lunedì 28 ottobre 2019

L’I.N.P.S. FU FONDATO DAL FASCISMO COL NOME I.N.F.P.S. “ISTITUTO NAZIONALE FASCISTA DELLA PREVIDENZA SOCIALE” E OPERAVA ANCHE NELLE COLONIE




di  Alberto Alpozzi


Breve storia della nascita dell’IN(F)PS “Istituto Nazionale (Fascista) di Previdenza Sociale”

La Previdenza Sociale nasce oltre cento anni fa, nel 1898, con lo scopo di garantire i lavoratori dai rischi di invalidità, vecchiaia e morte. Era la Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Ma si trattava esclusivamente di un’assicurazione facoltativa e volontaria, finanziata prevalentemente dai contributi versati dai lavoratori, che poteva essere integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e da un contributo libero da parte degli imprenditori.

Non essendo obbligatoria, riscosse adesioni limitate. Venne quindi introdotta nel 1904 l’obbligatorietà per i dipendenti pubblici e nel 1910 per i ferrovieri.

Nel 1919, con il governo Orlando, venne istituita la CNAS “Cassa nazionale per le assicurazioni sociali” l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia. Divenne obbligatoria e riguarderà circa 12 milioni di lavoratori.

Nel 1924, il Governo Fascista, costituisce per la prima volta quello che sarà l’antenato del TFR “Trattamento di fine rapporto”cioè un’indennità da concedere al lavoratore licenziato.

Nel 1933, con regio decreto legge 27 marzo 1933, n. 371 , la CNAS assume la denominazione di INFPS “Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale”, ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e gestione autonoma. Primo presidente fu Giuseppe Bottai a cui successe nel 1935 Bruno Biagi.





Nel 1935 l’intera normativa pensionistica venne unificata in un unico decreto legislativo, che resterà un punto di riferimento fino ai giorni nostri.

Nel 1939 il fascismo istituisce le assicurazioni contro la disoccupazione e la tubercolosi e gli assegni familiari. Vengono altresì introdotte le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o a orario ridotto, i sussidi in caso di disoccupazione, di malattia professionale e di maternità.
Il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia viene ridotto a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne ed introdotta la pensione di reversibilità cioè la parte della pensione spettante ad uno dei due coniugi alla morte dell’altro.

Nel 1942 il TFR, l’indennità in caso di licenziamento, introdotta nel 1924, venne trasformata in indennità di anzianità da riconoscere al lavoratore in proporzione al salario e agli anni di servizio.

Nel 1943, la sua denominazione perde la F di Fascista divenendo definitivamente INPS “Istituto Nazionale della Previdenza Sociale”.

L’IN(F)PS attualmente è il principale ente previdenziale del sistema pensionistico pubblico italiano, presso cui debbono essere obbligatoriamente iscritti tutti i lavoratori dipendenti pubblici o privati e la maggior parte dei lavoratori autonomi qualora privi di una propria cassa previdenziale autonoma.

RIASSUMENDO: durante il fascismo venne creato un unico testo legislativo pensionistico, introdotta la pensione di reversibilità, il TFR, i sussidi di disoccupazione e di maternità.


L’I.N.F.P.S. in Libia sotto il governo del Quadrumviro Italo Balbo




Nel 1934 Italo Balbo diviene Governatore della Libia Italiana, nata dall’unificazione della Tripolitania italiana e della Cirenaica italiana, ex R.d.L. 3 dicembre 1934, n. 2012).
La nuova politica agraria del Quadrumviro era tesa al rafforzamento della colonizzazione demografica per privilegiare la costituzione di grandi insediamenti di immigrati metropolitani a cui dare in proprietà piccoli poderi al fine di scoraggiare la crescita del latifondo.

Impulso decisivo per la costruzione dei primi villaggi nella Tripolitania giunse in quello stesso anno dall’I.N.F.P.S. “Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale” attraverso l’erogazione dei fondi dell’«assicurazione contro la disoccupazione». L’erogazione di questi fondi supportarono l’E.C.L. “Ente di Colonizzazione della Libia” che poté così rilevare alcune aziende private ed ottenere in concessione 23.500 ettari e avviare la costruzione dei primi villaggi.

In Tripolitania quindi l’affiancamento dell’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale, che disponeva di ingenti fondi per la disoccupazione, all’opera dell’Ente per la Colonizzazione della Libia, permise a Bir-Terrina l’appoderamento di un vasto comprensorio dove, quattro anni dopo, fu costruito il villaggio rurale “Michele Bianchi”. Vennero inoltre attuati programmi di colonizzazione demografica e dal 1938 l’I.N.F.P.S., oltre al villaggio “Bianchi” realizzò i centri “Marconi”, “Giordani”, “Micca”, “Tazzoli” e “Corradini”, mentre L’E.C.L. costruì i centri “Oliveti”, “Breviglieri”, “Crispi”, “Gioda” e “Garibaldi”.



Tutti i nuovi insediamenti vennero realizzati con il lavoro di  10.000 operai italiani (metà giunti appositamente dall’Italia e metà reclutati sul posto) e di 23.000 manovali libici, che crearono in totale 1.800 poderi con estensione variabile dai 15 ettari, per quelli irrigui, ai 30-50 per quelli senza irrigazione.

Nello stesso anno venne approvato un piano affidato all’E.C.L e all’I.N.F.P.S. per insediare nell’arco di un quinquennio 20.000 coloni, che dovevano garantire la detassazione dei terreni e la costruzione delle case rurali con le relative attrezzature per avviare l’attività. Il Ministero dell’Africa Italiana mise a disposizione un programma di finanziamenti e la Cassa di Risparmio di Tripoli venne autorizzata a concedere prestiti ai privati per incentivare una colonizzazione parallela di tipo capitalistico sotto controllo statale.

Parallelamente venne predisposto un nuovo stato giuridico per la Libia al fine di integrarla nel territorio italiano e nel gennaio 1939 le quattro province in cui era divisa vennero aggregate alla madrepatria e alle popolazioni indigene venne concesso il diritto di cittadinanza italiana.
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di © Alberto Alpozzi – Tutti i diritti riservati

Fonte:srs di Alberto Alpozzi, da Italia Coloniale del 27 settembre 2018

giovedì 24 ottobre 2019

COME E PERCHE’ LA MASSONERIA DECRETO’ LA FINE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE




I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino e Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.

Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.

Innanzitutto furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.


I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino e Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.

Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.

Innanzitutto furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.


In questo conflittuale scenario di potentati, la nazione Napoletana percorreva di suo una crescita esponenziale ed era già la terza potenza europea per sviluppo industriale come designato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856. Un risultato frutto anche della politica di Ferdinando II che portò avanti una politica di sviluppo autonomo atto a spezzare le catene delle dipendenze straniere.

La flotta navale delle Due Sicilie costituiva poi un pericolo per la grande potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei traffici con l’oriente nel Canale di Suez i cui scavi cominciarono proprio nel 1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.

L’integrazione del sistema marittimo con quello ferroviario, con la costruzione delle ferrovie nel meridione con cui le merci potessero viaggiare anche su ferro, insieme alla posizione d’assoluto vantaggio del Regno delle Due Sicilie nel Mediterraneo rispetto alla più lontana Gran Bretagna, fu motivo di timore per Londra che già non aveva tollerato gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo grazie ai quali la flotta sovietica aveva navigato serenamente nel Mediterraneo, avendo come basi d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie.

Proprio il controllo del Mediterraneo era una priorità per la “perfida Albione” che si era impossessata di Gibilterra e poi di Malta, e mirava ad avere il controllo della stessa Sicilia quale punto più strategico per gli accadimenti nel mediterraneo e in oriente. L’isola costituiva la sicurezza per l’indipendenza Napolitana e in mano agli stranieri ne avrebbe decretata certamente la fine, come fece notare Giovanni Aceto nel suo scritto “De la Sicilie et de ses rapports avec l’Angleterre”.


La presenza inglese in Sicilia era già ingombrante e imponeva coi cannoni a Napoli il remunerativo monopolio dello zolfo di cui l’isola era ricca per i quattro quinti della produzione mondiale; con lo zolfo, all’epoca, si produceva di tutto ed era una sorta di petrolio per quel mondo. E come per il petrolio oggi nei paesi mediorientali, così allora la Sicilia destava il grande interesse dei governi imperialisti.

I Borbone, in questo scenario, ebbero la colpa di non fare tesoro della lezione della Rivoluzione Francese, di quella Napoletana del 1799 e di quelle a seguire, di considerarsi insovvertibili in Italia e di non capire che il pericolo non era da individuare nella penisola ma più in la, che nemico era alle porte, anzi, proprio in casa.
 Il Regno di Napoli e quello d’Inghilterra erano infatti alleati solo mezzo secolo prima, ma in condizione di sfruttamento a favore del secondo per via dei considerevoli vantaggi commerciali che ne traeva in territorio duosiciliano. Fu l’opera di affrancamento e di progressiva riduzione di tali vantaggi da parte di Ferdinando II a rompere l’equilibrio e a suscitare le cospirazioni della Gran Bretagna che si rivelò così un vero e proprio cavallo di Troia. Per questo fu più comodo per gli inglesi “cambiare” l’amicizia ormai inimicizia con lo stato borbonico con un nuovo stato savoiardo alleato.

Questi furono i motivi principali che portarono l’Inghilterra a stravolgere gli equilibri della penisola italiana, propagandando idee sul nazionalismo dei popoli e denigrando i governi di Russia, Due Sicilie e Austria. 
La mente britannica armò il braccio piemontese per il quale il problema urgente era quello di evitare la bancarotta di stampo bellico accettando l’opportunità offertagli di invadere le Due Sicilie e portarne a casa il tesoro.

Un titolo sul “Times” dell’epoca, pubblicato già prima della morte di Ferdinando II, è foriero di ciò che sta per accadere e spiega l’interesse imperialistico inglese nelle vicende italiane. “Austria e Francia hanno un piede in Italia, e l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure”.

Lo sbarco a Marsala e l’invasione del Regno delle Due Sicilie sono a tutti gli effetti un “gravissimo atto di pirateria internazionale”, compiuto ignorando tutte le norme di Diritto Internazionale, prima fra tutte quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che nessuna nazione straniera abbia mosso un dito mentre avveniva e si sviluppava fa capire quale sia stata la predeterminazione di un atto così grave.

Garibaldi è un burattino in mano a Vittorio Emanuele II Cavour, l’unico che può compiere questa invasione senza dichiarazione non essendo né un sovrano né un politico. E viene manovrato a dovere dal conte piemontese, dal Re di Sardegna e dai cospiratori inglesi, fin quando non diviene scomodo e arriva il momento di costringerlo a farsi da parte.


Di soldi, nel 1860, ne circolano davvero parecchi per l’operazione. Si parla di circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra, denaro investito per comprare il tradimento di chi serve allo scopo, ma anche armi, munizioni e navi. A Londra nasce il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile ad ingaggiare i mercenari che devono formare la “Legione Britannica”, uomini feroci che aiuteranno il Generale italiano nei combattimenti che verranno.

Garibaldi diviene un eroe in terra d’Albione con una popolarità alle stelle. Nascono i “Garibaldi’s gadgets”: ritratti, composizioni musicali, spille, profumi, cioccolatini, caramelle e biscotti, tutto utile a reperire fondi utili all’impresa in Italia.

In realtà, alla vigilia della spedizione dei mille, tutti sanno cosa sta per accadere, tranne la Corte e il Governo di Napoli ai quali “stranamente” non giungono mai quei telegrammi e quelle segnalazioni che vengono inviate dalle ambasciate internazionali. In Sicilia invece, ogni unità navale ha già ricevuto le coordinate di posizionamento nelle acque duosiciliane.

La traversata parte da Quarto il 5 Maggio 1860 a bordo della “Lombardo” e della “Piemonte”, due navi ufficialmente rubate alla società Rubattino ma in realtà fornite favorevolmente dall’interessato armatore genovese, amico di Cavour. Garibaldi non sa neanche quanta gente ha a bordo, non è una priorità far numero; se ne contano 1.089 e il Generale resta stupito per il numero oltre le sue stime. Sono persone col pedigree dei malavitosi e ne farà una raccapricciante descrizione lo stesso Garibaldi. Provengono da Milano, Brescia, Pavia, Venezia e più corposamente da Bergamo, perciò poi detta “città dei mille”. Ci sono anche alcuni napoletani, calabresi e siciliani, 89 per la precisione, proprio quelli sfrattati dalla toponomastica delle città italiane.


La rotta non è casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non è la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li c’è una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.

Il 10 Maggio, alla vigilia dello sbarco, l’ammiragliato inglese a Londra dà l’ordine ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”, ancorati a Palermo, di portarsi a Marsala; ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi ma in realtà con altri scopi. Ci arrivano infatti all’alba del giorno dopo e gettano l’ancora fuori a città col preciso compito di favorire l’entrata in rada delle navi piemontesi. Navi che arrivano alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo dimostra quanta sicurezza avessero i rivoltosi che altrimenti avrebbero più verosimilmente scelto di sbarcare di notte.


L’approdo avviene proprio dirimpetto al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di vini “Ingham” e “Whoodhouse” con le spalle coperte dai piroscafi britannici che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolano i colpi di granate dell’incrociatore napoletano “Stromboli”, giunto sul posto insieme al piroscafo “Capri” e la fregata a vela “Partenope”.

Le trattative che si intavolano fanno prendere ulteriore tempo ai garibaldini e sortiscono l’effetto sperato: I “mille” sbarcano sul molo. Ma sono in 776 perché i veri repubblicani, dopo aver saputo che si era andati a liberare la Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, si sono fatti sbarcare a Talamone, in terra toscana. Contemporaneamente sbarcano dall’Intrepid dei marinai inglesi anch’essi di rosso vestiti che si mischiano alle “camicie rosse”, in modo da impedire ai napoletani di sparare.

Napoli invia proteste ufficiali a Londra per la condotta dei due bastimenti inglesi ma a poco serve.

Garibaldi e i suoi sbarcano nell’indifferenza dei marsalesi e la prima cosa che fanno è saccheggiare tutto ciò che è possibile.
Il 13 Maggio Garibaldi occupa Salemi, stavolta nell’entusiasmo perché il barone Sant’Anna, un uomo potente del posto, si unisce a lui con una banda di “picciotti”. Da qui si proclama “dittatore delle Due Sicilie” nel nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”.


Il 15 Maggio è il giorno della storica battaglia di Calatafimi. I mille sono ora almeno il doppio; vi si uniscono “picciotti” siciliani, inglesi e marmaglie insorte, e sfidano i soldati borbonici al comando del Generale Landi. La storiografia ufficiale racconta di questo conflitto come di un miracolo dei garibaldini ma in realtà si tratta del risultato pilotato dallo stesso Generale borbonico, un corrotto accusato poi di tradimento.

I primi a far fuoco sono i “picciotti” che vengono decimati dai fucili dei soldati Napoletani.

Il Comandante borbonico Sforza, con i suoi circa 600 uomini, assalta i garibaldini rischiando la sua stessa vita e mentre il Generale Nino Bixio chiede a Garibaldi di ordinare la ritirata il Generale Landi, che già ha rifiutato rinforzi e munizioni a Sforza scongiurando lo sterminio delle “camicie rosse”, fa suonare le trombe in segno di ritirata. Garibaldi capisce che è il momento di colpire i borbonici in fuga e alle spalle, compiendo così il “miracolo” di Calatafimi. Una battaglia che avrebbe potuto chiudere sul nascere l’avanzata garibaldina se non fosse stato per la condotta di Landi che fu accusato di tradimento dallo stesso Re Francesco II e confinato sull’isola d’Ischia; non a torto perché poi un anno più tardi, l’ex generale di brigata dell’esercito borbonico e poi generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo in pensione, si presenta al Banco di Napoli per incassare una polizza di 14.000 ducati d’oro datagli dallo stesso Garibaldi ma scopre che sulla sua copia, palesemente falsificata, ci sono tre zeri di troppo. Landi, per questa delusione, è colpito da ictus e muore.


Garibaldi, ringalluzzito per l’insperata vittoria di Calatafimi, s’inoltra nel cuore della Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllano le coste con movimenti frenetici. In realtà la flotta inglese segue in parallelo per mare l’avanzata delle camicie rosse su terra per garantire un’uscita di sicurezza.

Intanto sempre gli inglesi fanno arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi e danari per i rivoltosi e preziose informazioni da parte di altri traditori vendutisi all’invasore per fare del Sud una colonia. Le banche di Londra sono piene di depositi di cifre pagate come prezzo per ragguagli sulla dislocazione delle truppe borboniche e di suggerimenti dei generali corruttibili, così come di tante altre importantissime informazioni segrete.

Garibaldi entra a Palermo e poi arriva a Milazzo ormai rafforzato da uomini e armi moderne e l’esito della battaglia che li si combatte, a lui favorevole, é prevalentemente dovuto all’equipaggiamento individuale dei rivoltosi che hanno ricevuto in dotazione persino le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese modello “Enfield ‘53”.


Quando l’eroe dei due mondi passa sul territorio peninsulare, le navi inglesi continuano a scortarlo dal mare e anche quando entra a Napoli da Re sulla prima ferrovia italiana ha le spalle coperte dall’Intrepid (chi si rivede) che dal 24 Agosto, insieme ad altre navi britanniche, si muove nelle acque napoletane.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sosta vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove può tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lascia Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, dona agli amici inglesi un suolo a piacere che viene designato in Via San Pasquale a Chiaia su cui viene eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.


Qualche mese dopo, la città di Gaeta che ospita Francesco II nella strenua difesa del Regno è letteralmente rasa al suolo dal Generale piemontese Cialdini, pagando non solo il suo ruolo di ultimo baluardo borbonico ma anche e soprattutto l’essere stato nel 1848 il luogo del rifugio di Papa Pio IX, ospite dei Borbone, in fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, periodo in cui la città assunse la denominazione di “Secondo Stato Pontificio”.

Scompare così l’antico Regno di Ruggero il Normanno sopravvissuto per quasi otto secoli, non a caso nel momento del suo massimo fulgore.

Dieci anni dopo, nel Settembre 1870, la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma al Regno d’Italia decreta la fine anche dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, portando a compimento il grande progetto delle massonerie internazionali nato almeno quindici anni prima, volto a cancellare la grande potenza economico-industriale del Regno delle Due Sicilie e il grande potere cattolico dello Stato Pontificio. Il Vaticano, proprio da qui si mondanizza per sopravvivenza e comincia ad affiancarsi alle altre supremazie mondiali che hanno cercato di eliminarlo.


Garibaldi, pochi anni dopo la sua impresa, è ospite a Londra dove viene accolto come un imperatore. I suoi rapporti con l’Inghilterra continuano per decenni e si manifestano nuovamente quando, intorno alla metà del 1870, il Generale è impegnato nell’utopia della realizzazione di un progetto faraonico per stravolgere l’aspetto di Roma: il corso del Tevere entro Roma completamente colmato con un’arteria ferroviaria contornata da aree fabbricabili. Da Londra si tessono contatti con società finanziarie per avviare il progetto ed arrivano nella Capitale gli ingegneri Wilkinson e Fowler per i rilievi e i sondaggi. È pronta a realizzare la remunerativa follia la società britannica Brunless & McKerrow che non vi riuscirà mai perché il progetto viene boicottato del Governo italiano.

L’ideologia nazionale venera i “padri della patria” che operarono il piano internazionale, dimenticando tutto quanto di nefasto si raccontasse di Garibaldi, un avventuriero dal passato poco edificante. 
L’Italia di oggi festeggia un uomo condannato persino a “morte ignominiosa in contumacia” nel 1834 per sentenza del Consiglio di Guerra Divisionale di Genova perché nemico della Patria e dello Stato, motivo per il quale fuggì latitante in Sud America dove diede sfogo a tutta la sua natura selvaggia.


In quanto a Cavour, al Conte interessava esclusivamente ripianare le finanze dello Stato piemontese, non certo l’unità di un paese di cui non conosceva neanche la lingua, così come Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia, benché non a caso secondo di nome nel solco di una continuazione della dinastia sabauda e non italiana. Non a caso il 21 Febbraio 1861, nel Senato del Regno riunito a Torino, il nuovo Re d’Italia fu proclamato da Cavour «Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie», non Re d’Italia.


Fonte: da Informazione alternativa del  4 agosto 2014



mercoledì 23 ottobre 2019

REPRESSIONE FISCALE. UNA PASTICCERIA IN TOSCANA: 759,00 € DI STIPENDIO AL MESE E 44.000,00€ DI TASSE DA PAGARE!




 (di Alessio Bini)


Il vuoto massimalismo di chi non ha mai gestito neanche un chiosco vuole imporre una serie di norme restrittive a chi invece del proprio lavoro vive. Vi presentiamo un caso pratico di un’azienda, teoricamente in utile, che invece chiude lasciando a casa datori di lavoro e dipendenti. Si ringrazia il PdC  Conte ed il Ministro Bonafè per la loro assidua attività a favore dell’Italia. 
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E poi li chiamano evasori. I benpensanti chiedono come facciano i negozianti e gli artigiani a stare aperti, quando guadagnano meno dei loro stessi dipendenti. Dicono che per forza facciano nero.
Ma quando c’è di fronte un caso concreto, anche il più ottuso si deve rendere conto che le tasse sono davvero insostenibili e i piccoli imprenditori sono davvero degli eroi.
Una pasticceria toscana, nemmeno troppo piccola, ha messo a disposizione i suoi bilanci per capire come mai, nonostante il lavoro, abbia dovuto chiudere.
Aveva anche il reparto bar e 4 dipendenti più il titolare. 210mila euro di incassi. Niente male, in tempi di crisi.
Di questi 210mila euro, solo 118mila dalla pasticceria e dal bar, 79.756,00 dai servizi di catering e 8mila dai buoni pasto. E per arrivare ai 210mila euro di entrate, ci sono le rimanenze di magazzino: 5mila euro! Il primo problema, infatti, è che c’è uno scollamento tra il Bilancio contabile e la vita reale. Questa pasticceria se l’è cavata soltanto con 5.000,00 € di Rimanenze finali. Ma ci sono attività con utile reale pari a zero e un magazzino di 30.000,00 € o più, che le fa sembrare in utile. E’ dal 1992 che le Rimanenze sono considerate un guadagno. Prima di allora erano un costo, come è normale che sia. Per gli esperti e per gli amanti dei paroloni, si tratta della riclassificazione del Bilancio al valore della produzione, anziché al valore del venduto.
Al netto dei costi, alla fine l’utile risultante è di 26.149,00 €. Se fosse così, il titolare avrebbe lavorato per 2.149,00 €. Ma così non è. Togliamo i 5.000,00 € di rimanenze finali: 21.000,00 € di utile.
Poi bisogna pagare le tasse!

Irpef
€ 5.823,49 
Add.le regionale
€ 373,94 
Add.le Comunale
€ 156,90 
Irap
€ 3.531,01 
Inps Titolare
€ 2.800,00 
Totale 
€ 12.685,34 


L’utile rimasto, alla fine, è di 9.114,44 €, ovvero 759,54 € al mese, senza tredicesima, senza TFR, senza malattia, né ferie. Questa è la vita di molti negozianti e artigiani.
Se fosse stato un investimento di capitale, la pasticceria avrebbe reso appena il 4,5% e sarebbe considerato un investimento ad alto rischio. Nessun investitore sano di mente avrebbe rischiato il proprio capitale per il 4,5%. Mentre il nostro pasticcere ha rischiato tutto il suo capitale e ci ha messo pure il lavoro e, alla fine, ha dato lavoro per anni a 4 dipendenti. Ecco perché i piccoli imprenditori sono degli eroi.
Le tasse però vanno pagate, sotto qualsiasi nome si presentino. Alle 12.685,34 € vanno aggiunti 21.000,00 € di Iva al 10% e poi 10.067,00 euro di contributi ai dipendenti: totale 44.098,50 €!
Molti diranno: ma l’Iva è una partita di giro. No, se l’incasso della pasticceria fosse diminuito di appena il 10%, il titolare si sarebbe trovato costretto a scegliere se pagare l’Iva o l’affitto, gli stipendi o i fornitori.
Molti altri diranno: ma i contributi ai dipendenti vanno pagati, se no lo Stato non può garantire loro la pensione e i servizi sociali. No, perché lo Stato non deve funzionare come una compagnia assicurativa privata che incassa e poi paga. Lo Stato deve essere il garante ultimo e prima della crisi funzionava così. In ogni caso, se gli incassi non fossero stati sufficienti, il nostro pasticcere come avrebbe potuto pagare i contributi dei dipendenti?
Riassumendo: 210.434,00 € ricavi totali, 797,10 € di incasso giornaliero, dei quali solo 34,50 € per lo stipendio del titolare per arrivare a totalizzare la fantasmagorica cifra di 759,00 € al mese. Ovvero sui 22 giorni aperti al mese, soltanto uno va al titolare. Ma attenzione: niente è sicuro. Se gli incassi scendono a 760,00 €, quel giorno niente stipendio per il titolare. Basta qualche caffè e qualche budino di riso in meno, per vedersi sfumare lo stipendio.
Se poi gli incassi scendono a 700,00 €, il titolare deve scegliere se rimettere in cassa 50,00 €, oppure se non pagare un fornitore, un dipendente o non pagare il Fisco. Ovviamente, sceglierà l’unica voce rimandabile, ovvero il Fisco.
Questo imprenditore, per l’attuale Governo, è un evasore che rischia il carcere, perché è facile in un’attività così accumulare più di 50mila euro di tasse non pagate. Basta andare in crisi un anno. 
Poi ci pensa Equitalia (che oggi si chiama “Agenzia delle Entrate e Riscossione”) a raddoppiare la cifra, con interessi, aggi e more.
Per il Dizionario Treccani, un evasore è «chi si sottrae in tutto o in parte all’obbligo tributario, mediante l’occultamento di imponibili o di imposta». Non è evasore chi dichiara tutto e poi si trova nell’impossibilità di pagare, perché le tasse sono insostenibili. Questo è un caso concreto, verificabile e comune a moltissimi negozianti o artigiani.
Naturalmente, il nostro pasticcere si è dovuto barcamenare tra gli incassi che andavano su e giù e dopo 10 anni di crisi, non poteva continuare a vivere con 759,00 € mensili. Ha accumulato cartelle Equitalia ed è riuscito a vendere la propria pasticceria alla fine del 2018, sperando che vada meglio al nuovo proprietario. Molti altri hanno dovuto semplicemente chiudere, senza un’alternativa di lavoro.


Fonte: sms di Alessio Bini, da scenari economici.it  del 22 ottobre 2019

martedì 22 ottobre 2019

CHE COSA CAUSA L’ODORE DELLA PIOGGIA?




Meglio saperlo, visto che lo sentiremo spesso: così potremo esclamare consapevolmente cose tipo "ah, che bel petricore!"


Piove sui giusti e sugli iniqui, come diceva quello, e dopo resta sospeso nell’aria un buon profumo, che di solito sa di pulito e di terra. Come spiega Karl Smallwood su Gizmodo, il familiare profumo di pioggia è il risultato della combinazione di tre diverse fonti, dovute a una serie di reazioni chimiche e fisiche.

Ozono
La prima fonte, quella che ci fa dire di sentire profumo di pulito soprattutto dopo un temporale, è l’ozono. Le molecole di ozono sono formate da tre atomi di ossigeno. Ha un odore pungente che ricorda abbastanza quello che si sente in piscina a causa del cloro, disciolto in acqua come disinfettante. I fulmini che si formano durante i temporali possono causare la rottura delle molecole di azoto e di ossigeno, portando alla formazione dell’ozono, che viene poi portato a bassa quota dalle correnti che si formano tra le nuvole. Per questo motivo molte persone avvertono il profumo della pioggia ancora prima che arrivi, soprattutto d’estate, perché l’ozono può essere trasportato dai venti a grande distanza e precedere l’arrivo del temporale.
Il naso umano riesce a distinguere facilmente la presenza dell’ozono nell’aria. In media basta che siano presenti 10 parti di ozono per miliardo per percepire l’odore di pioggia. È un bene che il nostro organismo riesca a distinguerlo così facilmente: in alte concentrazioni l’ozono è molto pericoloso perché può danneggiare i polmoni. Alle concentrazioni in cui si trova durante un temporale e più in generale nell’aria che respiriamo tutti i giorni è invece innocuo.

Geosmina
Il profumo di pulito che si avverte dopo la pioggia è di solito accompagnato da un altro tipo di odore, più intenso e che sa di terriccio, soprattutto se l’acquazzone si verifica dopo una lunga serie di giornate non piovose. È causato dalla presenza nel terreno dei batteri appartenenti al genere Streptomyces che nel loro ciclo vitale producono la “geosmina”, un composto organico che diventa particolarmente odoroso quando aumenta l’umidità nell’aria.
Rispetto all’ozono, il naso umano è estremamente più sensibile alla presenza di geosmina, ne distingue la presenza nell’aria anche quando il suo livello di diluizione è pari a 5 parti per trilione. Per questo motivo l’odore di terra spesso copre quello di aria pulita dovuto all’ozono, soprattutto se ci si trova in aree poco urbanizzate. Nei contesti urbani, invece, essendoci meno suolo libero a disposizione dei batteri, si percepisce di più l’ozono perché non viene coperto da grandi quantità di geosmina.

Oli
Il profumo dolciastro che si accompagna a quello di pulito e all’odore di terra è causato dagli oli e dalle resine che sono prodotti dalle piante. L’umidità portata dalla pioggia li fa viaggiare più facilmente nell’aria. A oggi, spiega Samilwood, non sono ancora note tutte le sostanze presenti negli oli vegetali che contribuiscono a creare il profumo di pioggia.

Petricore
Cinquant’anni fa i chimici australiani Isabel Bear e R. G. Thomas provarono a scoprire quali fossero le cause del profumo della pioggia facendo seccare dell’argilla, ed estraendo gli oli trovati al suo interno. Identificarono una sostanza giallastra che aveva un odore che ricordava quello della pioggia. Bear e Thomas idearono anche la parola “petricore” per indicare il profumo di pioggia: deriva dal greco, dall’unione delle parole πέτρᾱ (“pietra”) e ἰχώρ (“icore”, cioè linfa).


Fonte:  da IL POST.it del 29 maggio 2014

domenica 20 ottobre 2019

LO STATO ITALIANO È BEN PEGGIO DELLA MAFIA: INDIPENDENZA!




di GILBERTO ONETO


Un rapinatore punta la pistola o il coltello,  intima «La borsa o la vita!» e prende i soldi.
Se è proprio un bastardo tira un cazzotto, se lo è un po’ meno insulta, se è “normale”  se ne va in silenzio, se è un raro esemplare di “brigante galantuomo” ringrazia e chiede scusa per il fastidio. 
Le organizzazioni criminali hanno inventato un più efficiente sistema di rapina continuata tramite il pizzo:  a fronte della tranquillità o di una protezione chiedono una percentuale sugli incassi o un tot fisso che è sicuramente pesante per chi lo deve pagare ma che è sempre misurato all’attenzione da parte dell’estortore a non esagerare, per non uccidere la sua fonte di “reddito”. 

Le varie mafie si prendono perciò una parte “ragionevole” delle ricchezze o dei guadagni delle loro vittime ma poi garantiscono un servizio, stabiliscono una sorta di monopolio dell’estorsione, impedendo a chiunque altro di farlo e con ciò proteggendo la vittima-cliente da ogni altro malintenzionato. E quando qualche furbetto si presenta con armi o minacce, viene immediatamente punito con rapidità, efficienza e durezza. La recente vicenda del marocchino che aveva incautamente rapinato e ammazzato a Roma un “portavalute” cinese e che è stato trovato “suicidato” tre giorni dopo la dice lunga su come funzionino queste cose, e anche come l’ambaradan abbia assunto connotazioni multietniche che faranno felici il ministro Riccardi e Don Gallo.

Lo Stato italiano è un rapinatore ben peggiore, è molto peggio di tutte le mafie, camorre, ‘ndranghete pelasgiche, albanesi e cinesi messe assieme. É molto peggio del peggiore dei tagliagole e dei borseggiatori di strada.

É assai più infame per tre motivi.

Primo. É sadico: non si limita a rapinare le sue vittime ma lo fa con i sistemi più efferati, crudeli, complicati e vessatori. Deruba a rate, con scadenze demenziali, costringendo le sue vittime a operazioni complesse e micraniose: bollettini, conto correnti, bonifici, comunicazioni via Internet, bolli, pagamenti, compilazioni, sovratasse, dichiarazioni, moduli e via sadicheggiando. Non soddisfatto, costringe i rapinati a un supplemento di salasso a vantaggio di commercialisti, avvocati, tributaristi, patronati, sindacati e psicanalisti.

Secondo.  Non dosa i suoi furti in funzione della capacità delle vittime a sopportare la violenza evitando di uccidere la mucca da mungere, ma chiede cifre spropositate, elargizioni mostruose che più o meno rapidamente gettano sul lastrico le vittime precludendo ogni ulteriore possibilità di rapina. Nessuna mafia al mondo chiederebbe un pizzo del 60-70% dei redditi delle sue vittime: la Repubblica italiana lo fa e peggiora di giorno in giorno. Le sue vittime moriranno schiacciate dal peso del furto, e morirà anch’essa per mancanza di vittime da dissanguare: e questa è la sola notizia positiva.

Terzo. A fronte dei pagamenti, lo Stato italiano non garantisce nessuna protezione: non impedisce che altri taglieggino le sue vittime, non le libera da furfanti e ladri di ogni genere che si accaniscono su quello che resta, non assicura la tranquillità del quartiere come riesce a fare l’ultimo dei camorristi. Non solo: se una vittima si difende, lo Stato prende le parti dell’aggressore e punisce ogni tentativo di reazione. Non si è mai vista una organizzazione criminale “seria” che pretenda il pizzo per garantire la tranquillità e che, non solo non lo faccia, ma che punisca i propri “clienti” che abbiano cercato di reagire alla concorrenza che va a rapinarli. Solo lo Stato italiano ci riesce, e pretende anche di fare la morale, con le sue leggi, i suoi tribunali i suoi sapientoni che ripetono a macchinetta che questa è “la patria del diritto”.

In questi giorni, tanto per non lasciare dubbi, lo Stato apre le galere e slarga un bel po’ di mascalzoni che andranno – per prima cosa – a procurarsi soldi dai cittadini, per potersi “reinserire nella società”, per rifarsi della noia delle giornate passate in gattabuia. I cittadini non sono protetti dallo Stato e alla fine trovano la sola difesa nella totale miseria cui lo stesso li ha lasciati facendosi pagare una protezione che non è in grado di garantire e che forse non ha mai avuto intenzione di assicurare. 


Insomma, lo Stato italiano è assai peggio della mafia. Indipendenza!

 Fonte: srs di GILBERTO ONETO

sabato 19 ottobre 2019

NON È IL CITTADINO CHE DEVE ESSERE TRASPARENTE VERSO LO STATO, MA VICEVERSA.




«Non è il cittadino che deve essere trasparente verso lo Stato, ma viceversa.

Non è l’individuo - legittimo proprietario dei quattrini che ha in tasca - che deve dimostrare come guadagna i suoi soldi, 
ma è lo Stato che deve dimostrale come spende quelli che vi sottrae, in maniera coercitiva, con la tassazione... 

La millantata società della «trasparenza globale» è a senso unico ed è architettata per tenervi in pugno».

Leonardo Facco, da Elogio  del  contante, 2015

venerdì 18 ottobre 2019

TRAFFICO DI ORGANI UMANI NEI BALCANI




Mattatoio – Come venivano asportati gli organi in Kosovo?


Dopo la fine dell’intervento NATO in Jugoslavia, in Kosovo scomparirono senza lasciare traccia circa 1000 persone, stando a dati di diverse fonti.


Probabilmente alcuni di loro nella vicina Albania furono privati degli organi che poi venivano spediti via aerea verso destinazioni sconosciute. Cosa sappiamo davvero del “traffico di organi” in questa area dell’Europa?

Il 19 luglio Ramush Haradinaj, capo di governo del Kosovo autoproclamato ed ex comandante dell’organizzazione terroristica (secondo Belgrado) dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), si è dimesso perché chiamato a rispondere dinanzi al Tribunale speciale che giudica i crimini commessi dall’UÇK. Il 24 luglio è stato interrogato come imputato all’Aia, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. In seguito ha dichiarato che la legge gli vieta di rispondere alle domande che gli sono state poste. 

Il fratello di Ramush, Daut Haradinaj, che ha un passato militare simile, stando a Milaim Zeka, segretario del Partito Euratlantico del Kosovo, avrebbe anch’egli ricevuto la notifica, ma non ha ritenuto opportuno parlarne pubblicamente. Tali voci sono state diffuse il 15 agosto.

Il dossier dell’Aia sull’ex premier kosovaro

Daut Haradinaj ad oggi non si è ancora presentato di fronte alle istituzioni giuridiche internazionali, mentre il caso del suo fratello maggiore Ramush è stato esaminato ben due volte dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia (TPIJ), nel 2005 e nel 2008, e Ramush venne assolto entrambe le volte.

L’ex comandante militare era accusato di aver gestito in prima persona le operazioni di deportazione violenta di serbi e zingari, di fermo coatto di persone, di espropriazione di immobili, di omicidi, stupri e altri crimini, fra cui rappresaglie sugli albanesi kosovari sospettati di collaborare con l’esercito jugoslavo. Il Tribunale stabilì che i membri dell’UÇK avevano commesso crimini atroci, ma Haradinaj non era stato coinvolto.

Va detto che Haradinaj era imputato proprio per avvenimenti accaduti durante la guerra in Kosovo, nella fattispecie per crimini di guerra e contro l’umanità commessi tra il 1° marzo 1998 ed il 30 settembre dello stesso anno. Dunque, rimane un caso irrisolto la scomparsa di cittadini kosovari dopo la fine dell’aggressione NATO contro la Jugoslavia e dopo la ritirata delle Forze armate e della polizia jugoslave dall’inizio dell’estate del 1999 fino al settembre del 2000.

In concomitanza con l’interrogatorio dell’ex premier kosovaro, l’agenzia di stampa serba SRNA ha ricordato il rapporto, sulle deposizioni dei testimoni del 30 ottobre 2003 che fu redatto da Eamon Smith, capo della Missione ONU a Pristina e Skopje, e indirizzato a Patrick Lopez-Terres, capo della Direzione Indagini del TPIJ, e supervisionato da Paul Coffey, capo del Dipartimento Giustizia della Missione ONU in Kosovo (UNMIK).

Del documento non si parla da tempo. E non lo si conoscerebbe nemmeno se non fosse per il libro pubblicato nel 2008 da Carla del Ponte, ex procuratrice capo del TPIJ, dal titolo “La caccia: io e i criminali di guerra” in cui per la prima volta si parla pubblicamente degli organi destinati al mercato nero in Kosovo e Albania e della cosiddetta “casa gialla” nel nord dell’Albania che probabilmente veniva usata come base per operazioni illegali.

In seguito, sulla base delle stesse testimonianze e di ulteriori prove raccolte durante la perizia effettuata alla “Casa gialla” nel 2004, venne redatta dal senatore svizzero Dick Marty la relazione presentata poi all’ Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa alla fine del 2010. 

Delle informazioni che evidentemente coincidevano con il contenuto del rapporto di Eamon Smith già nel 2008 era in possesso anche Human Rights Watch.

Nel 2011, dopo l’intervento di Dick Marty all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, in Rete è comparsa una scansione del documento originale dell’UNMIK. Di questo documento hanno scritto diversi media serbi ed anche internazionali

Ma perché parliamo oggi di questo documento?

Il cambio di condotta dell’UÇK

“Ramush e Daut (i fratelli Haradinaj) nel luglio del 1999 richiesero ai comandanti locali dell’UÇK di organizzare il sequestro dei serbi presenti nel territorio da loro controllato e la loro deportazione in Albania. Continuammo a uccidere e torturare i serbi, ma tutto sotto il controllo dei fratelli”, racconta uno dei testimoni, la cui deposizione è riportata nella relazione UNMIK del 2003.

“Daut Haradinaj si recò a Tirana diverse volte per verificare come andassero le cose. Anche Ramush si recò un paio di volte a Tirana. Non so esattamente tutti i dettagli sul suo coinvolgimento. Lui passò questi affari al fratello, ma sicuramente sapeva tutto”, dice un altro dei partecipanti al trasporto dei prigionieri dal Kosovo in Albania, membro di basso rango dell’UÇK, le cui parole sono anch’esse riportate nel rapporto menzionato più sopra.

L’inattesa preoccupazione dei fratelli Haradinaj affinché venisse salvaguardata l’integrità fisica dei serbi kosovari sequestrati fu una sorpresa anche per gli stessi membri dell’UÇK. Uno di loro ricorda:

“A Prizren ci ordinarono di non picchiare i prigionieri e di comportarci bene con loro. Fu la prima volta che sentii qualcosa di simile e fui sorpreso perché prima di allora ci era sempre stato concesso di picchiarli come volevamo, di spezzare loro braccia e gambe”.

“Fate prima rapporto a me di tutti quelli che catturate, ci ordinò Dukadjin, comandante della regione”, ricorda un altro testimone.

Durante la guerra degli anni ’90 i leader dell’UÇK suddivisero il territorio del Kosovo e della Metochia in 8 aree operative. L’area di Dukadjin comprendeva i villaggi più a ovest. Qui erano attivi circa 2500 combattenti suddivisi in 3 brigate. Il comandante di una di queste era Daut Haradinaj. A comandare l’area operativa era Ramush Haradinaj in persona, stando alle dichiarazioni rilasciate da un testimone al Tribunale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2011.

Otto testimoni che hanno dichiarato di aver deportato in Albania gruppi di prigionieri fanno luce sulla ragione di quell’improvvisa attenzione dei comandanti dell’ UCK per la salute di quelli che fino al giorno prima erano nemici.

Ma che cos’hanno raccontato esattamente proprio loro che hanno deportato prigionieri vivi e seppellito quelli morti in Albania?



MATTATOIO – COME VENIVANO ASPORTATI GLI ORGANI IN KOSOVO? PARTE 2





La prima volta non sapevo cosa stesse succedendo. La seconda volta pensai che si trattasse di prostituzione. Ma la terza volta capii esattamente cosa fosse e rimasi terrorizzato. Volevo solo scappare.

“La prima volta non sapevo cosa stesse succedendo. La seconda volta pensai che si trattasse di prostituzione. Ma la terza volta capii esattamente cosa fosse e rimasi terrorizzato. Volevo solo scappare. Dopo essere tornato in Kosovo dissi al comandante di avere la polmonite. Così fui sollevato dall’incarico”, ricorda un albanese che collaborava con l’UÇK e si occupava del trasporto dei prigionieri dal Kosovo in Albania dopo la fine della guerra in Kosovo.

Che cosa mai poteva terrorizzare un autista dell’Esercito di Liberazione del Kosovo che aveva visto la guerra? (Le sue testimonianze si possono trovare nel rapporto dell’UNMIK sotto lo pseudonimo “testimone #1”).
Va ricordato che questo rapporto del 30 ottobre 2003, redatto da Eamon Smith, capo della Missione ONU (UNMIK) a Pristina e Skopje, e indirizzato a Patrick Lopez-Terres, capo della Direzione Indagini del TPIJ, fu il primo documento e uno dei più informativi nel suo genere ad essere dedicato al presunto traffico di organi umani in Kosovo e Albania tra il 1999 e il 2000.

Un odore dolciastro e nauseabondo

Il rapporto redatto in lingua inglese contiene le dichiarazioni di 8 testimoni anonimi i cui nomi per questioni di sicurezza sono stati sostituiti da numeri in successione e da lettere: fonti #1, 2, 3, 4 e fonti N, P, C, B. Tutti caratterizzati come di etnia albanese. Tuttavia, nella copia disponibile del rapporto sono presenti solo le dichiarazioni di quattro testimoni, mentre quelle degli altri sono citate nella conversazione allegata al rapporto, da cui emerge che le testimonianze rese dalle prime quattro fonti, corrispondono parzialmente a quelle degli ultimi quattro.

“Mi dissero che avrei dovuto portare il camion da Pec (città kosovara) a Prizren (città kosovara al confine con l’Albania. PA (iniziali) mi disse di fare quello che mi era stato detto, di non aprire la bocca e di dimenticarmi di quella missione, così avrei potuto vivere fino alla vecchiaia”, ricorda il “testimone #2”.

Un’altra fonte, le cui testimonianze sono riportate nella relazione, racconta di aver trasportato verso la “Casa gialla” non solo serbi, ma anche prigionieri che parlavano lingue slave dell’Europa orientale e dell’ex URSS. Ricorda che nel camion non c’erano finestrini e la ventilazione non funzionava. Alcune ragazze all’interno del mezzo, infatti, per poco non soffocarono. Inoltre, nel rapporto si dice che a questo testimone venne ordinato di continuare il suo tragitto trasportando parti di corpi e/o organi all’aeroporto di Rinas, nei pressi di Tirana, e di riseppellire (o seppellire per la prima volta) le spoglie di corpi che si trovavano in sacchi neri.

Un’altra testimonianza: “Una fonte ha descritto il viaggio nella casa a sud di Burrelli (ovvero la “Casa gialla”, NdR). Lì il suo supervisore gestiva gli addetti alla sepoltura delle spoglie in sacchi neri. La fonte afferma di aver visto che 10-20 corpi venivano sepolti in un piccolo cimitero a un chilometro da quella casa”.

È singolare che nessuna delle persone indicate nel rapporto dell’UNMIK abbia assistito alle operazioni mediche vere e proprie. Tuttavia, uno di loro ricorda:

“Mi capitò di finire in una stanza della casa a sud di Burreli per prendere dell’acqua. La stanza era pulita, ma c’era un intenso odore di medicinali. Mi fece pensare ad un ospedale. Ma, come potete immaginare, l’odore era dolciastro, ma nauseabondo. Mi faceva schifo, volevo andarmene il prima possibile”.

“C’erano due arabi in uniforme UÇK. La casa era attraversata da un odore nauseabondo e sulle pareti erano state scritte delle sure del Corano”, conferma un’altra fonte.

Il business non è guerra: nel vortice finirono non solo i serbi

Le dichiarazioni dei testimoni indicano che i comandanti dell’UÇK consideravano i fatti accaduti tra il 1999 e il 2000 come un business redditizio:

“C. dice che alla prima coppia di serbi furono estratti solo due reni e dopodiché vennero uccisi. L’idea era di penetrare il mercato. Poi, iniziarono ad agire in maniera migliore (dal punto di vista del guadagno, NdR) e arrivavano anche a 45.000 (probabilmente dollari, NdR) per persona”.

“La guerra e il caos subito dopo era la situazione migliore per gestire il business”, afferma una delle fonti, ripetendo le parole di un proprio superiore dell’ UÇK.

Al rapporto UNMIK è allegato un elenco di dieci prigionieri mandati in Albania. In base ai cognomi tutti e 10 sarebbero serbi. Nelle testimonianze si menzionano molte più vittime di questi rapimenti, trasportate in Albania dai testimoni: venivano trasportati in grandi gruppi, ognuno composto da decine di persone. Tuttavia, le fonti non conoscevano i loro nomi.

“C’erano 30 prigionieri fra cui una donna e 10 combattenti dell’UÇK. Ci aspettavano. Era chiaro che avessero camminato a lungo. Erano sporchi e pieni di polvere, alcuni avevano dei lividi”, così “testimone 2” ricorda il primo gruppo da lui trasportato dal Kosovo in Albania.

L’autore del rapporto UNMIK, Eamon Smith, conclude che la maggior parte dei prigionieri erano kosovari serbi rapiti tra il giugno e il settembre 1999.
Tuttavia, nelle dichiarazioni delle fonti figurano anche rapiti albanesi. Inoltre, uno dei testimoni, il #6, fu anch’egli prigioniero dell’UÇK, venne fermato perché sospettato di collaborare con l’esercito jugoslavo. Nel documento si legge che suo fratello fu ucciso perché anch’egli sospettato.

“Ricordo che ero molto turbato perché là c’erano anche ragazze albanesi. Ed erano davvero giovani”, conferma “testimone #1”.

Michael Montgomery, collaboratore del Center for Investigative Reporting e autore del documentario “The Kosovan disappeared”, in un’intervista a Balkan insight nel 2009 ha confermato che le sue indagini, servite da base al rapporto di Eamon Smith e Patrick Lopez-Tarres, erano cominciate con la ricerca delle spoglie degli albanesi scomparsi senza lasciare traccia. Di Montgomery si parla anche più avanti.

Per il momento sottolineiamo che nel rapporto UNMIK figura questa dichiarazione di un testimone:

“Le ragazze albanesi del nord venivano rapite e usate a questo fine (gli organi, NdR) invece di essere mandate in Italia a prostituirsi come molte altre”.

I giovani “carne” pregiata

Alcuni testimoni le cui dichiarazioni sono disponibili nel rapporto UNMIK sono concordi sul fatto che i prigionieri deportati dal Kosovo all’Albania all’apparenza erano giovani ed in salute.

“Non so chi fossero quei serbi. Avevano tutti più o meno 30 anni. Dal loro aspetto e dal loro abbigliamento pareva che fossero gente di campagna”.

“Spinsero 4 uomini serbi in un minivan. Erano giovani e in buona forma”.

Tre testimoni prestano attenzione agli insoliti ordini dei comandanti di trattare bene i prigionieri, di non picchiarli, non provocare traumi, dare loro da mangiare e da bere:

“Pensavo che intendessero ucciderli. E invece ci ordinarono di non picchiarli, di non provocare loro traumi, ma di dar loro acqua e cibo. Questo successe tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1999”, ricorda “testimone #1”.

“Portai loro la colazione. Ero sorpreso nel vedere che la colazione dei prigionieri fosse così abbondante”, afferma un altro testimone.

Tra il 1999 e il 2000 il Kosovo non aveva ancora dichiarato l’indipendenza ed era una provincia autonoma della Serbia sia per Belgrado sia per la comunità internazionale. Tra il Kosovo e l’Albania era in vigore un confine di stato a tutti gli effetti.

Molti combattenti che deportavano serbi kosovari giovani e in salute in Albania confermano che in corrispondenza della frontiera venivano fatti passare senza problemi nonostante il traffico limitato e i continui controlli.
“Andavamo a Kukes, attraversavamo il confine a Morine. Il traffico era molto intenso. Nessuno però ci fermava al confine”, ricorda “testimone #2”.

Uno dei testimoni sostiene che all’aeroporto Rinas, da dove materialmente gli organi venivano esportati dal Paese, non c’era nessun problema:

“S. mi disse che all’aeroporto non c’erano stati problemi. Ai dipendenti erano stati dati molti soldi perché chiudessero un occhio su tutta la faccenda”.

Il giornalista Michael Montgomery nella sua intervista si dice perplesso riguardo al motivo per cui la vendetta postbellica nei confronti dei serbi del Kosovo, avesse assunto quelle forme:

“Noi fummo scossi dal fatto che, se questi atti furono semplicemente omicidi per vendetta, che motivo c’era di preoccuparsi di trasportare i cadaveri in Albania attraversando le montagne? Perché non ucciderle direttamente in Kosovo come era stato fatto con altri? Ancora più strane furono le storie secondo cui a chi trasportava i rapiti venne ordinato di non fare del male ai prigionieri. Questo avrebbe senso solo nel caso in cui fossero stati sequestrati per chiedere un riscatto. Ma non sono a conoscenza di molti casi di riscatto, tantomeno di casi che videro implicati dei serbi”.

“Non vogliamo essere fatti a pezzi”

Due testimoni parlano di visite e analisi mediche che vennero effettuate sui prigionieri in loco.

“Durante la prima deportazione a Burreli capii che li visitavano e facevano loro le analisi del sangue. Anche prima di allora avevo sentito che facevano le analisi del sangue ai prigionieri. E questo mi sorprese. Perché lo facevano?”, ricorda “testimone #1”.

Tre testimoni confermano di aver visto nei luoghi di deportazione dei prigionieri alcuni medici albanesi e un dottore di nazionalità sconosciuta dalla carnagione olivastra. Altri testimoni lo identificano come arabo o egiziano.

“Arrivammo fino alla fine della strada dove si trovava la Casa gialla. Di fronte alla casa c’erano alcune persone e due dottori (o almeno così ce li presentarono). Uno era arabo e il secondo albanese. Il secondo lo chiamavano Dr. Admir”.

Tre testimoni parlano dei documenti medici consegnati ai “corrier” prima del trasporto coatto:

“Il giorno seguente li portammo via dalla Casa gialla, a Fushe-Kruje. Prima di partire, il dottore diede al soldato una borsa nera. Penso che dentro ci fossero delle lettere. In tutti i viaggi successivi ci diedero una borsa o una scatola con dei documenti che dovevano essere tramessi al dottore quando consegnavamo i prigionieri”, ricorda “testimone #1”.

“I serbi avevano paura. A una delle fermate un uomo ci chiese di ucciderlo sul posto. “Non vogliamo essere fatti a pezzi”, disse. Nel tardo pomeriggio li portammo nella Casa gialla”, ricorda “testimone #1” nel rapporto UNMIK.

Secondo le testimonianze di S. questi serbi avevano tutte le ragioni per aver paura:

“S. mi racconto che sulle montagne tenevano prigionieri molti serbi per “migliorare le analisi del sangue”. Davano loro da mangiare e li facevano lavorare molto nelle fattorie e nell’industria del legno. Quando i membri dell’UÇK ricevevano una richiesta di organi, portavano i serbi a Burreli dove aspettavano di essere operati. Il giorno prima dell’operazione venivano portati a Fushe-Krija, nel ranch lì vicino. Dopo che veniva preso loro tutto quello che serviva, venivano seppelliti nello stesso luogo. Dunque, le sepolture furono fatte su un terreno privato”.

UNMIK nel suo rapporto del 2003 giunge a questa conclusione:

“I prigionieri deportati nell’Albania centrale furono poi nuovamente trasportati nella Casa gialla di Burreli che fu trasformata in una clinica improvvisata. Qui il personale impiegava strumentazioni mediche per estrarre organi interni ai prigionieri che poi morivano. In seguito, i loro corpi venivano seppelliti nelle vicinanze”.

Come venivano effettuate le operazioni per l’asportazione degli organi? Quali prove materiali sono state scoperte?



MATTATOIO - COME VENIVANO ASPORTATI GLI ORGANI IN KOSOVO? PARTE 3






Alla luce delle testimonianze presentate dal giornalista americano Michael Montgomery e prese in esame da UNMIK, la missione ONU in Kosovo, è stata avviata una perizia medico-legale nella casa a sud di Burreli, nell’Albania settentrionale, condotta dagli esperti Tom Grange e Hroar Frydenlund il 4 e 5 febbraio 2004.

Tracce di sangue nella “Casa gialla”

Il rapporto indirizzato da Jose Pablo Baraybar all’allora capo della Direzione dell’UNMIK per le perizie legali contiene un elenco degli oggetti rinvenuti in prossimità della “Casa gialla”. Fra di essi ci sono siringhe, confezioni e flaconi dei farmaci Tranxene (un ansiolitico per il rilassamento dei muscoli e la sedazione), Chloraphenical 250 mg (in realtà la sostanza si chiama Chloramphenicol, ma nel rapporto viene indicato in modo errato. Si tratta comunque di un antibiotico), Cimarizine 25 mg (inibitore dei canali del calcio, viene utilizzato per riattivare la circolazione sanguigna), Buscopean 10 mg (spasmolitico impiegato per curare le coliche renali e di altro tipo), frammenti di camici chirurgici, il fodero vuoto di una pistola.

I membri del TPIJ erano sicuramente al corrente dell’indagine dell’UNMIK nella “Casa Gialla” perché nel rapporto di cui sopra si cita il capo del gruppo di indagini del Tribunale de L’Aia Matti Raatikainen.

Tuttavia la perizia, pur essendo stata condotta da un’autorevole organizzazione internazionale, ed a conoscenza del Tribunale de L’Aia, non è priva di stranezze: dei due esperti ha firmato il documento solamente Grange e non Frydenlund; gli oggetti rinvenuti sono stati descritti in maniera approssimativa (non vi sono riferimenti circa il loro numero, il loro stato, non sono stati presi campioni del materiale biologico probabilmente in essi presente). Inoltre, non è chiaro per quale motivo i criminali non abbiano raccolto le siringhe sparse attorno alla casa nei 4 anni prima dell’arrivo degli esperti, sempre che sia vero che la Casa gialla sia stata tra il 1999 e il 2000 il luogo dove avvenivano le operazioni.

Sono state condotte delle prove al luminol (il luminol è una sostanza che fa brillare il sangue di una luce violacea) che hanno dimostrato la presenza di numerose tracce di sangue sul pavimento della cucina. Tuttavia, per ragioni ignote dopo aver stabilito effettivamente la presenza di tali tracce non sono state condotte ulteriori perizie: nessuno ha voluto appurare se si trattasse del sangue di umani o di animali. Non sono state nemmeno fatte analisi dell’emoglobina.

La Casa bianca: nascevano bambini e veniva sgozzato il bestiame

Nel 2008 il canale televisivo serbo B92 ha prodotto un reportage in due puntate “I segreti della Casa gialla”. 

Nei servizi viene riportata una conversazione con i proprietari della casa (nel 2008 già da tempo ridipinta di bianco), un uomo anziano e una sua parente più giovane. I due inizialmente raccontavano che nella cucina era nata una delle donne della famiglia e poi hanno aggiunto che sul pavimento poteva essere rimasto del sangue degli animali che uccidevano all’esterno.

Il procuratore distrettuale albanese Arben Dulja che aveva deciso di parlare con i giornalisti di B92 nega che fossero state trovate siringhe nei pressi della casa, sebbene il rinvenimento delle stesse sia inequivocabilmente registrato nel rapporto della perizia medico-legale del 2004.

Inoltre, la nipote del proprietario della casa sostiene che le siringhe venissero usate da tutta la famiglia: infatti, sia la madre, sia il nonno erano malati e le siringhe venivano buttate nella spazzatura insieme al resto dei rifiuti.

Non coincidono nemmeno le testimonianze del procuratore albanese e dei proprietari circa i flaconi dei farmaci rinvenuti. Dulja sostiene che nei pressi della casa fossero state rinvenute solamente due fiale di penicillina (in realtà, l’unico antibiotico descritto nel rapporto UNMIK è il chloramphenicol), mentre la ragazza sostiene che le sostanze per il rilassamento muscolare le assumesse suo fratello che soffriva di reumatismi e, infatti, aveva passato due mesi in ospedale proprio per quello. Tuttavia, il Tranxene, che agisce sì anche come rilassante muscolare, stando alle fonti mediche, non si usa solitamente per curare i dolori reumatoidi.

Medico amatoriale: aprire la cassa toracica con un Kalashnikov

Anche la Procura serba per i crimini di guerra ha indagato sui serbi scomparsi senza lasciare traccia in Kosovo. Nel 2012 il canale televisivo RTS ha trasmesso l’intervista a uno dei testimoni inserito nel programma protezione testimoni della Procura serba. L’uomo ha fatto parte dell’UÇK e ha confermato di aver preso parte ai crimini in maniera indiretta. Il portavoce della Procura, Bruno Vekaric, ha dichiarato di aver reso note queste testimonianze perché il caso dei trapianti di organi non finisse nel dimenticatoio di nuovo.

“Durante l’addestramento ci mostravano come, in caso di bisogno, trapiantare una data parte del corpo (reni, cuore, polmoni) da un corpo ad un altro”, ricorda il testimone affermando di aver imparato a operare su bambole di plastica e resina.

Sembra insolita l’affermazione che persone senza una preparazione medica venissero addestrate a fare dei trapianti. Tuttavia, il procuratore serbo per i crimini di guerra, Vladimir Vukchevich, commentando la testimonianza della sua fonte, ha osservato che la Procura aveva analizzato attentamente la testimonianza della fonte per più di anno ed era giunta alla conclusione che era da ritenersi attendibile.

Il testimone raccontava che gli era stato sottoposto per l’“operazione” un giovane di 19-20 anni di nazionalità non albanese. I combattenti dell’UÇK lo tenevano per gli arti così che non si muovesse. L’intervento vero e proprio fu effettuato sotto la supervisione di un certo dottore:

 “Il dottore mi ha detto cosa fare: praticare un’incisione in linea retta dalla gola alle costole”.

“Poi ho cominciato a fare come mi avevano insegnato: metti la mano sinistra sul petto per appoggiarti e con la destra prendi il bisturi e lo direzioni. Gli ho messo la mano sinistra sul petto e ho cominciato a incidere. Quando sono andato in profondità col bisturi, ha cominciato a uscire il sangue. Mentre incidevo, il paziente si è messo a gridare di non ucciderlo e poi ha perso conoscenza. Non so se avesse perso conoscenza o fosse morto sul colpo. Non lo so perché non ero in me in quel momento”.

Poi al testimone hanno ordinato di praticare un’altra incisione. Il testimone ricorda che uno degli aiutanti del medico si era dimenticato di portare le forbici specifiche per rimuovere le costole. Dunque il testimone ha dovuto usare la baionetta di un Kalashnikov come alternativa.

Il trapianto di cuore

“Il dottore ha messo entrambe le mani nel corpo del paziente. A un certo punto è arrivato un medico che ha detto di fare più veloce, non c’era più molto tempo. Allora un conoscente del medico ha portato una scatola, l’ha aperta e l’ha posata accanto a me”, ricorda un testimone.

Quest’ultimo ha descritto nei dettagli la pratica seguita dal medico per gestire i vasi sanguigni in mancanza di pinze. Per estrarre il cuore il medico si è mosso più o meno così:

“Abbiamo tagliato i vasi e, una volta arrivati al cuore, questo ancora batteva. Non so come ci sono riuscito, ma l’ho preso e posato nella scatola che era stata appena portata. Uno dei comandanti esclamò: “Sei bravo! In Kosovo c’è bisogno di combattenti come te”.

Le testimonianze rilasciate alla procura serba hanno scatenato reazioni contrastanti nella comunità medica serba. Parte dei chirurghi sostiene che per l’estrazione e il trapianto di organi sono necessarie condizioni molto particolari e una grande équipe di personale medico qualificato.

Zoran Stankovic, dottore di ricerca in Medicina, anatomopatologo ed ex ministro serbo della Sanità, in un’intervista rilasciata a Sputnik afferma che la situazione appare ambigua: sì, l’estrazione di organi richiede condizioni particolari, ma non possiamo essere sicuri che in Albania queste condizioni non fossero soddisfatte perché la Casa gialla non era l’unico luogo impiegato in queste attività criminali. Inoltre, la mancata necessità di curarsi della sopravvivenza e della qualità futura della vita del donatore permette di soprassedere su alcune condizioni solitamente garantite nell’ambito di un’operazione di questo tipo.

“Quando si tratta di trapianto di organi, bisogna soddisfare condizioni molto rigide. Non sono sicuro che alla Casa gialla questo fosse possibile. Forse in un altro posto, sì. Queste operazioni richiedono la presenza di un’équipe di medici formati. Inoltre, il ricevente degli organi dev’essere non lontano perché non possono passare troppe ore dall’estrazione al trapianto”, ha affermato Stankovic.

Stando ai dati della Procura serba per i crimini di guerra, non vi sono contraddizioni tra l’assenza delle condizioni necessarie alle operazioni chirurgiche nella Casa gialla e il fatto che presumibilmente queste si tenessero in Albania: infatti, nel traffico di organi, stando ai loro dati, sarebbero stati coinvolti anche istituti sanitari che durante la guerra erano utilizzati come ospedali per i militanti dell’UÇK. Fra questi anche l’ospedale di Bajram Curri (cittadina nel nord dell’Albania, capoluogo del distretto di Tropojë), il policlinico vicino allo stabilimento della Coca Cola a Tirana, la clinica neuropsichiatrica del carcere n° 320 di Burreli. Ma ad oggi la Procura non ha ancora reso note le prove dei suoi sospetti circa questi istituti sanitari.

Dove sono andate a finire le prove, perché fino al 2008 i testimoni non hanno parlato e dove sono state seppellite le prove materiali della Casa gialla?

Leggetelo nella continuazione di questo articolo.


MATTATOIO - COME VENIVANO ASPORTATI GLI ORGANI IN KOSOVO? PARTE 4




Nelle puntate precedenti abbiamo preso in esame diverse prove dei casi di trapianti di organi che hanno avuto luogo tra l’Albania e il Kosovo. Ma il documento chiave della questione rimane la relazione dell’UNMIK nella quale figura l’allora comandante Ramush Haradinaj e che contiene conclusioni piuttosto concrete.


"Don Chisciotte"  distrugge le prove


La relazione fu indirizzata all’organo legislativo che è responsabile delle indagini sui crimini commessi nello spazio post-jugoslavo, il Tribunale de L’Aia e, in particolare, il TPIJ.

Prove non necessarie

Dopo successe qualcosa di inspiegabile. Nel dicembre del 2005 il Tribunale avviò un’indagine chiamata Don Chisciotte. Nel documento SFO/09/99-8045 si richiede l’esecuzione di una perizia delle prove materiali rinvenute nella Casa gialla e, in particolare, dei flaconi vuoti di medicinali come il Tranxen, il Chloramphemical, il Cinarizine e il Buscopan che, come ipotizzato dagli autori dell’indagine, potrebbero essere stati utilizzati durante le operazioni chirurgiche”.

A parlare di questo documento è stata per la prima volta la rivista serba Press (qui le scansioni del documento).

Tuttavia, non fu mossa alcuna accusa nei confronti degli albanesi, nemmeno contro Ramush Haradinaj, circa il presunto traffico di organi.

Alla luce di ciò si può concludere che le testimonianze raccolte dall’UNMIK nel 2003, furono intenzionalmente nascoste e taciute. A tale conclusione giunse il giornalista americano Michael Montgomery, da noi già citato in questa serie, che nel 2009 sostenne in un’intervista a Balkan Insight che una quantità impressionante di prove venne semplicemente distrutta.

In quell’intervista Montgomery raccontò che durante l’indagine sulla scomparsa di queste persone in Kosovo, lui e il collega Stephen Smith interrogarono diverse persone del luogo che erano stati autisti o comunque avevano aiutato l’UÇK con la logistica. Montgomery sostiene che proprio la loro indagine divenne la fonte primaria della relazione dell’UNMIK poiché nel 2003 trasmisero i dati raccolti alla Cancelleria della missione.

“Vi sono prove convincenti del fatto che l’UÇK o determinate sue divisioni trattenessero persone nelle proprie basi, in carceri temporanee e in case private dove i prigionieri subivano un trattamento terribile. Questo avvenne dopo la guerra nei luoghi apparsi nel documentario (The Kosovan disappeared): a Prizren e nelle vicinanze, nei pressi di Junik (un centro abitato della Metochia) e in altri paesini del Kosovo, ma anche a Tropoja, Kukesi, Burreli e persino a Durazzo (tutte città albanesi)”, sostiene il giornalista statunitense.

“Ci aspettavamo che l’ONU (UNMIK, NdR) analizzasse le nostre prove e, possibilmente, ne ricercasse di nuove. Ma questo non accadde. Sono fermamente convinto che le prove vennero distrutte dal Tribunale”, conclude.

Haradinaj non è colpevole

In un’intervista successiva rilasciata al canale televisivo serbo N1 nel 2015 Montgomery espose la teoria secondo cui il TPIJ avrebbe distrutto le prove del caso della Casa gialla poiché non si era riusciti a dimostrare la compartecipazione di Haradinaj. Così, aveva semplicemente perso interesse a fare luce sul traffico di organi kosovaro.
Nel 2009 il portavoce della Procura per i crimini di guerra, Bruno Vekaric, in un commento per Press, dichiarò che L’Aia aveva distrutto più di 2000 prove, incluse quelle che erano legate ai crimini perpetrati nell’Albania settentrionale. In quella stessa intervista Vekaric osservò che il TPIJ collegò in maniera diretta la Casa gialla ad Haradinaj.

Nel 2012 si tenne un battibecco a distanza tra l’allora procuratore capo del TPIJ, Serge Brammertz, e l’ex procuratrice capo Carla del Ponte. Brammertz dichiarò che la responsabilità per la distruzione delle prove era del suo predecessore. Ma del Ponte, autrice del libro La caccia. Io e i criminali di guerra, dichiarò alla serba Press di sapere chi aveva distrutto le prove, ma di non essere affatto implicata.

In realtà nel 2019 in un’intervista all’agenzia di stampa serba Tanjug del Ponte ha affermato: “Non appena venni a sapere della distruzione dei campioni, chiesi loro spiegazioni. Si avviò un’indagine interna. Bisogna chiedere a loro (a coloro che sono a capo del Tribunale dopo di lei) i risultati dell’indagine”.

Nel gennaio del 2019 Dick Marty, autore del rapporto dell’APCE sul traffico di organi in Kosovo, in un’intervista con la rivisita serba Novosti osservò che l’indagine venne condotta in maniera amatoriale e i medicinali, le siringhe e gli altri oggetti rinvenuti nei pressi di Burreli furono insabbiati dal Tribunale.

“Quando a suo tempo mi rivolsi al TPIJ per avere informazioni circa le prove raccolte sul luogo del presunto crimine della Casa gialla, mi risposero che non c’erano più, erano state eliminate per fare spazio come se non servissero più nessuno. Dopo quella risposta mi scoraggiai”, ricorda Marty.

Non sembra, dunque, possibile stabilire le ragioni, il movente e la logica dietro le azioni del TPIJ.

Grandi speranze: il Tribunale speciale contribuirà a trovare le tracce di migliaia di serbi scomparsi?

Poiché la stragrande maggioranza delle persone scomparse senza lasciare traccia sono serbi, a Belgrado si nutrono grandi speranze nel Tribunale speciale per i crimini di guerra dell’Esercito di Liberazione del Kosovo che dopo un lungo periodo di discussioni parlamentari avviò la sua attività il primo gennaio 2017, ma è riuscito a operare attivamente solamente nell’estate del 2019. Ora sono stati invitati per essere interrogati Ramush e Daut Haradinaj. La Serbia ipotizza che questo organo legislativo riesca a fare luce su ciò che hanno scoperto l’UNMIK, la Task Force investiva speciale del Consiglio d’Europa e la Procura serba per i crimini di guerra.

Le previsioni degli esperti circa le prospettive di ristabilimento della giustizia sono contrastanti. Ad esempio, l’avvocato Goran Petronijevic che ha lavorato con gli imputati serbi a L’Aia ipotizza in un’intervista rilasciata a Sputnik che la comparizione di Haradinaj presso la Procura speciale non sarà altro che una mossa di spettacolo tattica messa in campo dagli americani che controllano la politica kosovara. Aggiunge che la Procura speciale, a suo avviso, agisce per dimostrare al mondo che sta facendo qualcosa e non per ottenere davvero un risultato:

“La comunità internazionale ha creato questa Procura perché non riusciva a rispondere alla domanda di Dick Marty. Il Tribunale de L’Aia ha ignorato molti documenti che accusavano Haradinaj. Oggi Haradinaj può essere processato solamente se verranno trovate nuove prove. Se si volesse, se ne potrebbero trovare di nuove”.

Dall’altro lato, il politologo serbo Branko Radun in un’intervista a Sputnik osserva che, comunque andrà a finire questo nuovo procedimento penale aperto da L’Aia contro i crimini dell’UÇK, il fatto stesso che Haradinaj abbia nuovamente ricevuto notifica di comparizione in qualità di sospettato non può non essere interpretato come un segnale lanciato nei confronti di Pristina.

Radun ipotizza che i sostenitori occidentali del Kosovo autoproclamato siano pronti a cambiare le carte in tavola a Pristina, a sostituire la vecchia guardia dell’UÇK con politici nuovi e non compromessi.

“A mio avviso, Washington intende cambiare qualcosa all’interno delle istituzioni kosovare. La questione è fino a che punto questa intenzione potrà essere realizzata. Ritengo che gradualmente qualcosa cambierà”, conclude l’esperto.

Cosa non sappiamo del traffico di organi

Attorno al traffico di organi nei Balcani sono state create leggende metropolitane estremamente sanguinose. Ma in 20 anni non sono ancora stati trovati gli uomini e le donne di diversa nazionalità ma residenti in Kosovo che sono spariti senza lasciare traccia. Non sono stati rinvenuti nemmeno i loro corpi.

Prove sparse. Perizie disattente. Prove contrastanti. Assenza di volontà politica in Albania nella collaborazione alle indagini e nell’esumazione delle spoglie. Alla fine il mondo non ha visto nemmeno una condanna nel caso del traffico di organi. Le famiglie degli scomparsi sperano ancora di capire cosa sia successo ai loro parenti e amici.


Fonte: srs di Di Anastassia Galanin. Da SPUTINIK del:  15-9 settembre 2019, 19 settembre 2019, 22 settembre 2019, 24 settembre 2019



LE UCCISIONI DI MASSA DI SERBI PER ESPIANTARGLI GLI ORGANI NON SONO INIZIATE IN KOSOVO






Contrariamente alla credenza popolare, il traffico più sanguinoso della storia, quando furono espiantati organi dai serbi del Kosovo catturati e imprigionati, non iniziò in Kosovo. Come riportato dai media serbi nel processo condotto dalla missione EULEX in Kosovo, “uno degli accusati ha confessato di aver partecipato alla vendita di organi umani”.

Driton Jiljta si è dichiarato colpevole dell’accusa di “abuso di autorità e attività medica illegale”. Questo caso è parte di un processo più ampio, e l’accusa ha incriminato sette albanesi e due stranieri di traffico, criminalità organizzata e trapianti descritti come “attività medica illegale” nell’ospedale Medicus di Pristina. Secondo l’accusa, l’ospedale nel 2008 ha eseguito 30 trapianti di rene illegali mentre, secondo quanto riferito, i poveri di Turchia, Russia, Moldavia e Kazakistan arrivavano nella clinica guidati dalla falsa promessa del pagamento di 15.000 euro per i loro organi.

Processo screditato
Tuttavia, il processo non ha alcun significato serio e il suo obiettivo è, attraverso i processi giudiziari controllati dagli Stati Uniti e dall’UE, convincere il pubblico che è in corso un lavoro significativo nelle indagini sul traffico di organi umani. Questo è ciò che dicono i media e i funzionari globali. Ma cos’è successo davvero? I processi sono iniziati dopo un rapporto di Dick Marty, alto funzionario delle Nazioni Unite, deliberatamente depistato da Washington e Bruxelles al fine di proteggere i potenti organizzatori del traffico di organi umani e la loro redditizia industria – l’industria della morte.
All’inizio Jiljta si è dichiarato non colpevole del traffico di organi umani, ma di abuso della pratica medica e pratica medica illegale. La rimozione illegale di organi chiamata “espianto di organi” è definita attività criminale quando è impegnata nella tratta di esseri umani. Per questi mostruosi crimini, secondo il “Codice penale provvisorio” dell’EULEX, egli è punibile solo da 2 a 12 anni di carcere. D’altra parte, l’EULEX è come l’ICTY ostile ai serbi – impone sanzioni draconiane, quindi non sorprende che i suoi giudici abbiano condannato Zoran Kolic a 14 anni di carcere per crimini di guerra, anche se egli ha dimostrato di non essere nemmeno presente nella zona e nel momento in cui è stato commesso il presunto crimine.
Inoltre, secondo l’accusa, il caso del traffico di organi umani in Kosovo si riduce ad una singola attività, eseguita su “poveri disperati provenienti da diversi paesi, bisognosi di denaro, che sono venuti per vendere i loro reni all’ospedale privato “Medicus” di Pristina”.
Come può un’attività ben organizzata svolta dal cosiddetto Esercito di Liberazione del Kosovo su migliaia di serbi rapiti e (ancora) dispersi, indipendentemente dall’età o dal sesso, essere improvvisamente ridotta ad un semplice atto criminale?

Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner rise e definì “pazzo” un reporter di Voice of America in Kosovo, quando gli chiese di commentare il caso del traffico di organi umani in Kosovo. Secondo un rapporto di KIM Radio nell’enclave serba di Gračanica, il giornalista Budimir Ničić ha chiesto al ministro francese il suo riconoscimento e la sua posizione in merito alle accuse di traffico di organi umani.
Quando Ničić ha posto la sua domanda, secondo quanto riferito, Kouchner “rise”, e disse: “Ma tu sei malato, vero? Sei pazzo, non dire sciocchezze del genere”. Kouchner si è poi spinto a dire “non posso credere che qualcuno abbia fatto una domanda così assurda”.
“Qual è la casa gialla? Perché gialla? Signore, dovrebbe consultare (uno psichiatra). Non c’era nessuna casa gialla, non c’era nessun traffico d’organi. Le persone che parlano di cose del genere sono barboni e assassini”, ha affermato la radio citando l’importante diplomatico francese. (Nota: le persone che PARLANO di questo sono barboni e assassini, non quelli che l’hanno FATTO). Kouchner è stato amministratore delle Nazioni Unite in Kosovo dal 1999 al 2001.
I pubblici ministeri dell’EULEX hanno accusato solo una figura insignificante al fine di proteggere i veri organizzatori di questo mostruoso crimine.
Naturalmente, gli Stati Uniti e i loro satelliti, dalla pubblicazione del rapporto di Dick Marty (ONU) hanno cercato di tenere le indagini sul traffico di organi umani lontane dalle Nazioni Unite. Al fine di controllare pienamente le indagini e i procedimenti giudiziari, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si sono opposti alla proposta, e hanno costretto la Serbia ad accettare le indagini condotte esclusivamente da EULEX.

Chi sta dalla parte della Serbia?

Dalla parte della Serbia nelle Nazioni Unite ci sono Russia, Cina, Gabon e Sudafrica; questi stati hanno valutato che il Consiglio di Sicurezza dovrebbe istituire un organo investigativo internazionale; ma dopo le pressioni degli Stati Uniti hanno fatto sì che la proposta alle Nazioni Unite non venisse approvata, e presto Washington ha nominato il suo uomo a capo della squadra investigativa dell’EULEX – Clint Williamson. L’EULEX invece ha nominato un procuratore speciale britannico, Jonathan Ratel, e Washington e Londra hanno chiuso il cerchio all’interno dell’EULEX, come hanno fatto in precedenza all’Aia, in modo che persino Florence Hartmann scrivesse che la loro intelligence controllava completamente la strategia, le accuse e le sentenze del Pubblico Ministero.

Fin dall’inizio della scoperta del crimine del traffico di organi, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno cercato di screditare il rapporto di Dick Marty, che indicava che il loro burattino, Hashim Thaçi, capo della mafia in Kosovo e Primo Ministro del “Kosovo”, come coinvolto nel traffico di organi umani. Tuttavia, tracce del mostruoso business risalgono a ben prima del rapporto di Dick Marty, alla scoperta più spaventosa e oscura della storia della guerra:

Questi crimini non sono iniziati in Kosovo, ma in tutti i territori della Jugoslavia, dove la NATO ha interferito ed è intervenuta in un conflitto armato contro il popolo serbo.

È iniziato tutto nella Repubblica Serba di Krajina (RSK)

La sanguinosa industria della morte iniziò nella RSK (i territori serbi in Lika, Banovina, Kordun e Slavonia, occupati illegalmente dalla Croazia dopo il 1995) dove furono espiantati gli organi dei serbi catturati e imprigionati, per i ricchi in Occidente e nella monarchia del petrolio (cioè l’Arabia Saudita). C’era un ospedale a Vukovar guidato dalla Dott.ssa Vesna Bosanac (tra il 30 luglio e il 19 novembre 1991). È lì che, per la prima volta, si sono verificati gravi abusi dell’etica medica e del diritto umanitario internazionale: il rifiuto di fornire un’adeguata assistenza medica ai civili feriti di nazionalità serba (alcuni dei quali erano bambini) e l’invio di civili serbi alla liquidazione fisica. Tra i crimini più gravi commessi nell’ospedale di Vukovar c’è stato il prelievo forzato di sangue ai civili serbi fino all’ultima goccia, letteralmente. A tal fine, i serbi che vivevano a Vukovar sono stati portati forzatamente in ospedale da membri della Guardia Nazionale Croata [in inglese].

Quindi il crimine è continuato in Bosnia ed Erzegovina. Nel 1996. Xavier Bernard Gaultier, giornalista di Le Figaro ed esperto di Balcani, fu trovato impiccato nel suo appartamento in Spagna. Le autorità spagnole non ebbero dubbi sulla causa della morte, pensando che si trattasse di un suicidio. Tuttavia, le circostanze erano più che strane. Fu trovato con le mani legate. Sul muro della casa c’era scritto “traditore” e “Diavolo Rosso”, il soprannome di Roberto delle Fave, un mercenario italiano che combatté in Bosnia ed Erzegovina per i croati e rivelò a Gaultier molti dettagli riguardanti le spedizioni di armi dall’Austria, e del trasporto di organi in Italia. Giornalista francese, Gaultier indagò e scrisse un articolo su questioni estremamente rischiose per la sua vita. “Si parlava di criminali di guerra dell’ex Jugoslavia, ma anche di VIP italiani”. Vi erano alcune informazioni secondo cui migliaia di serbi di Sarajevo (la maggior parte è ancora dispersa?!) abbiano avuto lo stesso destino, e che i loro organi siano stati venduti da Stati Uniti, Germania e Scandinavia al Qatar.

Due milioni da un solo corpo

Sebbene i pubblici ministeri dell’EULEX parlino principalmente di espianti di reni in cui i donatori rimanevano vivi e venivano pagati 10.000 euro, mancano informazioni su ciò che è ben noto nell’industria della morte: vale a dire che un corpo può fruttare fino a due milioni di euro. Xavier Gaultier ha scritto che i cacciatori d’organi si assicuravano sempre che le loro vittime non perdessero “una sola goccia di sangue”, in modo che chi li dissezionava utilizzasse l’intero corpo nella sua totalità per la vendita.
Questo è il motivo per cui i cacciatori di organi seguono le zone di guerra del mondo, generando entrate enormi. Questo fatto raccapricciante svela i crimini più orrendi, ma ancora nascosti nell’ex Jugoslavia – un comitato criminale contro il popolo, gli uomini, le donne e i bambini serbi; il crimine che il mondo nasconde sotto i nostri occhi.

Oltre a Dick Marty anche Gerard Gallucci (ex capo dell’UNMIK nel nord del Kosovo) ha affermato che Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Italia erano informati sul traffico di organi umani e sulla “chirurgia illegale” ai quali venivano esposti i serbi rapiti in Kosovo

Indipendentemente dal fatto che noi sapessimo o meno che cosa accadde, il grande “Quintetto” (gli stati sopra menzionati) certamente lo sapevano. Hanno le informazioni, le risorse e una lunga storia di collaborazione con l’UÇK. “Non importa quale sia la verità sul traffico di organi, il coinvolgimento di alcuni dei maggiori leader mondiali è certo e confermato in questo crimine internazionale e nella corruzione”, afferma Gallucci. Nel 2011. Gallucci ha predetto che il Primo Ministro del “Kosovo” Thaçi rimarrà Primo Ministro indipendentemente da quanto afferma il rapporto di Dick Marty, perché è protetto dagli Stati Uniti e da altre potenze occidentali.

Era Camp Bondsteel, non l’ospedale Medicus. In questo senso, il posto giusto per indagare sui crimini del traffico di organi umani dei serbi rapiti in Kosovo e Metohija è la base militare degli Stati Uniti, Camp Bondsteel, non “Medicus”.

Nel 2008, tuttavia, sono trapelate informazioni secondo le quali tutte le spedizioni degli organi raccolti appartenenti ai serbi rapiti sono avvenute in speciali ospedali gestiti dalla NATO; nel frattempo c’erano tra i 6 e 14 voli al giorno che trasportavano organi umani freschi in Occidente; parte degli organi serbi finì al Royal Hospital di Londra. Secondo le accuse e le prove, anche l’ex ministro francese e capo della ONG Medici senza Frontiere, Bernard Kouchner, è fortemente coinvolto in questo crimine.

Dato che le autorità serbe si sono dimostrate sorprendentemente riluttanti riguardo al rapporto di Dick Marty, e non hanno voluto esporre alcuna prova aggravante che potesse mettere in pericolo e minacciare coloro che li hanno portati al potere (dopo che la CIA ha organizzato l’insurrezione del 5 ottobre 2000), non è sorprendente che la Russia, dopo l’inizio delle indagini del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite, ne abbia avviato un’altra in proprio. È anche chiaro il motivo per cui Mosca è stata attaccata dal procuratore dell’EULEX Ratel – Mosca rimane, forse, l’unica speranza per chiarire completamente le indagini farsesche organizzate da Washington e Bruxelles in Kosovo e che, un giorno, questi crimini assolutamente mostruosi vengano alla luce.

Articolo di Grey Carter pubblicato su Oriental Review il 5 agosto 2019.
Traduzione in italiano a cura di Raffaele Ucci per Saker Italia.

Fonte: Da la prospettiva del Falco sul mondo di oggi