giovedì 24 ottobre 2019

COME E PERCHE’ LA MASSONERIA DECRETO’ LA FINE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE




I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino e Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.

Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.

Innanzitutto furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.


I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino e Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.

Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.

Innanzitutto furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.


In questo conflittuale scenario di potentati, la nazione Napoletana percorreva di suo una crescita esponenziale ed era già la terza potenza europea per sviluppo industriale come designato all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1856. Un risultato frutto anche della politica di Ferdinando II che portò avanti una politica di sviluppo autonomo atto a spezzare le catene delle dipendenze straniere.

La flotta navale delle Due Sicilie costituiva poi un pericolo per la grande potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei traffici con l’oriente nel Canale di Suez i cui scavi cominciarono proprio nel 1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.

L’integrazione del sistema marittimo con quello ferroviario, con la costruzione delle ferrovie nel meridione con cui le merci potessero viaggiare anche su ferro, insieme alla posizione d’assoluto vantaggio del Regno delle Due Sicilie nel Mediterraneo rispetto alla più lontana Gran Bretagna, fu motivo di timore per Londra che già non aveva tollerato gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo grazie ai quali la flotta sovietica aveva navigato serenamente nel Mediterraneo, avendo come basi d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie.

Proprio il controllo del Mediterraneo era una priorità per la “perfida Albione” che si era impossessata di Gibilterra e poi di Malta, e mirava ad avere il controllo della stessa Sicilia quale punto più strategico per gli accadimenti nel mediterraneo e in oriente. L’isola costituiva la sicurezza per l’indipendenza Napolitana e in mano agli stranieri ne avrebbe decretata certamente la fine, come fece notare Giovanni Aceto nel suo scritto “De la Sicilie et de ses rapports avec l’Angleterre”.


La presenza inglese in Sicilia era già ingombrante e imponeva coi cannoni a Napoli il remunerativo monopolio dello zolfo di cui l’isola era ricca per i quattro quinti della produzione mondiale; con lo zolfo, all’epoca, si produceva di tutto ed era una sorta di petrolio per quel mondo. E come per il petrolio oggi nei paesi mediorientali, così allora la Sicilia destava il grande interesse dei governi imperialisti.

I Borbone, in questo scenario, ebbero la colpa di non fare tesoro della lezione della Rivoluzione Francese, di quella Napoletana del 1799 e di quelle a seguire, di considerarsi insovvertibili in Italia e di non capire che il pericolo non era da individuare nella penisola ma più in la, che nemico era alle porte, anzi, proprio in casa.
 Il Regno di Napoli e quello d’Inghilterra erano infatti alleati solo mezzo secolo prima, ma in condizione di sfruttamento a favore del secondo per via dei considerevoli vantaggi commerciali che ne traeva in territorio duosiciliano. Fu l’opera di affrancamento e di progressiva riduzione di tali vantaggi da parte di Ferdinando II a rompere l’equilibrio e a suscitare le cospirazioni della Gran Bretagna che si rivelò così un vero e proprio cavallo di Troia. Per questo fu più comodo per gli inglesi “cambiare” l’amicizia ormai inimicizia con lo stato borbonico con un nuovo stato savoiardo alleato.

Questi furono i motivi principali che portarono l’Inghilterra a stravolgere gli equilibri della penisola italiana, propagandando idee sul nazionalismo dei popoli e denigrando i governi di Russia, Due Sicilie e Austria. 
La mente britannica armò il braccio piemontese per il quale il problema urgente era quello di evitare la bancarotta di stampo bellico accettando l’opportunità offertagli di invadere le Due Sicilie e portarne a casa il tesoro.

Un titolo sul “Times” dell’epoca, pubblicato già prima della morte di Ferdinando II, è foriero di ciò che sta per accadere e spiega l’interesse imperialistico inglese nelle vicende italiane. “Austria e Francia hanno un piede in Italia, e l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure”.

Lo sbarco a Marsala e l’invasione del Regno delle Due Sicilie sono a tutti gli effetti un “gravissimo atto di pirateria internazionale”, compiuto ignorando tutte le norme di Diritto Internazionale, prima fra tutte quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che nessuna nazione straniera abbia mosso un dito mentre avveniva e si sviluppava fa capire quale sia stata la predeterminazione di un atto così grave.

Garibaldi è un burattino in mano a Vittorio Emanuele II Cavour, l’unico che può compiere questa invasione senza dichiarazione non essendo né un sovrano né un politico. E viene manovrato a dovere dal conte piemontese, dal Re di Sardegna e dai cospiratori inglesi, fin quando non diviene scomodo e arriva il momento di costringerlo a farsi da parte.


Di soldi, nel 1860, ne circolano davvero parecchi per l’operazione. Si parla di circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra, denaro investito per comprare il tradimento di chi serve allo scopo, ma anche armi, munizioni e navi. A Londra nasce il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile ad ingaggiare i mercenari che devono formare la “Legione Britannica”, uomini feroci che aiuteranno il Generale italiano nei combattimenti che verranno.

Garibaldi diviene un eroe in terra d’Albione con una popolarità alle stelle. Nascono i “Garibaldi’s gadgets”: ritratti, composizioni musicali, spille, profumi, cioccolatini, caramelle e biscotti, tutto utile a reperire fondi utili all’impresa in Italia.

In realtà, alla vigilia della spedizione dei mille, tutti sanno cosa sta per accadere, tranne la Corte e il Governo di Napoli ai quali “stranamente” non giungono mai quei telegrammi e quelle segnalazioni che vengono inviate dalle ambasciate internazionali. In Sicilia invece, ogni unità navale ha già ricevuto le coordinate di posizionamento nelle acque duosiciliane.

La traversata parte da Quarto il 5 Maggio 1860 a bordo della “Lombardo” e della “Piemonte”, due navi ufficialmente rubate alla società Rubattino ma in realtà fornite favorevolmente dall’interessato armatore genovese, amico di Cavour. Garibaldi non sa neanche quanta gente ha a bordo, non è una priorità far numero; se ne contano 1.089 e il Generale resta stupito per il numero oltre le sue stime. Sono persone col pedigree dei malavitosi e ne farà una raccapricciante descrizione lo stesso Garibaldi. Provengono da Milano, Brescia, Pavia, Venezia e più corposamente da Bergamo, perciò poi detta “città dei mille”. Ci sono anche alcuni napoletani, calabresi e siciliani, 89 per la precisione, proprio quelli sfrattati dalla toponomastica delle città italiane.


La rotta non è casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non è la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li c’è una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.

Il 10 Maggio, alla vigilia dello sbarco, l’ammiragliato inglese a Londra dà l’ordine ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”, ancorati a Palermo, di portarsi a Marsala; ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi ma in realtà con altri scopi. Ci arrivano infatti all’alba del giorno dopo e gettano l’ancora fuori a città col preciso compito di favorire l’entrata in rada delle navi piemontesi. Navi che arrivano alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo dimostra quanta sicurezza avessero i rivoltosi che altrimenti avrebbero più verosimilmente scelto di sbarcare di notte.


L’approdo avviene proprio dirimpetto al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di vini “Ingham” e “Whoodhouse” con le spalle coperte dai piroscafi britannici che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolano i colpi di granate dell’incrociatore napoletano “Stromboli”, giunto sul posto insieme al piroscafo “Capri” e la fregata a vela “Partenope”.

Le trattative che si intavolano fanno prendere ulteriore tempo ai garibaldini e sortiscono l’effetto sperato: I “mille” sbarcano sul molo. Ma sono in 776 perché i veri repubblicani, dopo aver saputo che si era andati a liberare la Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, si sono fatti sbarcare a Talamone, in terra toscana. Contemporaneamente sbarcano dall’Intrepid dei marinai inglesi anch’essi di rosso vestiti che si mischiano alle “camicie rosse”, in modo da impedire ai napoletani di sparare.

Napoli invia proteste ufficiali a Londra per la condotta dei due bastimenti inglesi ma a poco serve.

Garibaldi e i suoi sbarcano nell’indifferenza dei marsalesi e la prima cosa che fanno è saccheggiare tutto ciò che è possibile.
Il 13 Maggio Garibaldi occupa Salemi, stavolta nell’entusiasmo perché il barone Sant’Anna, un uomo potente del posto, si unisce a lui con una banda di “picciotti”. Da qui si proclama “dittatore delle Due Sicilie” nel nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”.


Il 15 Maggio è il giorno della storica battaglia di Calatafimi. I mille sono ora almeno il doppio; vi si uniscono “picciotti” siciliani, inglesi e marmaglie insorte, e sfidano i soldati borbonici al comando del Generale Landi. La storiografia ufficiale racconta di questo conflitto come di un miracolo dei garibaldini ma in realtà si tratta del risultato pilotato dallo stesso Generale borbonico, un corrotto accusato poi di tradimento.

I primi a far fuoco sono i “picciotti” che vengono decimati dai fucili dei soldati Napoletani.

Il Comandante borbonico Sforza, con i suoi circa 600 uomini, assalta i garibaldini rischiando la sua stessa vita e mentre il Generale Nino Bixio chiede a Garibaldi di ordinare la ritirata il Generale Landi, che già ha rifiutato rinforzi e munizioni a Sforza scongiurando lo sterminio delle “camicie rosse”, fa suonare le trombe in segno di ritirata. Garibaldi capisce che è il momento di colpire i borbonici in fuga e alle spalle, compiendo così il “miracolo” di Calatafimi. Una battaglia che avrebbe potuto chiudere sul nascere l’avanzata garibaldina se non fosse stato per la condotta di Landi che fu accusato di tradimento dallo stesso Re Francesco II e confinato sull’isola d’Ischia; non a torto perché poi un anno più tardi, l’ex generale di brigata dell’esercito borbonico e poi generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo in pensione, si presenta al Banco di Napoli per incassare una polizza di 14.000 ducati d’oro datagli dallo stesso Garibaldi ma scopre che sulla sua copia, palesemente falsificata, ci sono tre zeri di troppo. Landi, per questa delusione, è colpito da ictus e muore.


Garibaldi, ringalluzzito per l’insperata vittoria di Calatafimi, s’inoltra nel cuore della Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllano le coste con movimenti frenetici. In realtà la flotta inglese segue in parallelo per mare l’avanzata delle camicie rosse su terra per garantire un’uscita di sicurezza.

Intanto sempre gli inglesi fanno arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi e danari per i rivoltosi e preziose informazioni da parte di altri traditori vendutisi all’invasore per fare del Sud una colonia. Le banche di Londra sono piene di depositi di cifre pagate come prezzo per ragguagli sulla dislocazione delle truppe borboniche e di suggerimenti dei generali corruttibili, così come di tante altre importantissime informazioni segrete.

Garibaldi entra a Palermo e poi arriva a Milazzo ormai rafforzato da uomini e armi moderne e l’esito della battaglia che li si combatte, a lui favorevole, é prevalentemente dovuto all’equipaggiamento individuale dei rivoltosi che hanno ricevuto in dotazione persino le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese modello “Enfield ‘53”.


Quando l’eroe dei due mondi passa sul territorio peninsulare, le navi inglesi continuano a scortarlo dal mare e anche quando entra a Napoli da Re sulla prima ferrovia italiana ha le spalle coperte dall’Intrepid (chi si rivede) che dal 24 Agosto, insieme ad altre navi britanniche, si muove nelle acque napoletane.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sosta vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove può tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lascia Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, dona agli amici inglesi un suolo a piacere che viene designato in Via San Pasquale a Chiaia su cui viene eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.


Qualche mese dopo, la città di Gaeta che ospita Francesco II nella strenua difesa del Regno è letteralmente rasa al suolo dal Generale piemontese Cialdini, pagando non solo il suo ruolo di ultimo baluardo borbonico ma anche e soprattutto l’essere stato nel 1848 il luogo del rifugio di Papa Pio IX, ospite dei Borbone, in fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, periodo in cui la città assunse la denominazione di “Secondo Stato Pontificio”.

Scompare così l’antico Regno di Ruggero il Normanno sopravvissuto per quasi otto secoli, non a caso nel momento del suo massimo fulgore.

Dieci anni dopo, nel Settembre 1870, la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma al Regno d’Italia decreta la fine anche dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, portando a compimento il grande progetto delle massonerie internazionali nato almeno quindici anni prima, volto a cancellare la grande potenza economico-industriale del Regno delle Due Sicilie e il grande potere cattolico dello Stato Pontificio. Il Vaticano, proprio da qui si mondanizza per sopravvivenza e comincia ad affiancarsi alle altre supremazie mondiali che hanno cercato di eliminarlo.


Garibaldi, pochi anni dopo la sua impresa, è ospite a Londra dove viene accolto come un imperatore. I suoi rapporti con l’Inghilterra continuano per decenni e si manifestano nuovamente quando, intorno alla metà del 1870, il Generale è impegnato nell’utopia della realizzazione di un progetto faraonico per stravolgere l’aspetto di Roma: il corso del Tevere entro Roma completamente colmato con un’arteria ferroviaria contornata da aree fabbricabili. Da Londra si tessono contatti con società finanziarie per avviare il progetto ed arrivano nella Capitale gli ingegneri Wilkinson e Fowler per i rilievi e i sondaggi. È pronta a realizzare la remunerativa follia la società britannica Brunless & McKerrow che non vi riuscirà mai perché il progetto viene boicottato del Governo italiano.

L’ideologia nazionale venera i “padri della patria” che operarono il piano internazionale, dimenticando tutto quanto di nefasto si raccontasse di Garibaldi, un avventuriero dal passato poco edificante. 
L’Italia di oggi festeggia un uomo condannato persino a “morte ignominiosa in contumacia” nel 1834 per sentenza del Consiglio di Guerra Divisionale di Genova perché nemico della Patria e dello Stato, motivo per il quale fuggì latitante in Sud America dove diede sfogo a tutta la sua natura selvaggia.


In quanto a Cavour, al Conte interessava esclusivamente ripianare le finanze dello Stato piemontese, non certo l’unità di un paese di cui non conosceva neanche la lingua, così come Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia, benché non a caso secondo di nome nel solco di una continuazione della dinastia sabauda e non italiana. Non a caso il 21 Febbraio 1861, nel Senato del Regno riunito a Torino, il nuovo Re d’Italia fu proclamato da Cavour «Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie», non Re d’Italia.


Fonte: da Informazione alternativa del  4 agosto 2014



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