lunedì 29 aprile 2019

QUANDO TI RENDI CONTO CHE, PER PRODURRE, È NECESSARIO OTTENERE IL CONSENSO DI COLORO CHE NON PRODUCONO NULLA…




AYN RAND.  QUESTA FRASE È DEL 19201 


Frase della filosofa russo-americana Ayn Rand (ebrea fuggitiva dalla rivoluzione russa, che arrivò negli Stati Uniti nella meta del decennio 1920-30), mostrando un punto di vista con cognizione di causa

Quando ti rendi conto che, per produrre, è necessario ottenere Il consenso di coloro che non producono nulla; 
Quando hai la prova che Il denaro fluisce a coloro che non commerciano con merci, ma con favori; 
Quando capisci che molti si arricchiscono con la corruzione e l'influenza, più che di lavoro e che le leggi non ci proteggono da loro, ma al contrarlo, essi sono protetti dalle leggi; 
Quando ti rendi conto che la corruzione è ricompensata, e l'onestà diventa auto-sacrificio; allora puoi affermare, senza paura di sbagliarti, che la tua società è condannata. 




domenica 28 aprile 2019

PERCHE’ IL 25 APRILE E’ UNA DATA CHE ANCORA DIVIDE




di ROMANO BRACALINI 

– Il 25 aprile doveva costituire un simbolo nazionale,un motivo di orgoglio collettivo,un riferimento forte e condiviso della nuova identità italiana, come il 4 di luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Non c’è riuscito.Ogni anno i cortei organizzati dall’ANPI diventano un motivo di polemica e di divisione, come quelli che si annunciano giovedì.

Così, con tutti gli apparati della propaganda, e forse a causa di questi, il 25 aprile non è riuscito a diventare la festa nazionale che si voleva perché il suo carattere politico e di parte l’ha resa indigesta ed estranea a gran parte del Paese.

Nonostante le mistificazioni e le cifre gonfiate, la Resistenza fu un fenomeno minoritario e non influì sulle sorti della guerra. E tuttavia ho grande rispetto per quelli, pochi, che l’hanno fatta davvero, a confronto di quelli, molti, che dissero di averla fatta.

La Resistenza, inoltre, ha interessato solo la metà del paese, ovvero il Centro-Nord, dalla Toscana in su, quello stesso Centro-Nord che ha sempre rappresentato la modernità e il progresso e che darà la vittoria alla Repubblica nel 1946. Il Sud, come tutti i deboli, veniva al rimorchio.

Nel periodo clandestino i partigiani si aggiravano sulle centomila unità, forse meno; dopo la Liberazione divennero improvvisamente dai 600.000 ai 700.000, tutti in possesso di certificati più o meno autentici, più o meno compiacentemente rilasciati.

Gli uomini più avveduti dell’antifascismo avevano elencato le esigenze morali che dovevano imporsi alla coscienza nazionale dopo la tragedia che aveva distrutto il paese. L’Italia non era stata la vittima del fascismo, ma la sua più convincente rappresentazione. Che cosa fu il fascismo se non la sintesi di tutte le bassezze plebee della razza italiana? Ma l’aratro aveva inciso in profondità e le iniquità e i vizi del carattere, che ne avevano favorito la nascita e il trionfo, non sarebbero morti col fascismo.

Dice Tocqueville che “è impossibile liquidare il totalitarismo dall’alto e con mezzi totalitari”. Ora, in Italia negli anni 1944-45, gli anni della Resistenza che costituiva l’alibi e il grimaldello dei partiti, si stava facendo proprio questo. Alla dittatura del partito unico si sostituiva la dittatura dell’esarchia del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale).

L’Italia “nuova”, come le fenice, rinasceva dalle proprie ceneri a immagine e somiglianza di quella vecchia, con i medesimi vizi di struttura e le stesse tentazioni autoritarie. Dal folto schieramento “antifascista” sviluppatosi come per partenogenesi erano sorti due partiti maggioritari, il comunista e il cattolico (o democristiano), di cui non si capiva come avrebbero potuto traghettare il paese dalla dittatura alla democrazia essendo entrambe, diceva Benedetto Croce, ”intrinsecamente e per istituto illiberali”. Di conseguenza anche gran parte della Resistenza risentiva della medesima ideologia illiberale e serviva al Pci per accreditarsi come partito di governo.

Le scritte sui muri, secondo lo stile introdotto dal fascismo, inneggiavano alla Repubblica, alla rivoluzione, poche scritte di entusiasmo e molte di odio e di proposte di nuove lotte insieme alla esaltazione della violenza partigiana che si pensava potesse tornare utile dopo la fine della guerra.

Col ritorno dei partiti s’era scatenata una “indiscriminata divisione del bottino”. Era quello il primo nucleo della nascente partitocrazia italiana che avrebbe svuotato i poteri del Parlamento e occupato lo Stato surrogandone le funzioni ma senza migliorarne l’efficienza, specie nell’amministrazione e nei servizi pubblici, anzi peggiorandoli rispetto all’ “ordine fascista” che almeno faceva viaggiare i treni in orario e con le latrine pulite.

La Resistenza sarebbe servita al PCI per prendere il potere con la forza, o quanto meno per governare da una posizione di forza. Il comunista Pietro Secchia, braccio destro di Palmiro Togliatti, era il teorico del colpo di stato militare per fare dell’Italia uno stato comunista, sul modello delle cosiddette “democrazie popolari” dell’Est asservite all’URSS, e per questo contrario a disarmare i partigiani comunisti delle brigate “Garibaldi”. Solo la presenza degli americani in Italia scongiurò la realizzazione del piano eversivo del PCI.

Il 25 aprile non rappresenta il ritorno alla libertà, come si pretende, ma la continuità col passato nel quadro della nuova dittatura pluralista.


Fonte :  srs di ROMANO BRACALINI, da L’Indipendenza Nuova,  del 28 aprile 2019 


sabato 27 aprile 2019

«IO, DISARMATO E NASCOSTO MENTRE SALTAVANO I PONTI DI VERONA»


1945, I resti del Ponte di Castelvecchio



«Il 25 aprile fu una delle giornate più tragiche e più felici della mia vita»: inizia così il racconto di Gianfranco De Bosio, regista e sceneggiatore veronese, classe 1924, che in quella primavera del 1945 era a Verona quale membro del terzo Comitato di liberazione nazionale (il primo si era sciolto dopo le prime retate dei nazifascisti, tutti i componenti del secondo erano poi finiti nei lager nazisti). Nel CLN veronese De Bosio era quale rappresentante della Democrazia Cristiana, «anche se non ne facevo parte, ma la regola voleva che ogni partito antifascista clandestino fosse rappresentato, così per la DC fui designato io». Ci volevano almeno tre partiti per formare un CLN riconosciuto, e tre furono in quello veronese, perché i socialisti non designarono mai il loro rappresentante. Così, oltre De Bosio, c'erano Vittorio Zorzi per il Partito d'Azione (dopo la guerra braccio destro di Adriano Olivetti, scoprirà Primo Levi scrittore) e Idelmo Mercandino per i comunisti (subentrato a Pietro Melloni, arrestato)

«Dalle sette di sera del 25 aprile i nazisti in ritirata fecero saltare i ponti», continua De Bosio. «Fu la peggior sconfitta della Resistenza veronese: non riuscimmo a impedirlo. I gruppi cittadini erano disarmati e dal Baldo non scese nessuno. Ricordo la polvere che pioveva dal cielo sul centro. Quel pomeriggio ero nascosto in un appartamento vicino agli Scalzi, reduce da tredici mesi di vita clandestina. Sentite le esplosioni uscii subito in strada, rimasi atterrito: fu un gesto inutile, di rappresaglia». Il commento di De Bosio risente ancora delle polemiche scoppiate nel primo dopoguerra, quando furono incolpati i partigiani per il mancato intervento, piuttosto che i nazifascisti per la devastazione (cariche esplosive enormemente più potenti del necessario, per far danno alla città, come fu) e per l'inganno (al vescovo Cardinale, che si era prestato come mediatore, fu assicurato che i ponti non sarebbero saltati, se i partigiani si fossero astenuti da attacchi. Invece*...).  

L'ultima notte di incubo — oltre ai ponti, salta anche la polveriera di Avesa, fatta esplodere sempre dai tedeschi, in rotta, ma tutt’altro che inermi — e al primo mattino del 26 aprile arrivano finalmente gli Alleati. «Di quel giorno mi sovviene la felicità popolare. Tutti corsero incontro alle camionette che si riversavano in città. Gli americani arrivarono intorno alle quattro di mattina, da corso Porta Nuova. Si diceva “gli americani”, ma in realtà la maggior parte dei soldati che incontrai io erano australiani. Che scene, in città! Vidi un mio ex professore di dottrina fascista, uno che si vantava di aver giustiziato prigionieri etiopi con pistolettate alla testa, staccarsi il distintivo e schiacciarlo sotto i piedi. Noi del CNL ci trasferimmo in prefettura, dove arrivarono il maggiore Blackwell, americano, molto simpatico e il capitano Bean, inglese, che ci trattava come se fossimo nemici. Non voleva accettare il cambio dell'Italia da fascista ad antifascista. A onore del vero, devo dire che effettivamente durante la Resistenza eravamo in pochissimi a combattere mentre il primo maggio, in Arena, c'erano dodicimila “partigiani” con le divise e le armi più strane e improbabili. Io a quella pagliacciata non ci sono andato. Mi ricordavo purtroppo un'altra piazza Bra gremita, il 10 giugno del 1940, quando Mussolini dichiarò l'entrata in guerra: piazza Bra era stracolma di folla esultante».

«Avevo solo diciannove anni nel 1945», continua l'ultimo testimone del CNL veronese, «mi dovevo far crescere la barba e portare gli occhiali finti per sembrare più grande. Venivo dalle squadre d'azione dinamitarde di Padova, sotto il comando di Otello Pighin». Su questa figura di antifascista De Bosio ha ritagliato il protagonista del suo film più celebre, Il terrorista. Rivisto di recente al K2, dove è stato proiettato per i 90 anni del regista, ha dimostrato di reggere benissimo alla prova degli anni. Un bel film, che si fa guardare ancora volentieri, per molti aspetti lungimirante nel dipingere senza retorica contraddizioni e crisi di coscienza. «Fui catturato dalle SS, fuggii e venni mandato a Verona per “mettere su” la Democrazia Cristiana, malvista dal clero e in seguito dalla RYE, la missione militare italiana inviata dal governo badogliano e guidata da Carlo Perucci, un ufficiale del Regio Esercito che a Verona era stato presidente dell'Azione Cattolica». Perucci già temeva l'imporsi dei comunisti nel dopoguerra e per questo diffidava del CNL, in cui erano determinanti. «Ho imparato tanto nei due anni tra il 1943 e il 1945, anche a capire come le fedi politiche si trasformano. A settembre lasciai la politica e ripresi gli studi letterari». Memorie preziose, che De Bosio sta raccogliendo in una biografia, di prossima pubblicazione per Neri Pozza. «La notte successiva alla liberazione Bean mi svegliò inferocito: a Montecchia di Crosara c'era un gruppo di partigiani che voleva trucidare i prigionieri fascisti. Mi mandò con una macchina alleata a fermarli». Sveglia notturna ripetuta il primo maggio, con traduzione da parte degli inglesi dei membri del CNL in prefettura, «più sotto arresto che per consultarci». A Forte Azzano i partigiani avevano fucilato, oltre i termini stabiliti dal CNL per la giustizia sommaria, otto prigionieri, tra cui l'ultimo segretario federale fascista di Verona, Sandro Bonamici.

Una stagione terribile. «Mi ricordo il colonnello degli alpini Giovanni Fincato, diventato nostro comandante di piazza partigiano. Gli parlai il giorno prima che fosse catturato. Era un uomo piccolo, magro. Lo chiusero in una camera di tortura vicino al Teatro Romano. Poteva fare, tra gli altri, il mio nome. Ma non parlò. Gettarono il suo cadavere in Adige. Non fu più trovato».

(  *  PS di Gio.  Attacchi che i partigiani  fecero  contro i tedeschi in ritirata).


Fonte: da L’Arena di Verona del 25 aprile 2015


giovedì 25 aprile 2019

GLI ITALIANI NON ESISTONO. SIAMO UN GRANDE MIX GENETICO. TRANNE I SARDI





La penisola dal punto di vista genetico è divisa da una linea che separa più Est da Ovest che Nord da Sud. L’unica che fa storia a sé è la Sardegna


di Luigi Ripamonti


La distribuzione genetica in Italia per linea paterna

Gli Italiani? Non esistono. «Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico. Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha creato una banca di campioni di Dna per tracciare la storia genetica degli Italiani, insieme a Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e collaboratori. Lo studio rientra in un progetto mondiale finanziato dalla National Geographic Society.

Maschi e femmine

«Coinvolgendo i centri di donazione Avis abbiamo raccolto 3 mila campioni di sangue di italiani provenienti da tutte le regioni» racconta Pettener. 
«Di questi ne abbiamo per ora utilizzati circa 900. Ogni persona coinvolta doveva avere i 4 nonni provenienti dalla stessa provincia. I primi dati, pubblicati sulla rivista PlosOne, hanno riguardato i cosiddetti marcatori uniparentali: il cromosoma Y, trasmesso per via paterna e il Dna mitocondriale, per via materna». Risultato? «Si pensa in genere che la variabilità genetica in Italia segua un cambiamento graduale secondo un asse Nord-Sud— spiega l’esperto— Invece, dal punto di vista del cromosoma Y (linea paterna), emerge, a parte la Sardegna, un’Italia divisa secondo una linea più longitudinale, che separa una zona nord-occidentale da una sud-orientale. Ciò non si osserva però con il Dna mitocondriale (linea materna), che ha una distribuzione più omogenea, spiegabile con la maggiore mobilità femminile legata a pratiche matrimoniali che prevedevano lo spostamento della donna. Il quadro complessivo è frutto di spostamenti lungo due traiettorie diverse iniziati nel neolitico, con l’avvento delle tecnologie agricole e dell’allevamento. Nei periodi successivi è successo di tutto: Germani, Greci, Longobardi, Normanni, Svevi, Arabi sono passati lasciando i loro geni». 

Malattie 

La storia genetica degli Italiani, però, non è stata influenzata solo dalle migrazioni. Anche l’adattamento alle diverse pressioni selettive è stato determinante, influenzato la suscettibilità a malattie diverse. A sancirlo è un altro studio, pubblicato su Scientific Reports, coordinato dal gruppo di Antropologia Molecolare e Adattamento Umano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna. 
«L’evoluzione delle popolazioni dell’Italia settentrionale è stata condizionata da un clima freddo, che ha reso necessaria una dieta molto calorica e grassa» spiega Marco Sazzini, ricercatore del BiGeA. 
«La selezione naturale ha favorito in queste popolazioni la diffusione di varianti genetiche in grado di modulare il metabolismo di trigliceridi e colesterolo e la sensibilità all’insulina, riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete. Clima diverso e contributo genetico di altre popolazioni mediterranee hanno fatto sì che gli abitanti dell’Italia centro-meridionale mantenessero più diffusamente varianti genetiche responsabili di una maggiore vulnerabilità a tali malattie». 
Oltre al clima e alla dieta un altro fattore che ha indirizzato gli adattamenti genetici degli Italiani, soprattutto in Sardegna e nell’Italia centro-meridionale sono le malattie infettive. In Sardegna, ad esempio, la malaria ha rappresentato una delle principali pressioni ambientali, mentre nel Sud la selezione naturale ha potenziato le risposte infiammatorie contro i batteri di tubercolosi e lebbra, le quali potrebbero però essere una delle cause evolutive alla base di una maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie dell’intestino, come per esempio il morbo di Crohn.

Il caso della Sardegna

A proposito di Sardegna, un aspetto interessante di questi studi è quello relativo all’analisi delle popolazioni isolate. 
«I Sardi» sottolinea Pettener, «si differenziano da tutte le popolazioni italiane ed europee. Mentre la Sicilia è stata un hub per tutte le popolazioni mediterranee, la Sardegna conserva le più antiche tracce non avendo subito invasioni e si è differenziata da tutte le popolazioni europee al pari di Baschi e Lapponi». 
«Lo studio delle popolazioni isolate, come e più della Sardegna, per esempio come quella Arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i Ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i Cimbri dell’Altopiano di Asiago o i Grichi e i Grecanici del Salento e della Calabria è interessante perché ci permette di vedere come eravamo, presumendo che ci siano stati pochi innesti nel tempo di Dna differente. Una vera macchina del tempo».

(Donata Luiselli e Davide Pettener, conferenza sulla storia genomica degli italiani nell’ambito della quarta edizione del  Festival della Scienza Medica di Bologna, 3 – 6 maggio 2018).

Fonte: srs di Luigi Ripamonti, dal CORRIERE DELLA SERA /SALUTE del 3 maggio 2018 


domenica 21 aprile 2019

LE COOP E I NUOVI SCHIAVISTI




Buongiorno Jobob,

colgo l'occasione, fornita da Lidia A., che in una lettera accenna alle cooperative (in teoria) sociali, per raccontarti la mia esperienza e fornire uno spunto di riflessione.

Ho lavorato presso un'azienda di logistica terziaria della provincia Verona. Questa azienda, come la maggior parte dei colossi della logistica terziarizzata si serviva di coop per il personale di facchinaggio e magazzino. 

Le coop assumono soprattutto personale extracomunitario. Il contratto che stipula una coop con un suo futuro dipendente generalmente è assimilabile a quelli previsti dal Ccnl. Nel caso di una coop che opera nel settore logistico, il contratto sarà Ccnl Logistica e Trasporti. Con qualche piccola differenza: le ferie e la malattia non sono pagate (la malattia solo dal 3 giorno in poi e le ferie rientrano nello stipendio giornaliero lordo), il tfr è versato in busta a decimale. Il contratto può essere anche a tempo indeterminato, ma se in un magazzino non c'è da lavorare, perché ad esempio si è in bassa stagione, i dipendenti possono stare a casa senza percepire stipendio; se il contratto tra coop e azienda logistica terziaria termina, la coop ha la facoltà di lasciare a casa i propri lavoratori, ovviamente senza stipendiarli; se l'azienda logistica terziaria sposta il proprio magazzino o deposito, i lavoratori coop si spostano nella nuova sede (nel contratto è esplicitamente richiesto di sottoscrivere la disponibilità al trasferimento), ovviamente senza percepire rimborso spese o usufruire di appartamento aziendale. 

A discrezione, ma sono poche, alcune coop pagano le ferie, la malattia e, in caso di spostamenti, rimborsano le spese di viaggio. 

Negli ultimi anni, soprattutto di questa crisi, è stato un proliferare di coop, spesso gestite da persone senza scrupoli, desiderose di arricchirsi, sfruttatori di extracomunitari, ma anche italiani (sempre di più).

Per me sono gli schiavisti del nuovo millennio, negrieri legalizzati. Le cooperative sono nate con uno scopo sociale. Quello di introdurre nel mondo del lavoro persone svantaggiate come disabili, ex carcerati, ed ex tossici. 

Ma oggi di sociale non hanno più nulla. Sono società a delinquere, nuove mafie bianche, con i loro padroni che girano col suv all'ultimo grido. Sono una piaga, piena di pus mortale, nel mondo del lavoro. Sono l'ennesima vergogna italiana. Le cooperative sociali sono un morbo, appunto, sociale.

Le coop, soprattutto, abbassano la qualità del lavoro. Nelle loro mani, il lavoro diventa mercificazione, prostituzione di lavoratori, bravi e competenti, costretti ad accettare condizioni lavorative - che non hanno nulla a che vedere con quei diritti a favore dei quali si è molto combattuto - per poter lavorare, mantenere la famiglia, pagare un affitto. Per poter vivere. 

Le coop, purtroppo, sono legali. E sempre più aziende se ne servono per risparmiare. 

Caro Jobob,  a Lidia hai risposto che le coop non prestano un lavoratore a un'altra azienda, altrimenti sarebbe un'azione illegale. Infatti, fanno molto peggio: lo vendono. Quel socio lavoratore costa all'azienda terziaria un tot. In questo tot rientra lo stipendio giornaliero del lavoratore e i soldi per il titolare della cooperativa che si può comprare la bmw nuova di pacca e la vacanza in costa smeralda. 

Sai a quanto ammontava lo stipendio lordo giornaliero (comprensivo di ferie e tfr, intediamoci) di un lavoratore della coop, che prestava servizio all'azienda presso cui ho lavorato un anno fa? 6,10€: non raggiunge nemmeno il minimo sindacale.

Perché le cooperative sociali operano legalmente in Italia, quando è noto e palese che il loro scopo "sociale" non sussiste più? E non venitemi a raccontare che aiutano gli extracomunitari a trovare un buon lavoro in Italia. Anche loro si rendono conto di quanto sia vergognoso il trattamento che le coop gli riservano. 

Violetta Anna Armanini


IL PARERE DI JOBOB:

"Il giudizio della nostra lettrice potrebbe risultare ingeneroso nei confronti di quella minoranza di cooperative di lavoro che svolgono correttamente la loro funzione. Anzi, potrebbe esporci a qualche ritorsione legale. Se disgraziatamente dovesse succedere, coglieremo l'opportunità per cercare di capire, magari con l'aiuto della magistratura, perché  nemmeno le associazioni di categoria, che dovrebbero vigilare sulla corretta attività delle cooperative loro associate, non abbiano mai intrapreso azioni di verifica e condanna. Fino a quale livello politico arrivano le complicità di questo sistema di sfruttamento?"

 Fonte: da il lavoratorio.it del 31  agosto 2010


venerdì 19 aprile 2019

LA FORMICA, CHE ODIAVA LO SCARAFAGGIO….




La Formica, che odiava lo Scarafaggio, votò  per l’Insetticida.
Morirono tutti  quanti….
Anche il Grillo che si era astenuto.
…Questa è l’Italia


martedì 16 aprile 2019

DEFINIZIONE DI INTELLIGENZA, GENIALITÀ E CRETINAGGINE TRATTE DA LA STORIA DI GIOVANNI E MARGHERITA.



Incredibilmente l’umanità ancora non sa cos’è l’intelligenza (né la genialità e la cretinaggine), di cui riporto succintamente la definizione traendola da La storia di Giovanni e Margherita.


Scrive infatti quel compendio della ‘scienza’ di regime che è Wikipedia:

«Benché i ricercatori nel campo non ne abbiano ancora dato una definizione ufficiale (considerabile come universalmente condivisa dalla comunità scientifica), si può generalmente identificare l’intelligenza come la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti ... Tradizionalmente attribuita alle sole specie animali, oggi l’intelligenza viene da alcuni attribuita, in misura minore, anche alle piante..»

Tesi tutte grevemente errate anch’esse frutto del rifiuto di capire per non dover cambiare.

Perché l’intelligenza, come scrivo più estesamente nel libro, consiste in tutt’altra cosa che la capacità di elaborare concetti o strategie di successo – che hanno anche gli animali – e non può che essere propria esclusivamente dell’uomo per il semplice fatto che è una categoria morale (la massima).

Una categoria morale basata sull’altruismo e consistente nella capacità di svilupparsi passando attraverso lo sviluppo degli altri.

Ne deriva che la genialità, in quanto massima espressione dell’intelligenza, consiste nel saper comprendere nel proprio raggio di azione numeri elevati o elevatissimi di altri e richiede la positività, per cui non esistono geni del male o del nulla.

Di tal che il cane sarà intelligente quando, guardandoti negli occhi, saprà capire se hai fame e decidere se dividere con te la scodella, laddove, nel mentre, potrà essere abile quanto si vuole, ma solo per quello che serve o piace a lui; come del resto gran parte della stessa umanità.

Umanità che, scoperta, già dalla notte dei tempi, l’intelligenza, l’ha poi ridotta alle forme più perverse di furberia, cioè capacità di svilupparsi a scapito altrui, e si è così condannata alla cretinaggine, all’inciviltà e alla sofferenza.

Perché la cretinaggine non è un’inguaribile insufficienza o anomalia mentale, ma una guaribilissima, progressiva devianza esito dell’arroccarsi in non veritiere idee di sé, di altri o della realtà, e della difficoltà di difenderle.

23. 4. 2017
Alfonso Luigi Marra


Fonte: facebook. signoraggio.it


lunedì 15 aprile 2019

Benedetto XVI




Di seguito il testo integrale che il papa emerito Benedetto XVI ha scritto a proposito della crisi da abusi sessuali che è scoppiata in maniera dirompente nella Chiesa.


Dal  21-24 febbraio , su invito di Papa Francesco, i presidenti delle Conferenze episcopali mondiali si sono riuniti in Vaticano per discutere dell’attuale crisi della fede e della Chiesa, crisi vissuta in tutto il mondo dopo le scioccanti rivelazioni di abusi clericali perpetrati contro i minori.

La portata e la gravità degli episodi denunciati ha profondamente angosciato sia i sacerdoti che i laici, e ha fatto sì che parecchi abbiano messo in discussione la Fede stessa della Chiesa. Era necessario inviare un messaggio forte, e cercare un nuovo inizio, per rendere la Chiesa di nuovo veramente credibile come luce tra i popoli e come forza al servizio contro le potenze della distruzione.

Poiché io stesso avevo servito in una posizione di responsabilità come pastore della Chiesa al momento dello scoppio pubblico della crisi, e durante il periodo precedente, ho dovuto chiedermi – anche se, come emerito, non sono più direttamente responsabile – come avrei potuto contribuire a un nuovo inizio.

Così, dopo l’annuncio dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali, ho compilato alcuni appunti con cui poter contribuire con una o due osservazioni per aiutare in questo momento difficile.

Dopo aver contattato il segretario di Stato, il cardinale [Pietro] Parolin e lo stesso Santo Padre [Papa Francesco], mi è sembrato opportuno pubblicare questo testo nel Klerusblatt [un periodico mensile per il clero in gran parte delle diocesi bavaresi].

Il mio lavoro è diviso in tre parti.

Nella prima parte, mi propongo di presentare brevemente il più ampio contesto sociale della questione, senza il quale il problema non può essere compreso. Cerco di dimostrare che negli anni Sessanta si è verificato un evento vergognoso, di dimensioni senza precedenti nella storia. Si potrebbe dire che nei vent’anni dal 1960 al 1980, gli standard normativi precedenti sulla sessualità sono crollati del tutto, e si è creata una nuova normalità che è stata ormai oggetto di laboriosi tentativi di rottura.

Nella seconda parte, mi propongo di evidenziare gli effetti di questa situazione sulla formazione dei sacerdoti e sulla loro vita.

Infine, nella terza parte, vorrei sviluppare alcune prospettive per una risposta adeguata da parte della Chiesa.


I.
Il processo iniziato negli anni ’60 e la teologia morale


(1) La questione inizia con l’introduzione, prescritta e sostenuta dallo Stato, dei bambini e dei giovani nella natura della sessualità. In Germania, l’allora Ministro della Salute, la signora (Käte) Strobel, fece realizzare un film in cui tutto ciò che prima non poteva essere mostrato pubblicamente, compresi i rapporti sessuali, era ora mostrato a scopo educativo. Ciò che all’inizio era destinato esclusivamente all’educazione sessuale dei giovani è stato quindi ampiamente accettato come qualcosa che si poteva fare.

Effetti simili sono stati raggiunti dal “Sexkoffer” (valigia del sesso) pubblicato dal governo austriaco [una controversa “valigia” di materiali per l’educazione sessuale usati nelle scuole austriache alla fine degli anni Ottanta]. I film sessuali e pornografici divennero allora un evento comune, al punto che furono proiettati nei cinegiornali [Bahnhofskinos]. Ricordo ancora di aver visto, un giorno, mentre passeggiavo per la città di Ratisbona, una folla di persone in fila davanti a un grande cinema, cosa che prima si era vista solo in tempo di guerra, quando si sperava di ottenere qualche stanziamento speciale. Ricordo anche di essere arrivato in città il Venerdì Santo nel 1970 e di aver visto tutti i cartelloni affissi con un grande manifesto di due persone completamente nude in un abbraccio ravvicinato.

Tra le libertà per le quali la Rivoluzione del 1968 cercò di lottare c’era questa libertà sessuale totale, che non concedeva più alcuna norma.

Il collasso mentale era anche legato ad una propensione alla violenza. Per questo motivo i film a sfondo sessuale non erano più ammessi sugli aerei perché la violenza sarebbe scoppiata tra la piccola comunità di passeggeri. E poiché l’abbigliamento dell’epoca provocava anche l’aggressione, i direttori scolastici tentarono anche di introdurre uniformi scolastiche al fine di facilitare un clima di apprendimento.

Parte della fisionomia della Rivoluzione del ’68 era che anche la pedofilia veniva poi valutata come consentita e appropriata.

Per i giovani della Chiesa, ma non solo per loro, questo è stato per molti aspetti un momento molto difficile. Mi sono sempre chiesto come i giovani in questa situazione potessero avvicinarsi al sacerdozio e accettarlo, con tutte le sue ramificazioni. Il crollo estensivo della successiva generazione di sacerdoti in quegli anni e l’altissimo numero di laicizzazioni furono una conseguenza di tutti questi sviluppi.

(2) Allo stesso tempo, indipendentemente da questo sviluppo, la teologia morale cattolica ha subito un crollo che ha reso la Chiesa indifesa contro questi cambiamenti nella società. Cercherò di delineare brevemente la traiettoria di questo sviluppo.

Fino al Concilio Vaticano II, la teologia morale cattolica si basava in gran parte sul diritto naturale, mentre la Sacra Scrittura era citata solo per ragioni di fondo o di prova. Nella lotta del Concilio per una nuova comprensione della Rivelazione, l’opzione del diritto naturale fu in gran parte abbandonata, e fu richiesta una teologia morale basata interamente sulla Bibbia.

Ricordo ancora oggi come la facoltà gesuita di Francoforte formò un giovane padre di grande talento (Bruno Schüller) con lo scopo di sviluppare una morale basata interamente sulla Scrittura. La bella tesi di padre Schüller mostra un primo passo verso la costruzione di una morale basata sulla Scrittura. Padre Schüller fu poi inviato in America per ulteriori studi e ritornò con la consapevolezza che dalla sola Bibbia non si poteva esprimere sistematicamente la morale. Tentò allora una teologia morale più pragmatica, senza poter dare una risposta alla crisi della morale.

Alla fine, fu soprattutto l’ipotesi che la moralità dovesse essere determinata esclusivamente dalle finalità dell’azione umana che prevalse. Mentre la vecchia frase “il fine giustifica i mezzi” non era stata confermata in questa forma grezza, il suo modo di pensare era diventato definitivo. Di conseguenza, non poteva più esserci nulla che costituisse un bene assoluto, più di qualsiasi cosa fondamentalmente malvagia; (potevano esserci) solo giudizi di valore relativo. Non c’era più il bene (assoluto), ma solo quello relativamente migliore, dipendente dal momento e dalle circostanze.

La crisi della giustificazione e della presentazione della morale cattolica ha raggiunto proporzioni drammatiche alla fine degli anni ’80 e ’90. La crisi della giustificazione e della presentazione della morale cattolica ha raggiunto proporzioni drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la “Dichiarazione di Colonia”, firmata da 15 professori cattolici di teologia. Essa si concentrava su vari punti di crisi nel rapporto tra il magistero episcopale e il compito della teologia. (Le reazioni a) questo testo, che in un primo momento non si estendevano oltre il consueto livello di proteste, crebbero molto rapidamente in una protesta contro il magistero della Chiesa e raccolsero, in modo udibile e visibile, il potenziale di protesta globale contro i testi dottrinali attesi di Giovanni Paolo II (cfr. Lumen Gentile, n. 1). D. Mieth, Kölner Erklärung, LThK, VI3, p. 196) [LTHK è il Lexikon für Theologie und Kirche, un “Lessico di teologia e Chiesa” di lingua tedesca, i cui redattori erano Karl Rahner e il cardinale Walter Kasper.]

Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva da vicino, commissionò il lavoro di un’enciclica che avrebbe rimesso le cose a posto. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993, e scatenò forti contraccolpi da parte dei teologi morali. Prima di essa, il “Catechismo della Chiesa cattolica” aveva già presentato in modo convincente, in modo sistematico, la morale proclamata dalla Chiesa.

Non dimenticherò mai come l’allora leader teologo morale tedesco Franz Böckle, il quale, tornato nella sua Svizzera natale dopo il suo ritiro, annunciò, in vista delle possibili decisioni dell’enciclica Veritatis splendor, che se l’enciclica avesse stabilito che c’erano azioni che erano sempre e in ogni circostanza da classificare come male, le avrebbe contestate con tutte le risorse a sua disposizione.

Fu Dio, il Misericordioso, che gli risparmiò di dover mettere in pratica la sua decisione; Böckle morì l’8 luglio 1991. L’enciclica è stata pubblicata il 6 agosto 1993 e includeva infatti la determinazione che c’erano azioni che non possono mai diventare buone.

Il Papa era pienamente consapevole dell’importanza di questa decisione in quel momento e, per questa parte del suo testo, aveva nuovamente consultato eminenti specialisti che non avevano partecipato alla redazione dell’enciclica. Sapeva che non doveva lasciare dubbi sul fatto che il calcolo morale nel bilanciamento dei beni deve rispettare un limite finale. Ci sono beni che non sono mai soggetti a compromessi.

Ci sono valori che non devono mai essere abbandonati per un valore maggiore e addirittura superare la conservazione della vita fisica. C’è il martirio. Dio è (molto) più di una semplice sopravvivenza fisica. Una vita che fosse comprata sulla base della negazione di Dio, una vita che si basa su una menzogna finale, è una non vita.

Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Il fatto che il martirio non è più moralmente necessario nella teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, dimostra che qui è in gioco l’essenza stessa del cristianesimo.

In teologia morale, tuttavia, un’altra questione era nel frattempo diventata pressante: L’ipotesi che il magistero della Chiesa debba avere competenza finale [l’infallibilità] solo nelle questioni riguardanti la fede stessa ha avuto ampia accettazione; (in questa prospettiva) le questioni riguardanti la morale non dovrebbero rientrare nell’ambito delle decisioni infallibili del magistero della Chiesa. Probabilmente c’è qualcosa di giusto in questa ipotesi che merita un’ulteriore discussione. Ma c’è un set (insieme) minimo di (valori) morale che è indissolubilmente legato al principio fondamentale della fede e che deve essere difeso se non si vuole che la fede sia ridotta a una teoria, ma piuttosto essere riconosciuta nella sua pretesa di vita concreta.

Tutto ciò rende evidente quanto sia fondamentalmente messa in discussione l’autorità della Chiesa in materia di morale. Coloro che negano alla Chiesa un’ultima competenza didattica in questo campo la costringono a rimanere in silenzio proprio dove è in gioco il confine tra verità e menzogna.

Indipendentemente da questa questione, in molti ambienti della teologia morale è stata esposta l’ipotesi che la Chiesa non ha e non può avere una propria morale. L’argomento è che tutte le ipotesi morali avrebbero conosciuto paralleli anche in altre religioni e quindi non poteva esistere una proprietà cristiana della morale. Ma alla domanda sull’unicità di una morale biblica non risponde il fatto che per ogni singola frase [scritta] da qualche parte, un parallelo può essere trovato anche in altre religioni. Si tratta piuttosto dell’insieme della morale biblica, che come tale è nuova e diversa dalle sue singole parti.

La dottrina morale della Sacra Scrittura ha la sua unicità che si basa in definitiva sulla sua adesione all’immagine di Dio, nella fede nell’unico Dio che si è mostrato in Gesù Cristo e che ha vissuto come essere umano. Il decalogo è un’applicazione della fede biblica in Dio alla vita umana. L’immagine di Dio e la morale sono un tutt’uno e portano così al particolare cambiamento dell’atteggiamento cristiano verso il mondo e la vita umana. Inoltre, il cristianesimo è stato descritto fin dall’inizio con la parola hodós [in greco “strada”, nel Nuovo Testamento spesso usata nel senso di un cammino nel progresso].

La fede è un cammino e uno stile di vita. Nella vecchia Chiesa, il catecumenato è stato creato come habitat contro una cultura sempre più demoralizzata, in cui gli aspetti distintivi e freschi dello stile di vita cristiano sono stati praticati e allo stesso tempo protetti dallo stile di vita comune. Penso che anche oggi qualcosa come le comunità catecumenali siano necessarie perché la vita cristiana possa affermarsi a modo suo.

II.
Reazioni ecclesiali iniziali


(1) Il lungo e continuo processo di dissoluzione del concetto cristiano di morale è stato, come ho cercato di dimostrare, segnato da un radicalismo senza precedenti negli anni Sessanta. Questa dissoluzione dell’autorità dell’insegnamento morale della Chiesa doveva necessariamente avere un effetto sulle diverse aree della Chiesa. Nel contesto dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo con Papa Francesco, la questione della vita sacerdotale, così come quella dei seminari, è di particolare interesse. Per quanto riguarda il problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, c’è infatti una profonda rottura della precedente forma di preparazione.

In vari seminari sono state costituite cricche omosessuali, che hanno agito più o meno apertamente e hanno cambiato significativamente il clima dei seminari. In un seminario nel sud della Germania, i candidati al sacerdozio e i candidati al ministero laicale dello specialista pastorale [Pastorale di riferimento] vivevano insieme. Ai pasti comuni, seminaristi e specialisti pastorali mangiavano insieme, i coniugati tra i laici talvolta accompagnati dalle loro mogli e figli, e talvolta dalle loro amiche. Il clima di questo seminario non poteva sostenere la preparazione alla vocazione sacerdotale. La Santa Sede era a conoscenza di tali problemi, senza essere stata informata con precisione. Come primo passo, è stata organizzata una visita apostolica dei seminari negli Stati Uniti.

Poiché anche i criteri di selezione e nomina dei vescovi erano stati modificati dopo il Concilio Vaticano II, anche il rapporto dei vescovi con i loro seminari era molto diverso. Soprattutto, un criterio per la nomina di nuovi vescovi era ora la loro “conciliarità”, che naturalmente poteva essere intesa in vari significati.

Infatti, in molte parti della Chiesa, per atteggiamenti conciliari si intendeva un atteggiamento critico o negativo nei confronti della tradizione fino ad allora esistente, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto radicalmente aperto con il mondo. Un vescovo, che in precedenza era stato rettore del seminario, aveva fatto in modo che ai seminaristi fossero proiettati film pornografici, presumibilmente con l’intenzione di renderli così resistenti a comportamenti contrari alla fede.

C’erano – non solo negli Stati Uniti d’America – singoli vescovi che rifiutavano la tradizione cattolica nel suo insieme e cercavano di creare una sorta di nuova e moderna “cattolicità” nelle loro diocesi. Forse vale la pena ricordare che in non pochi seminari, gli studenti sorpresi a leggere i miei libri erano considerati inadatti al sacerdozio. I miei libri erano nascosti, come la cattiva letteratura, e leggevano solo sotto la scrivania.

La visita che in quel momento aveva avuto luogo non aveva portato nuove intuizioni, a quanto pare perché diversi poteri avevano unito le forze per nascondere la vera situazione. Una seconda visita fu ordinata e portò molte più conoscenze, ma nel complesso non riuscì a raggiungere alcun risultato. Tuttavia, dagli anni ’70 la situazione nei seminari è generalmente migliorata. Eppure, tuttavia, si sono verificati solo casi isolati di un nuovo rafforzamento delle vocazioni sacerdotali, poiché la situazione generale aveva preso una piega diversa.

(2) La questione della pedofilia, come ho ricordato, si è acuita solo nella seconda metà degli anni Ottanta. Nel frattempo, era già diventata una questione pubblica negli Stati Uniti, tanto che i vescovi cercarono aiuto a Roma, poiché il diritto canonico, come è scritto nel nuovo (1983) Codice, non sembrava sufficiente per prendere le misure necessarie.

Roma e i canonisti romani in un primo momento hanno avuto difficoltà con queste preoccupazioni; a loro avviso la sospensione temporanea dall’ufficio sacerdotale doveva essere sufficiente a portare purificazione e chiarificazione. Ciò non poteva essere accettato dai vescovi americani, perché i sacerdoti rimanevano così al servizio del vescovo, e quindi potevano essere considerati [ancora] direttamente associati a lui. Solo lentamente cominciò a prendere forma il rinnovamento e l’approfondimento del diritto penale del nuovo Codice, costruito deliberatamente in modo meno rigoroso.

In aggiunta, tuttavia, c’era un problema fondamentale nella percezione del diritto penale. Solo il cosiddetto garantismo, [una sorta di protezionismo procedurale], era ancora considerato “conciliare”. Ciò significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti dell’imputato, in misura tale da escludere di fatto qualsiasi condanna. Come contrappeso alle opzioni di difesa spesso inadeguate a disposizione dei teologi accusati, il loro diritto alla difesa attraverso il garantismo è stato esteso a tal punto che le condanne erano difficilmente possibili.

Consentitemi un breve excursus a questo punto. Alla luce delle dimensioni della cattiva condotta pedofila, è tornata all’attenzione una parola di Gesù che dice: “E chiunque avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono, meglio sarebbe per lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino, e fosse gettato in mare.” (Mc 9,42).

L’espressione “i piccoli” nel linguaggio di Gesù significa i comuni credenti che possono essere confusi nella loro fede dall’arroganza intellettuale di coloro che si credono intelligenti. Così qui Gesù protegge il deposito della fede con un’enfatica minaccia di punizione per coloro che fanno del male [ad essa].

L’uso moderno della frase non è di per sé sbagliato, ma non deve oscurare il significato originale. In questo senso, diventa chiaro, contrariamente a qualsiasi garantismo, che non è importante e richiede una garanzia solo il diritto dell’accusato. Grandi beni come la Fede sono altrettanto importanti.

Una legge canonica equilibrata, che corrisponda a tutto il messaggio di Gesù, non deve quindi solo fornire una garanzia per l’accusato, il cui rispetto è un bene giuridico. Deve anche proteggere la Fede, che è anche un importante bene giuridico. Un diritto canonico ben formato deve quindi contenere una doppia garanzia – protezione giuridica dell’accusato, protezione giuridica del bene in questione. Se oggi si avanza questa concezione intrinsecamente chiara, in genere non si è ascoltati quando si tratta della questione della protezione della Fede come bene giuridico. Nella consapevolezza generale del diritto, la Fede non sembra più avere il rango di bene che richiede protezione. Questa è una situazione allarmante che deve essere considerata e presa sul serio dai pastori della Chiesa.

Vorrei ora aggiungere, alle brevi note sulla situazione della formazione sacerdotale al momento dello scoppio pubblico della crisi, alcune osservazioni sullo sviluppo del diritto canonico in questa materia.

In linea di principio, la Congregazione del Clero è responsabile dei crimini commessi dai sacerdoti. Ma poiché il garantismo dominava in larga misura la situazione all’epoca, ero d’concordo con papa Giovanni Paolo II che era opportuno assegnare la competenza per questi reati alla Congregazione per la dottrina della fede, con il titolo Delicta maiora contra fidem.

Questa disposizione permetteva anche di imporre la massima pena, cioè l’espulsione dal clero, che non poteva essere imposta da altre disposizioni di legge. Questo non era un trucco per poter imporre la massima pena, ma è una conseguenza dell’importanza della Fede per la Chiesa. Infatti, è importante vedere che tale comportamento scorretto da parte dei chierici in definitiva danneggia la Fede.

Solo dove la fede non determina più le azioni dell’uomo sono possibili tali offese.

La severità della punizione, tuttavia, presuppone anche una chiara prova del reato – questo aspetto del garantismo rimane in vigore.

In altre parole, per imporre legalmente il massimo della pena, è necessario un vero e proprio processo penale. Ma sia le diocesi che la Santa Sede sono state sopraffatte da tale esigenza. Abbiamo quindi formulato un livello minimo di procedimento penale e abbiamo lasciato aperta la possibilità che la Santa Sede stessa si facesse carico del processo laddove la diocesi o l’amministrazione metropolitana non fossero in grado di farlo. In ogni caso, il processo avrebbe dovuto essere rivisto dalla Congregazione per la dottrina della fede per garantire i diritti degli imputati. Infine, nella Feria IV (cioè l’assemblea dei membri della Congregazione), abbiamo istituito una istanza di appello per prevedere la possibilità di appello.

Poiché tutto questo è andato oltre le capacità della Congregazione per la Dottrina della Fede, e poiché si sono verificati ritardi che, per la natura della questione, si dovevano evitare, Papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme.

III.
Alcune prospettive


(1) Cosa bisogna fare? Forse dovremmo creare un’altra Chiesa perché le cose funzionino? Ebbene, quell’esperimento è già stato fatto e ha già fallito. Solo l’obbedienza e l’amore per il nostro Signore Gesù Cristo può indicare la via. Proviamo prima di tutto a capire di nuovo e da noi stessi ciò che il Signore vuole e ha voluto con noi.

In primo luogo, vorrei suggerire quanto segue: Se volessimo davvero riassumere molto brevemente il contenuto della Fede così come è stato stabilito nella Bibbia, potremmo farlo dicendo che il Signore ha iniziato con noi un racconto d’amore e vuole ricondurre ad esso tutta la creazione. La forza che si contrappone al male, che minaccia noi e il mondo intero, non può che consistere, in ultima analisi, nell’entrare in questo amore. È la vera contrapposizione contro il male. Il potere del male nasce dal nostro rifiuto di amare Dio. Chi si affida all’amore di Dio è redento. Il nostro non essere redenti è una conseguenza della nostra incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la via della redenzione umana.

Proviamo ora ad approfondire un po’ di più questo contenuto essenziale della rivelazione di Dio. Potremmo allora dire che il primo dono fondamentale che la Fede ci offre è la certezza che Dio esiste.

Un mondo senza Dio può essere solo un mondo senza significato. Dunque, allora, da dove viene tutto ciò che è? In ogni caso, non ha uno scopo spirituale. In qualche modo è semplicemente lì e non ha né scopo né senso. Allora non ci sono norme del bene o del male. Allora solo ciò che è più forte dell’altro può affermarsi. Il potere è quindi l’unico principio. La verità non conta, in realtà non esiste. Solo se le cose hanno una ragione spirituale, sono intese e concepite – solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene – può avere senso anche la vita dell’uomo.

Che ci sia Dio come creatore e come misura di tutte le cose è prima di tutto un bisogno primordiale. Ma un Dio che non si esprimesse affatto, che non si facesse conoscere, rimarrebbe una presunzione e non potrebbe quindi determinare la forma [Gestalt] della nostra vita.

Ma un Dio che non si espresse affatto, che non si facesse conoscere, rimarrebbe un’assunzione e non potrebbe quindi determinare la forma della nostra vita. Affinché Dio sia veramente Dio in questa creazione deliberata, dobbiamo guardare a Lui esprimersi in qualche modo. Lo ha fatto in molti modi, ma con decisione nella chiamata che è stata fatta ad Abramo e ha dato alle persone in cerca di Dio l’orientamento che porta oltre ogni aspettativa: Dio stesso diventa creatura, parla come uomo con noi esseri umani.

In questo modo la frase “Dio è” si trasforma alla fine in un messaggio veramente gioioso, proprio perché Egli è più che conoscenza, perché crea – ed è – amore. Rendere le persone consapevoli di questo è il primo e fondamentale compito affidatoci dal Signore.

Una società senza Dio – una società che non lo conosce e lo tratta come inesistente – è una società che perde la sua misura. Ai nostri giorni è stato coniato il motto della morte di Dio. Quando Dio muore in una società, essa diventa libera, ci è stato assicurato. In realtà, la morte di Dio in una società significa anche la fine della libertà, perché ciò che muore è lo scopo che fornisce la direzione. E perché scompare la bussola che ci indica la giusta direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società in cui Dio è assente nella sfera pubblica e non ha più nulla da offrire. Ed è per questo che è una società in cui la misura dell’umanità è sempre più perduta. In singoli punti diventa improvvisamente evidente che ciò che è male e distrugge l’uomo è diventato ovvio.

E’ il caso della pedofilia. È stata teorizzata solo poco tempo fa come del tutto legittima, ma si è diffusa sempre di più. E ora ci rendiamo conto con sorpresa che stanno accadendo cose ai nostri figli e ai giovani che minacciano di distruggerli. Il fatto che questo possa diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti dovrebbe disturbarci in particolare.

Perché la pedofilia ha raggiunto tali proporzioni? In definitiva, la ragione è l’assenza di Dio. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché questo discorso non sembra essere pratico. Dopo lo sconvolgimento della seconda guerra mondiale, noi in Germania avevamo ancora espressamente posto la nostra Costituzione sotto la responsabilità di Dio come principio guida. Mezzo secolo dopo, non era più possibile includere la responsabilità verso Dio come principio guida nella costituzione europea. Dio è considerato come la preoccupazione di partito di un piccolo gruppo e non può più essere il principio guida per l’intera comunità. Questa decisione riflette la situazione in Occidente, dove Dio è diventata una questione privata di una minoranza.

Un compito fondamentale, che deve risultare dagli sconvolgimenti morali del nostro tempo, è che noi stessi ricominciamo a vivere di nuovo per mezzo di Dio e verso di Lui. Soprattutto, noi stessi dobbiamo imparare di nuovo a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita, invece di lasciarlo da parte come una frase in qualche modo inefficace. Non dimenticherò mai l’avvertimento che il grande teologo Hans Urs von Balthasar mi ha scritto una volta su un biglietto da visita. “Non presupporre il Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo, ma presentarlo!”

In teologia, infatti, Dio è spesso dato per scontato come un dato di fatto, ma concretamente non si tratta di Lui. Il tema di Dio sembra così irreale, così lontano dalle cose che ci riguardano. Eppure tutto diventa diverso se non si presuppone ma si presenta Dio. Non lasciandolo in qualche modo sullo sfondo, ma riconoscendolo come il centro dei nostri pensieri, parole e azioni.

(2) Dio si è fatto uomo per noi. Uomo come la sua creatura è così vicino al suo cuore che si è unito a lui ed è così entrato nella storia umana in modo molto pratico. Egli parla con noi, vive con noi, soffre con noi e ha preso la morte su di sé per noi. Ne parliamo dettagliatamente in teologia, con parole sapienti e pensieri. Ma è proprio in questo modo che corriamo il rischio di diventare padroni della fede invece di essere rinnovati e dominati dalla Fede.

Pensiamo a questo riguardo a una questione centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro modo di trattare l’Eucaristia non può che suscitare preoccupazione. Il Concilio Vaticano II si è giustamente concentrato sul riportare questo sacramento della Presenza del Corpo e del Sangue di Cristo, della Presenza della Sua Persona, della Sua Passione, Morte e Risurrezione, al centro della vita cristiana e dell’esistenza stessa della Chiesa. In parte, questo è realmente avvenuto, e dovremmo essere molto grati al Signore per questo.

Eppure è prevalente un atteggiamento piuttosto diverso. Ciò che predomina non è una nuova venerazione per la presenza della morte e risurrezione di Cristo, ma un modo di trattare con Lui che distrugge la grandezza del Mistero. Il calo della partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale dimostra quanto poco noi cristiani di oggi sappiamo ancora apprezzare la grandezza del dono che consiste nella Sua Presenza Reale. L’Eucaristia viene svalutata in un mero gesto cerimoniale quando si dà per scontato che la cortesia esiga che Egli sia offerto in occasione di celebrazioni familiari o in occasioni come matrimoni e funerali a tutti gli invitati per motivi familiari.

Il modo in cui le persone spesso ricevono il Santissimo Sacramento in comunione mostra che molti vedono la comunione come un gesto puramente cerimoniale. Pertanto, quando si pensa a quali azioni siano necessarie in primo luogo e soprattutto, è piuttosto ovvio che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa di nostra iniziativa. Piuttosto, ciò che è richiesto in primo luogo e soprattutto è il rinnovamento della Fede nella Realtà di Gesù Cristo che ci è stata data nel Santissimo Sacramento.

Nei colloqui con le vittime della pedofilia, sono stato reso consapevole di questa esigenza in primo luogo e soprattutto. Una giovane donna che era una [ex] chierichetto mi ha detto che il cappellano, il suo superiore come chierichetto, ha sempre introdotto l’abuso sessuale che stava commettendo contro di lei con le parole: “Questo è il mio corpo che offerto per voi”.

È ovvio che questa donna non può più sentire le parole stesse della consacrazione senza provare di nuovo tutta l’orribile angoscia del suo abuso. Sì, dobbiamo implorare urgentemente il Signore per il perdono, e prima di tutto dobbiamo avere piena fiducia in Lui e chiedere a Lui di insegnarci di nuovo a comprendere la grandezza della sua sofferenza, del suo sacrificio. E dobbiamo fare tutto il possibile per proteggere il dono della Santa Eucaristia dagli abusi.

(3) E, infine, c’è il Mistero della Chiesa. Rimane indimenticabile la frase con cui Romano Guardini, quasi 100 anni fa, esprimeva la gioiosa speranza che era stata instillata in lui e in molti altri: “È iniziato un evento di incalcolabile importanza; la Chiesa si sta risvegliando nelle anime”.

Intendeva dire che la Chiesa non è più stata vissuta e percepita come un semplice sistema esterno che entra nella nostra vita, come una sorta di autorità, ma piuttosto ha cominciato ad essere percepita come presente nel cuore delle persone – come qualcosa che non solo di esteriore, ma che ci muove internamente. Circa mezzo secolo dopo, riconsiderando questo processo e guardando a ciò che stava accadendo, mi sono sentito tentato di invertire la frase: “La Chiesa sta morendo nelle anime”.

Infatti, la Chiesa oggi è ampiamente considerata come una sorta di apparato politico. Se ne parla quasi esclusivamente in categorie politiche, e questo vale anche per i vescovi, che formulano la loro concezione della Chiesa di domani quasi esclusivamente in termini politici. La crisi, causata dai molti casi di abusi clericali, ci spinge a considerare la Chiesa come qualcosa di quasi inaccettabile, che ora dobbiamo prendere nelle nostre mani e ridisegnare. Ma una Chiesa fatta da sé non può costituire una speranza.

Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca in cui i pesci buoni e quelli cattivi sono separati da Dio stesso. C’è anche la parabola della Chiesa come campo su cui cresce il grano buono che Dio stesso ha seminato, ma anche le erbacce che “un nemico” vi ha seminato di nascosto. Infatti, le erbacce nel campo di Dio, la Chiesa, sono eccessivamente visibili, e anche i pesci malvagi nella rete mostrano la loro forza. Tuttavia, il campo è ancora il campo di Dio e la rete è la rete da pesca di Dio. E in ogni momento non ci sono solo le erbacce e i pesci cattivi, ma anche le colture di Dio e i pesci buoni. Proclamare entrambi con enfasi non è una falsa forma di apologetica, ma un servizio necessario alla Verità.

In questo contesto è necessario fare riferimento a un testo importante dell’Apocalisse di San Giovanni. Il diavolo è identificato come l’accusatore che accusa i nostri fratelli davanti a Dio giorno e notte (Apocalisse 12:10). L’Apocalisse di San Giovanni riprende così un pensiero dal centro della narrazione dell’inquadratura nel Libro di Giobbe (Giobbe 1 e 2, 10; 42,7-16). In quel libro, il diavolo cercò di parlare della giustizia di Giobbe davanti a Dio come se fosse solo esteriore. Ed è proprio questo che l’Apocalisse ha da dire: Il diavolo vuole dimostrare che non ci sono persone giuste; che tutta la giustizia degli uomini si manifesta solo all’esterno. Se si potesse stare alle regole di una persona, allora l’apparenza della sua giustizia cadrebbe rapidamente.

Il racconto di Giobbe inizia con una disputa tra Dio e il diavolo, in cui Dio aveva definito Giobbe come un uomo veramente giusto. Ora deve essere usato come esempio per verificare chi ha ragione. Toglietegli i suoi beni e vedrete che non rimane nulla della sua pietà, sostiene il diavolo. Dio gli permette questo tentativo, da cui Giobbe emerge positivamente. Ora il diavolo si spinge e dice: “Pelle per pelle! Tutto ciò che un uomo ha lo darà per la sua vita. Ma alza ora la mano, tocca le sue ossa e la sua carne, e maledirà il tuo volto”. (Giobbe 2:4f)

Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Può anche toccare la pelle di Giobbe. Solo l’uccisione di Giobbe gli è negato. Per i cristiani è chiaro che questo Giobbe, che sta davanti a Dio come esempio per tutta l’umanità, è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse di San Giovanni il dramma dell’umanità ci viene presentato in tutta la sua ampiezza.

Il Dio Creatore si confronta con il diavolo che parla male di tutta l’umanità e di tutta la creazione. Egli dice non solo a Dio, ma soprattutto agli uomini: Guardate cosa ha fatto questo Dio. Presumibilmente una buona creazione, ma in realtà piena di miseria e disgusto. Questa denigrazione della creazione è in realtà una denigrazione di Dio. Vuole dimostrare che Dio stesso non è buono, e quindi allontanarci da Lui.

L’attualità di ciò che l’Apocalisse ci dice qui è ovvia. Oggi, l’accusa contro Dio è, soprattutto, quella di caratterizzare la Sua Chiesa come completamente cattiva, e quindi di dissuaderci da essa. L’idea di una Chiesa migliore, creata da noi stessi, è infatti una proposta del diavolo, con la quale egli vuole allontanarci dal Dio vivente, attraverso una logica ingannevole per cui siamo ingannati troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non è fatta solo di pesci ed erbacce cattive. La Chiesa di Dio esiste anche oggi, ed è oggi lo strumento stesso attraverso il quale Dio ci salva.

È molto importante opporsi alle menzogne e alle mezze verità del diavolo con tutta la verità: sì, c’è il peccato nella Chiesa e il male. Ma anche oggi c’è la Santa Chiesa, che è indistruttibile. Oggi ci sono molte persone che umilmente credono, soffrono e amano, in cui il vero Dio, il Dio che ama Dio, il Dio che si mostra a noi. Oggi Dio ha anche i suoi testimoni (martiri) nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli.

La parola martire è tratta dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è la prima e vera testimonianza di Dio, il primo martire, che da allora è stato seguito da innumerevoli altri.

La Chiesa di oggi è più che mai una “Chiesa dei Martiri” e quindi una testimonianza del Dio vivente. Se ci guardiamo intorno e ascoltiamo con cuore attento, possiamo trovare testimoni ovunque oggi, soprattutto tra la gente comune, ma anche nelle alte sfere della Chiesa, che difendono Dio con la loro vita e la loro sofferenza. È un’inerzia del cuore che ci porta a non volerli riconoscere. Uno dei grandi ed essenziali compiti della nostra evangelizzazione è, per quanto possibile, quello di stabilire un’habitat di fede e, soprattutto, di trovarli e riconoscerli.

Vivo in una casa, in una piccola comunità di persone che scoprono continuamente nella vita di tutti i giorni testimoni del Dio vivente e che me lo segnalano con gioia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che ci rafforza e ci rende sempre più felici nella nostra fede.

Al termine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci, sempre più, la luce di Dio, che non è scomparsa, anche oggi. Grazie, Santo Padre!

–Benedetto XVI



Fonte: da Il blog  di Sabino Paciolla del 11 aprile 2019