domenica 28 aprile 2019

PERCHE’ IL 25 APRILE E’ UNA DATA CHE ANCORA DIVIDE




di ROMANO BRACALINI 

– Il 25 aprile doveva costituire un simbolo nazionale,un motivo di orgoglio collettivo,un riferimento forte e condiviso della nuova identità italiana, come il 4 di luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Non c’è riuscito.Ogni anno i cortei organizzati dall’ANPI diventano un motivo di polemica e di divisione, come quelli che si annunciano giovedì.

Così, con tutti gli apparati della propaganda, e forse a causa di questi, il 25 aprile non è riuscito a diventare la festa nazionale che si voleva perché il suo carattere politico e di parte l’ha resa indigesta ed estranea a gran parte del Paese.

Nonostante le mistificazioni e le cifre gonfiate, la Resistenza fu un fenomeno minoritario e non influì sulle sorti della guerra. E tuttavia ho grande rispetto per quelli, pochi, che l’hanno fatta davvero, a confronto di quelli, molti, che dissero di averla fatta.

La Resistenza, inoltre, ha interessato solo la metà del paese, ovvero il Centro-Nord, dalla Toscana in su, quello stesso Centro-Nord che ha sempre rappresentato la modernità e il progresso e che darà la vittoria alla Repubblica nel 1946. Il Sud, come tutti i deboli, veniva al rimorchio.

Nel periodo clandestino i partigiani si aggiravano sulle centomila unità, forse meno; dopo la Liberazione divennero improvvisamente dai 600.000 ai 700.000, tutti in possesso di certificati più o meno autentici, più o meno compiacentemente rilasciati.

Gli uomini più avveduti dell’antifascismo avevano elencato le esigenze morali che dovevano imporsi alla coscienza nazionale dopo la tragedia che aveva distrutto il paese. L’Italia non era stata la vittima del fascismo, ma la sua più convincente rappresentazione. Che cosa fu il fascismo se non la sintesi di tutte le bassezze plebee della razza italiana? Ma l’aratro aveva inciso in profondità e le iniquità e i vizi del carattere, che ne avevano favorito la nascita e il trionfo, non sarebbero morti col fascismo.

Dice Tocqueville che “è impossibile liquidare il totalitarismo dall’alto e con mezzi totalitari”. Ora, in Italia negli anni 1944-45, gli anni della Resistenza che costituiva l’alibi e il grimaldello dei partiti, si stava facendo proprio questo. Alla dittatura del partito unico si sostituiva la dittatura dell’esarchia del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale).

L’Italia “nuova”, come le fenice, rinasceva dalle proprie ceneri a immagine e somiglianza di quella vecchia, con i medesimi vizi di struttura e le stesse tentazioni autoritarie. Dal folto schieramento “antifascista” sviluppatosi come per partenogenesi erano sorti due partiti maggioritari, il comunista e il cattolico (o democristiano), di cui non si capiva come avrebbero potuto traghettare il paese dalla dittatura alla democrazia essendo entrambe, diceva Benedetto Croce, ”intrinsecamente e per istituto illiberali”. Di conseguenza anche gran parte della Resistenza risentiva della medesima ideologia illiberale e serviva al Pci per accreditarsi come partito di governo.

Le scritte sui muri, secondo lo stile introdotto dal fascismo, inneggiavano alla Repubblica, alla rivoluzione, poche scritte di entusiasmo e molte di odio e di proposte di nuove lotte insieme alla esaltazione della violenza partigiana che si pensava potesse tornare utile dopo la fine della guerra.

Col ritorno dei partiti s’era scatenata una “indiscriminata divisione del bottino”. Era quello il primo nucleo della nascente partitocrazia italiana che avrebbe svuotato i poteri del Parlamento e occupato lo Stato surrogandone le funzioni ma senza migliorarne l’efficienza, specie nell’amministrazione e nei servizi pubblici, anzi peggiorandoli rispetto all’ “ordine fascista” che almeno faceva viaggiare i treni in orario e con le latrine pulite.

La Resistenza sarebbe servita al PCI per prendere il potere con la forza, o quanto meno per governare da una posizione di forza. Il comunista Pietro Secchia, braccio destro di Palmiro Togliatti, era il teorico del colpo di stato militare per fare dell’Italia uno stato comunista, sul modello delle cosiddette “democrazie popolari” dell’Est asservite all’URSS, e per questo contrario a disarmare i partigiani comunisti delle brigate “Garibaldi”. Solo la presenza degli americani in Italia scongiurò la realizzazione del piano eversivo del PCI.

Il 25 aprile non rappresenta il ritorno alla libertà, come si pretende, ma la continuità col passato nel quadro della nuova dittatura pluralista.


Fonte :  srs di ROMANO BRACALINI, da L’Indipendenza Nuova,  del 28 aprile 2019 


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