "Abbiamo fatto il giro delle attività e fatto presente che devono ottemperare a tutte le prescrizioni, dall’esposizione del cartello degli orari al loro rispetto, fino alle disposizioni a seconda del tipo di attività". 
A rimetterci è anche il Paese, che vede l'ennesima azienda chiudere i battenti e sfumare la possibilità di occupazione. I posti di lavoro, peraltro, sono sempre meno. Come rivela Unioncamere solo nel 2013 ne perdereme 250mila, con un calo di contratti attivati di 112mila rispetto a quelli preventivati. Una dinamica negativa nell'occupazione che "tenderà a colpire soprattutto quegli ambiti (territoriali, settoriali, di dimensione d’impresa) più strettamente dipendenti dal mercato interno: il Mezzogiorno (da cui è atteso il 35% del saldo negativo complessivo), le imprese con meno di 10 dipendenti (che prevedono di ridurre la forza lavoro di 142.600 unità), le costruzioni (-59mila), il commercio al dettaglio (-24.500), il comparto turistico (-25.100)". E lo Stato se la prende con chi serve due pezzi di pizza.

Fonte:  visto su Il Giornale.it di martedì 23 luglio 2013




PIZZA SERVITA AL TAVOLO, MULTA DI 5MILA EURO



Massimo Abategiovanni, titolare del negozio di pizza “Benvenuti al Sud”


Albisola Superiore - Cinquemila euro di multa per due pezzi di pizza.
Con la campagna di controlli sui pubblici esercizi sono fioccate anche multe salate per le attività commerciali scoperte a esercitare servizi non previsti dalle licenze. Il caso più eclatante ha colpito “Benvenuti al Sud”, un locale “pizza al taglio” in via IV Novembre, che si è visto elevare un verbale da cinquemila euro per aver portato due pezzi di pizza ai clienti seduti al tavolino esterno come se fosse una normale pizzeria. Una sanzione severa, ma imposta dalle normative e sulla quale gli agenti non hanno margini discrezionali.
Il titolare, Massimo Abategiovanni, pur ammettendo l’errore, ha sottolineato la mancanza di tolleranza ed ha stigmatizzato il pugno di ferro usato dai vigili pubblicando su Facebook la notifica e “ringraziando” polemicamente i vigili. L’uscita sul popolare social network ha scatenato i commenti a favore o contro l’operato degli agenti, oltre settanta in poche ore, e fra questi anche qualche privato cittadino che è passato dal semplice commento all’offesa esplicita verso la polizia municipale. Ed ora partiranno i provvedimenti di conseguenza. Il comando albisolese ha già salvato e stampato la pagina con i commenti al fine di presentare alla procura della Repubblica una querela per diffamazione contro gli autori dei singoli post offensivi.
Tutto è nato qualche giorno fa, quando due clienti si sono seduti al tavolino davanti a “Benvenuti al Sud”, attività aperta all’inizio di aprile da Massimo, Luciano e Nunzia Abategiovanni, che pensavano di offrire ad Albisola la vera pizza napoletana approfittando del flusso turistico dell’estate e della movida notturna. Ma, oltre alla crisi che ha deluso le aspettative, è arrivata la maximulta per aver servito al tavolo la pizza. «Abbiamo fatto un consistente investimento per affittare il locale, rimetterlo a posto e avviare l’attività – spiega Massimo Abategiovanni -. Ora non siamo in condizione di pagare, rischiamo di finire in ginocchio. Parleremo con il commercialista per valutare cosa si può fare». Luciano Abategiovanni aveva già in una pizzeria a Savona, nella speranza di “intercettare” i turisti ha proposto al fratello Massimo, che lavorava a Nizza, di aprire una nuova attività ad Albisola. E con l’occasione hanno chiamato anche la sorella Nunzia, appena diplomata a Napoli. «Abbiamo sbagliato – ammettono i titolari -, perché la nostra licenza non permette di servire al tavolo. Il cliente può sedersi, ma deve prendersi la pizza dal banco. Il nostro errore è stato di aver fatto una gentilezza agli unici due clienti di quel pomeriggio. Mai avremmo pensato di incorrere in una sanzione del genere. Tra l’altro la crisi si sente, il flusso di persone che speravamo di trovare non c’è affatto».
Dal comando della polizia municipale, però, sottolineano che tutte le nuove attività erano state avvisate all’apertura. «Abbiamo fatto il giro delle attività e fatto presente che devono ottemperare a tutte le prescrizioni, dall’esposizione del cartello degli orari al loro rispetto, fino alle disposizioni a seconda del tipo di attività». Anche il sindaco Franco Orsi è intervenuto sulla questione: «Le attività come bar, ristoranti e pizzerie, devono avere locali giudicati idonei e dotati di bagno, inoltre l’Asl verifica le attrezzature compresi piatti, lavastoviglie d frigoriferi. L’attività di pizza al taglio, invece, può essere svolta da un semplice artigiano e gode di diverse agevolazioni: ad esempio non paga la spazzatura nel laboratorio e gode di regimi semplificati verso il fisco e nell’inquadramento dei dipendenti. Ma non può svolgere attività di somministrazione, cioè servire ai tavoli. Sono regole a tutela della concorrenza e dei consumatori, per questo le sanzioni sono molto salate. Con qualche intervento limitato, anche quel locale potrebbe essere gestito come bar o pizzeria».

Fonte: Visto su  IL SECOLO XIX del   23 luglio 2013