giovedì 26 dicembre 2019

LA BANDIERA CON LO UNION JACK E IL LEONE DI SAN MARCO





Quando Napoleone dichiarò guerra alla Serenissima (primo maggio 1797) ordinò “di far atterrare in tutte le città di terraferma il Leone di San Marco”; i soldati francesi e i collaborazionisti giacobini italiani e veneti eseguirono con particolare determinazione il decreto del Bonaparte e migliaia e migliaia di leoni furono distrutti e scalpellati: Napoleone aveva capito molto bene il valore di un simbolo come il leone di San Marco e cercava di annullarne l’immaginifica potenza. Senza grandi risultati, per la verità, vista la straordinaria diffusione del simbolo marciano anche ai nostri tempi.

Nonostante la furia distruttrice di Napoleone e accoliti vari, nel 1800 nasceva nelle isole Ionie, con capitale Corfù, La Repubblica Settinsulare,  libera e indipendente dal 1800 al 1807, che mise proprio il Leone di San Marco nella propria bandiera, con l’aggiunta  di sette frecce rappresentanti il patto federale delle sette isole.

Nel 1807 nelle isole ritornarono i francesi e ci rimasero fino alla caduta di Napoleone; il Congresso di Vienna non riuscì a dipanare  la matassa ionica, anche per la valenza strategica delle isole sulle quali, dopo il lungo  periodo  della Serenissima, si erano scatenati gli appetiti dell’Inghilterra, della Francia, della Russia e dell’impero ottomano, e  solo il 5 novembre 1815 , con il trattato di Parigi, i potenti dell’epoca trovarono la soluzione.

Nascono gli “Stati Uniti delle Isole Ionie”, protettorato inglese: per la prima volta nella storia si utilizza l’istituto giuridico del “protettorato” che sarà largamente usato dagli stati della vecchia Europa cambiando notevolmente l’atlante geopolitico del mondo. Attraverso un protettorato,  uno stato più forte (protettore) si riserva il diritto di rappresentare nell’ambito del diritto internazionale uno stato più debole (protetto) in virtù di un accordo (trattato di protezione).

Lo stato protetto  ha una notevole autonomia per quanto riguarda l’amministrazione interna  (a differenza della colonia);  il protettorato viene, solitamente, governato da una figura che rappresenta lo stato protettore  (governatore, commissario).

L’istituto del protettorato venne utilizzato soprattutto dagli inglesi (Swaziland nel 1846, Brunei nel 1888, Zanzibar nel 1890, Transvaal nel 1891), dai francesi (Tunisia nel 1850, Laos nel 1869, Congo nel 1880, Marocco nel 1912), dai tedeschi (Camerun nel 1884 e Burundi nel 1907), dagli italiani (Somalia nel 1889). 

Gli Stati Uniti delle Isole Ionie si danno una costituzione che entra in vigore il primo gennaio 1818 e la prima cosa che balza all’occhio è … la bandiera: fondo blu con in alto a sinistra l’Union Jack e in basso a destra il Leone di San Marco con le sette frecce rappresentanti le sette isole ioniche; uno schema che diventerà popolare e che sarà riproposto dagli inglesi in tante parti del mondo.

La bandiera con l’Union Jack e il Leone di San Marco continuerà a sventolare fino al 29 marzo 1864 quando, con il trattato di Londra, le isole ionie furono annesse al Regno di Grecia.


Fonte: srs di ETTORE BEGGIATO, da MiglioVerde del 24 dicembre 2019


domenica 22 dicembre 2019

IL GIORGIO BOCCA CHE NON CONOSCIAMO

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca passò con entusiasmo dal fascismo al marxismo: la cesura è l'8 Settembre, quando nella sua Cuneo aderì a Giustizia e Libertà.

Non parlerò di quando era attivista tra gli universitari di Torino né quando scriveva articoli a favore delle leggi razziali.
Il 27 dicembre del '43 aveva consegnato due prigionieri tedeschi ad Andrea Spada, il famigerato capo della polizia partigiana.

Erano un maresciallo e un soldato semplice. Quest'ultimo singhiozzava prevedendo la fine che l'attendeva, mentre l'altro, inutilmente mostrava dal portafoglio le foto della famiglia coi suoi bambini.
Furono fucilati non dal plotone che si era rifiutato, ma dal boia Spada.

Nel comune di Sampeyre Giorgio Bocca faceva il giustiziere e uccise a sangue freddo un prigioniero tedesco che aveva in consegna, H. Dieter Klein di 30 anni.

Il 12 aprile del '44 uccise un sergente repubblicano catturato durante l'attacco al presidio di Busca. Si chiamava Amedeo Leonardi e aveva 19 anni. Scriverà: "nel caricatore ho venti pallottole grosse come nocciole, coperte di rame lucente, per chiudergli il becco".

La notte tra il 28 e il 29 aprile si appostò lungo la strada per Genola e tese un agguato a una colonna di tedeschi. Colpì i primi bersagli e poi fuggì per i campi.
Per rappresaglia i tedeschi fucilarono quindici civili.

Per il citato assalto al presidio di Busca gli fu concessa la medaglia d'argento al valor militare perché "contro un nemico infinitamente superiore (...)per aver ucciso in combattimento e a distanza ravvicinata (sic) il comandante del presidio ottenendo la resa della guarnigione".
Lui sparò per uccidere il comandante sì, che si era arreso.
Una delle tante farlocche medaglie che disonorano l'autentico valore militare.
Il presidio in questione contava una ventina di militi che Bocca moltiplicherà scrivendo che "era pieno di quattrocento fascisti".
Non approfondì che in quelle giornate di fine guerra i presidi si arrendevano anche senza sparare. 

Da commissario politico fu giudice del tribunale del popolo che condannava giovani donne accusate di essere spie.
Ci sono i documenti e c'è la sua firma.

Non si creda che non vi sia dell'altro. Migliaia di documenti conservati negli istituto storici della resistenza non sono consultabili.
A settant'anni da quelle ultime giornate di guerra.


Fonte: srs di Gianfranco Stella, da Facebook   di Gianfranco Stella del 4 ottobre   2019

mercoledì 18 dicembre 2019

I 10 LADRI DELLA NOSTRA ENERGIA….



Dai Lama: ecco chi sono i 10 latri della nostra energia


La nostra energia può essere rubata, assorbita, trasformata da tutto quello che ci circonda, soprattutto dalle persone che ruotano intorno a noi e alla nostra vita.

Come sappiamo, tutti noi siamo fatti di energia. L’energia, grazie alla “Legge di Attrazione”, in seguito si trasforma in pensiero cosciente facendoci creare il mondo intorno a noi.

Capita a volte, di sentirsi giù di morale, stanchi, apatici e non più in linea con quello che desideriamo dalla vita. Questo accade perché la nostra energia si abbassa. 

Il Dalai Lama ha riconosciuto i “10 ladri della nostra energia” e ha indicato come impedire loro di continuare a derubarci. 


Eccoli:

1 – Lascia andare le persone che condividono solo lamentele, problemi, storie disastrose, paura e giudizio sugli altri. Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente.

2 – Paga i tuoi debiti in tempo. Nel contempo cerca anche di riscuotere i tuoi crediti o scegli di lasciare perdere, se chi dovrebbe pagarti non può farlo.

3 – Mantieni le tue promesse. Se non l’hai fatto, domandati perché… Hai sempre il diritto di cambiare opinione, scusarti, compensare, rinegoziare e offrire un’alternativa ad una promessa non mantenuta; ma non farlo diventare un’abitudine. Il modo più semplice per evitare di fare una cosa che non vuoi, è dire NO subito.

4 – Elimina se puoi o delega i compiti che preferisci non fare e dedica il tuo tempo a fare ciò che più ti piace.

5 – Permettiti di riposare quando ti serve e datti il permesso di agire se hai un’occasione buona.

6 – Butta, raccogli e organizza le tue cose: niente ti prende più energia di uno spazio disordinato e pieno di cose del passato che ormai non ti servono più.

7 – Dai la priorità alla tua salute: se il macchinario del tuo corpo non lavora bene, non puoi fare molto. Prenditi delle pause.

8 – Affronta le situazioni tossiche che stai vivendo, non tollerare le azioni negative, gli insulti, i soprusi di un compagno, di un familiare o di un gruppo; fai ciò che è necessario.

9 – Quando non puoi fare altro… accetta. Niente ti fa perdere più energia che litigare con una situazione che non puoi cambiare.

10 – Perdona e lascia andare le situazioni che sono causa di dolore, e lascia andare anche i ricordi dolorosi.


Fonte: da Aprilamente



martedì 17 dicembre 2019

IL PRIMO CRISTIANO DI VERONA ERA UN BIMBO DI 3 ANNI

L’epigrafe a San Procolo per Victor(i)nianus, morto a due anni e 11 mesi dopo essere stato battezzato (BATCH)


Si chiamava Victorinianus, è vissuto alla fine del IV secolo dopo Cristo ed è morto in tenerissima età (per un motivo che si è perso nella notte dei tempi), a nemmeno tre anni: è lui il più antico cristiano veronese di cui abbiamo testimonianza. Il primato, appunto quello di iscrizione paleocristiana più antica di Verona, appartiene a un’epigrafe ritrovata lungo le scale che conducono alla cripta dell’antica chiesa romanica di San Procolo, a poche decine di metri da San Zeno.

Un’iscrizione riaffiorata durante i lavori, datati anni Ottanta, di recupero funzionale dell’edificio sacro sorto sull’area di un sepolcreto romano dove, evidentemente (grazie al piccolo Victorinianus ne abbiamo ora le prove) già nel IV secolo era previsto un settore dedicato alla comunità cristiana. Già allora era stata fotografata e studiata.
 Ma la vera «scoperta», tra quelle lettere incise con poca cura da uno scalpellino su una lastra di calcare locale rozzamente rifinita, risale solo a qualche settimana fa. «Ero a San Procolo per studiare una serie di iscrizioni», racconta Alfredo Buonopane, docente di Epigrafia latina e Storia romana all’università di Verona e autore della ri-scoperta appena pubblicata sulla rivista di settore «Hormos», «quando, rileggendo la lapide in questione, mi sono accorto che di questa epigrafe doveva essere sfuggita all’attenzione degli studiosi precedenti la committenza cristiana».

Su quella lastra infatti, in origine coperchio di una tomba terragna, ritrovata in posizione orizzontale in un contesto di reimpiego, alcune righe di testo, ammassate verso l’alto e con lettere poco regolari: «Hic innofitus| Victornianus,|qui vixit anos|II, mesis XI». «Qui (giace) il neofita Victornianus, che visse due anni e undici mesi». Tra queste, ad attirare l’attenzione di Buonopane, una parola in particolare: «innofitus», grafia raramente attestata che sta per «neophytus», sostantivo documentato in molte varianti, che in questo caso presenta all’inizio una -i eufonica, l’elisione della e davanti alla o e l’omissione dell’aspirazione, con uno scambio di i per y.

«L’aspetto più interessante di questa nuova iscrizione è certamente rappresentato dal fatto che il piccolo Victorinianus venga chiamato neophytus, vocabolo con cui si indicava un individuo che da poco aveva ricevuto il battesimo. Battesimo che, a quei tempi, avveniva normalmente in età adulta, salvo che, come in questo caso, non vi fosse la necessità in battezzare il bimbo in articulo mortis. Ed è da questo particolare che possiamo considerare il bambino un cristiano. Il più antico di cui abbiamo testimonianza a Verona. Le altre iscrizioni paleocristiane, in città, risalgono tutte al V secolo avanzato o al VI secolo».

L’iscrizione di San Procolo, infatti, viene datata da Buonopane tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo d.C.: «Considerando il tipo di monumento funebre, gli aspetti onomastici, quelli linguistici, tipici dell’epigrafia tardoantica, e paleografici, come la decorazione: i due delfini che compaiono ai lati del testo sono immagine molto diffusa nella committenza cristiana dell’epoca come metafora della morte. L’ichtýs sotér, infatti, il cetaceo salvatore che accorre in soccorso degli uomini nel momento del naufragio, secondo i padri della Chiesa era metafora della morte e della salvezza: li portava in salvo, traghettandoli verso la nuova vita». 
Questa ri-scoperta a San Procolo segue quella, sempre da parte di Buonopane, di un’altra interessante iscrizione nella vicina basilica di San Zeno. Un’epigrafe funeraria tardoantica, su un frammento incastonato vicino alla porta laterale, che ricorda la sepoltura di un Massimo, originario del villaggio di Kaprozabada, in Siria. In definitiva, corsi e ricorsi storici. «Già allora, infatti, per ragioni forse legate alla pressione demografica e al conseguente bisogno di nuovi spazi, un nutrito di gruppo di persone provenienti dalla Siria si stabilì in diverse località dell’Italia settentrionale», conclude Buonopane. «Tra queste, oltre a Concordia, Aquileia e Trento, c’era anche Verona». •

Fonte: srs di Elisa Pasetto, da L’Arena di Verona del  24 dicembre 2017

giovedì 5 dicembre 2019

BEPI DEL GIASSO.




No, non è riferibile al venditore di ghiaccio che, alla mia epoca, con la carriola portava il ghiaccio per le calli per venderlo alle massaie. 
È L’epiteto, coniato dagli anarchici veneziani, per indicare niente po’po’ di meno IOSEF VISSARIONOVIC più tardi chiamato STALIN (d’acciaio) circolante in Venezia nel 1907. 
Arrivò nella nostra città per sottrarsi alla polizia zarista che lo braccava, con l’intenzione di raggiungere Lenin in Svizzera. 
Chiese ospitalità alla comunità monacale armena dell’isola dei San Lazzaro, dato che ne conosceva perfettamente l’idioma acquisito negli oratori della sua terra, il Priore dell’isola gliela concesse e lo assegnò al compito di campanaro, al cui servizio si dedicò anche se per breve tempo. 
Lasciò l’isola declinando l’offerta dei monaci per un suo più importante impegno nella comunità. 
Il soprannome gli venne attribuito per la sua provenienza dalla Russia, terra a clima freddo, dagli anarchici che per primi lo accolsero, dando prova alla veneziana, di sapere appioppare epiteti adeguati. 
Se ne ritornò in Russia e da campanaro, cioè da annunciatore di fede e di amore, passò alla sua congeniale inclinazione: quella di gran epuratore. 

Ecco chi fu BEPI DEL GIASSO.


Fonte: srs di  Geppetto Giulio Scorla Mastro, da facebook del  30 novembre 2019

domenica 1 dicembre 2019

UNA PALLOTTOLA PER IL GENERALE CANTORE





Una pallottola per il generale

Era italiano o austriaco il cecchino che il 20 luglio del 1915 sulle Tofane uccise il generale Antonio Cantore? Ed a trapassare il cranio dell'ufficiale fu un proiettile calibro 8 millimetri austriaco o un 6.5 millimetri italiano? A distanza di novant'anni l'interrogativo è ancora aperto.

Il foro lasciato dal proiettile sulla visiera del berretto non basta, da solo, a risolvere l'enigma. Perché il cuoio col passare degli anni si è ristretto ed ora, da quel foro, è impossibile stabilire con certezza il calibro ed il tipo di arma impiegata.

Solo la riesumazione dei resti della vittima, con il relativo esame del cranio, potrebbe eventualmente fornire una risposta certa sul tipo di fucile imbracciato dal cecchino.

IL PROIETTILE. Un indizio che tuttavia, per quanto importante, non risolverebbe definitivamente il caso. Supponiamo che venga accertato che ad uccidere il generale sia stato un proiettile calibro 8 partito da un fucile austriaco Mannlicher, anziché un calibro 6,5 esploso dal modello 91 italiano. Ebbene, in tal caso, ci troveremo comunque nell'impossibilità di identificare con certezza la nazionalità e l'autore di quello che qualcuno ha osato beffardamente definire come 'il più bel tiro della Prima guerra mondiale", per la precisione millimetrica con la quale andò a segno. Non sfugge una certa macabra ironia, a chi la voglia intendere, sull'obiettivo centrato, per l'appunto il generale Cantore, cioè uno delle alte gerarchie militari accusate all'epoca dai soldati di mandare allo sbaraglio le truppe con assalti alle trincee nemiche su terreno scoperto che risultavano micidiali.

Ma qualsiasi sia stata l'arma usata, dunque, è ancora un giallo sulla morte di Cantore. Si racconta che pochi istanti prima di morire il generale Antonio Cantore, comandante della Seconda divisione della Quarta armata in Cadore, si rivolse ad un soldato che lo invitava a ritirarsi in trincea dicendo: 'Non è stata ancora fusa la pallottola per me!" e ancora: 'Tiratori principianti!" riferito ai cecchini austriaci. Bell'uomo, alto, tutto d'un pezzo, coraggioso e sprezzante del pericolo, Antonio Cantore era un militare di vecchio stampo, che si era guadagnato sul campo la seconda stelletta di generale di divisione (equivalente al grado odierno di maggior generale).

FORCELLA FONTANA NEGRA. E' il pomeriggio del 20 luglio 1915 a Forcella Fontana Negra, nelle Tofane, quando il generale, rimane fermo, impassibile a due proiettili che lo sfiorano. E cade subito dopo colpito mortalmente da un terzo colpo che lo centra in piena fronte forando la visiera del berretto che portava abbassato sul capo. Nato a Sampierdarena (Genova) 55 anni prima, il 'Padre degli Alpini" si era fatto notare nella Guerra di Libia dove comandava il Reggimento Speciale Alpino formato dai Battaglioni Susa, Vestone e Tolmezzo. Poi, all'inizio della Prima guerra mondiale, viene promosso generale di divisione in seguito alle azioni brillanti sul Monte Baldo del maggio del 1915. E viene quindi assegnato sul fronte delle Tofane, in sostituzione del collega Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo tenero nel comando. Pare addirittura che interi battaglioni si fossero rifiutati di combattere.

Anche perché da 400 anni Cortina d'Ampezzo era sotto il “dominio” austriaco che peraltro aveva governato con una amministrazione corretta e rispettosa delle tradizioni (nelle scuole si insegnava l'italiano) e dunque non c'era alcun motivo di ostilità. La fama di Cantore tra la truppa, invece, nella versione non ortodossa, era quella di un militare fanatico, che li avrebbe certamente condotti alla morte. Il piano che andò ad illustrare la mattina del 20 luglio 1915, quando uscito dall'Hotel Posta raggiunse il villaggio Vervei dove alloggiavano i suoi ufficiali, prevedeva l'intera evacuazione della popolazione civile di Cortina. Dopodiché sarebbe seguito l'attacco frontale alle postazioni austriache che si trovavano a quota 1800 metri. Come dire che i soldati italiani, dalle loro trincee a 1300 metri avrebbero dovuto risalire la montagna per circa 500 metri sotto il fuoco degli austro-ungarici. Un sicuro bagno di sangue al quale gli austriaci avrebbero fatto seguire la distruzione della città, grandi alberghi compresi (Cortina all'epoca era già un centro turistico internazionale). Tanti buoni motivi, insomma, che avvalorano la tesi dell'uccisione del generale per mano italiana. Di più.

L'INVIATO DI CADORNA. Si racconta, che i soldati italiani festeggiarono per una settimana la morte dell'alto ufficiale. Antonio Cantore, insomma, inviato da Cadorna come ariete di sfondamento del fronte, non dev'esser stato molto simpatico ai suoi uomini! Benché la storiografia ufficiale e la retorica dell'epoca lo dipingano come un 'esempio costante e fulgido di indomito ardimento alle sue truppe", contrapposta alla vox populi che, come abbiamo detto, demolisce 'quell'anima eroica degli Alpini, salda come le rupi che lo videro cadere colpito in fronte, ardente come la fede per cui mori", come recita l'epigrafe sul poderoso obelisco eretto in sua memoria a Cortina d'Ampezzo. 
A distanza di 90 anni, non è nemmeno possibile determinare se sia stato un proiettile calibro 8 mm. proveniente da un Mannlicher austo-ungarico di un cecchino nemico, oppure un calibro 6,5 mm. esploso dal'91 di un italiano a forare la visiera in cuoio del kepi del generale. 
Forti dubbi permangono tutt'oggi addirittura sul luogo dell'evento, come ha detto e scritto lo storico ampezzano Paolo Giacomel in questi anni: «Perché mai il nemico avrebbe risparmiato gli altri quattro ufficiali che erano insieme a Cantore a Forcella Negra? E perché nella motivazione dell'onorificenza concessa al capitano Adolfo Argentero di Verona, datata 21 luglio del 1915 (il giorno dopo l'uccisione di Cantore), per aver recuperato la salma del suo comandante, non si nomina nemmeno il generale?». 
Anche Gianrodolfo Rotasso, esperto d'armi, ha molte perplessità al riguardo: «E' vero che il foro della visiera oggi è quello di un proiettile 6,5 millimetri. Ma se consideriamo che il cuoio con il tempo si restringe, non si può nemmeno escludere che ad attraversarlo in origine sia stato un proiettile calibro 8 mm del Mannlicher austriaco. 
L'unica cosa assolutamente certa - prosegue l'esperto balistico ed ex maresciallo degli Alpini - è, che per colpire con una simile precisione un bersaglio mobile alla distanza di poco meno di 200 metri, dall'alto verso il basso, e dunque compensando il calo del proiettile, il cecchino dev'essere stato un tiratore formidabile. Non dimentichiamo che stiamo parlando di un proiettile cilindrico di vecchia concezione, pesante e tozzo, con traiettoria poco tesa, derivato dal vecchio calibro 8 a polvere nera».

IL CECCHINO. E allora potrebbe essere verosimile la dichiarazione resa in punto di morte ed apparsa sui giornali una quarantina d'anni fa da un certo Attilio Berlanda di Levico Terme (Trento), che all'epoca combatteva dalla parte degli Austo-ungarici, e dunque dopo l'annessione del Trentino Alto Adige all'Italia, non aveva alcun motivo di rivelare d'esser stato lui ad uccidere il famoso general Cantore detto il 'Padre degli Alpini", se non in punto di morte, appunto, come fece. Sicuramente Berlanda possedeva le doti di buon tiratore. Risulta, infatti, che fu insignito dell'Aquila d'argento alle gare di tiro militari di Vienna.

«Ma vi furono perlomeno altre quattro rivendicazioni in tal senso», commenta Paolo Giacomel, per il quale non esistono ad oggi sufficienti elementi che possano chiarire se a premere il grilletto sia stata effettivamente una mano amica o nemica.

E nemmeno la riesumazione e l'esame del cranio, che potrebbe chiarire una volta per tutte il calibro dell'arma usata dal cecchino, dopo tanti anni avrebbe più molto senso, né risolverebbe il giallo.
Roberto De Nart

Fonte: srs di Roberto De Nart, da  Il corriere delle Alpi del  15 luglio 2005



UNA PALLOTTOLA PER IL GENERALE MACELLAIO: AUSTRIACA O ITALIANA?






DI MILLO BOZZOLAN · 6 NOVEMBRE 2019


Eroe per l’Italia, era invece considerato un vero macellaio dagli alpini e dai fanti, dato che la sua comparsa al fronte significava solo attacchi allo scoperto e carneficine senza senso. Parlo del Generale Cantore di cui Emilio Lussu, testimone oculare, descrisse le gesta di un personaggio simile (gen. Leone), che mi dicono era Giacinto Ferrero . Quando arrivava lui tutti si toccavano gli attributi e scrivevano le ultime righe a casa.  E si auguravano la sua morte, considerandolo un alleato degli austriaci

 E’ conservato un suo cimelio, il kepì che indossava al momento della morte per mano di un cecchino. Ma, dato l’odio della truppa, e i casi analoghi di ufficiali “zelanti” fucilati alle spalle da fuoco amico, l’articolo esamina le varie ipotesi sulla morte.
Poteva esser stato colpito anche da un tiratore di Cortina, motivato dal fatto che l’offensiva italiana avrebbe significato la distruzione certa della cittadina, già allora un centro turistico internazionale.

“Era italiano o austriaco il cecchino che il 20 luglio del 1915 sulle Tofane uccise il generale Antonio Cantore? Ed a trapassare il cranio dell’ufficiale fu un proiettile calibro 8 millimetri austriaco o un 6.5 millimetri  italiano? A distanza di novant’anni l’interrogativo è ancora aperto. Il foro lasciato dal proiettile sulla visiera del berretto non basta, da solo, a risolvere l’enigma. Perché il cuoio col passare degli anni si è ristretto ed ora, da quel foro, è impossibile stabilire con certezza il calibro ed il tipo di arma impiegata.
Solo la riesumazione dei resti della vittima, con il relativo esame del cranio, potrebbe eventualmente fornire una risposta certa sul tipo di fucile imbracciato dal cecchino…..





E’ il pomeriggio del 20 luglio 1915 a Forcella Fontana Negra, nelle Tofane, quando il generale, rimane fermo, impassibile a due proiettili che lo sfiorano. E cade subito dopo colpito mortalmente da un terzo colpo che lo centra in piena fronte forando la visiera del berretto che portava abbassato sul capo.

Nato a Sampierdarena (Genova) 55 anni prima, il ‘Padre degli Alpini” si era fatto notare nella Guerra di Libia dove comandava il Reggimento Speciale Alpino formato dai Battaglioni Susa, Vestone e Tolmezzo. Poi, all’inizio della Prima guerra mondiale, viene promosso generale di divisione in seguito alle azioni brillanti sul Monte Baldo del maggio del 1915. E viene quindi assegnato sul fronte delle Tofane, in sostituzione del collega Saverio Nasalli Rocca, accusato di essere troppo tenero nel comando. Pare addirittura che interi battaglioni si fossero rifiutati di combattere.

Anche perché da 400 anni Cortina d’Ampezzo era sotto il dominio austriaco che peraltro aveva governato con una amministrazione corretta e rispettosa delle tradizioni (nelle scuole si insegnava l’italiano) e dunque non c’era alcun motivo di ostilità.
La fama di Cantore tra la truppa, invece, nella versione non ortodossa, era quella di un militare fanatico, che li avrebbe certamente condotti alla morte. Il piano che andò ad illustrare la mattina del 20 luglio 1915, quando uscito dall’Hotel Posta raggiunse il villaggio Vervei dove alloggiavano i suoi ufficiali, prevedeva l’intera evacuazione della popolazione civile di Cortina.  Dopodiché sarebbe seguito l’attacco frontale alle postazioni austriache che si trovavano a quota 1800 metri. Come dire che i soldati italiani, dalle loro trincee a 1300 metri avrebbero dovuto risalire la montagna per circa 500 metri sotto il fuoco degli austro-ungarici. Un sicuro bagno di sangue al quale gli austriaci avrebbero fatto seguire la distruzione della città, grandi alberghi compresi (Cortina all’epoca era già un centro turistico internazionale). Tanti buoni motivi, insomma, che avvalorano la tesi dell’uccisione del generale per mano italiana.

Benché la storiografia ufficiale e la retorica dell’epoca lo dipingano come un ‘esempio costante e fulgido di indomito ardimento alle sue truppe”, contrapposta alla vox populi che, come abbiamo detto, demolisce “quell’anima eroica degli Alpini, salda come le rupi che lo videro cadere colpito in fronte, ardente come la fede per cui mori”,…come recita l’epigrafe sul poderoso obelisco eretto in sua memoria a Cortina d’Ampezzo. A distanza di 90 anni, non è nemmeno possibile determinare se sia stato un proiettile calibro 8 mm. proveniente da un Mannlicher austro-ungarico di un cecchino nemico, oppure un calibro 6,5 mm. esploso dal’91 di un italiano a forare la visiera in cuoio del kepi del generale.

articolo intero qua

Fonte: srs di Milo Bozzolan, da Veneto Storia  del 6 novembre 2019

giovedì 28 novembre 2019

1848, LA GUERRA DI LIBERAZIONE DI MILANO E VENEZIA CONTRO L’AUSTRIA, CURTATONE, MONTANARA E GOITO




Il  1848 prima guerra di indipendenza ove morirono molti napoletani...ma non è ricordato da alcuno!


Tratta da uno scritto di Giacinto dè Sivo, drammaturgo, letterato e storico del Regno delle Due Sicilie, Maddaloni (Regno delle Due Sicilie)

- Cari ragazzi,- Esordì il maestro questa mattina, eccomi a voi con il racconto mensile. So che lo stavate aspettando con trepidazione.- 
Si fermò per qualche secondo vicino alla cattedra e poi prese il solito grosso libro e lo aprì.

- Come già sapete vi leggerò una storia vera, accaduta circa dieci anni fa nel nostro Stato, ed in Italia del Nord e che è bene che voi conosciate con precisione perché un domani questi eventi potrebbero essere nascosti o camuffati. Noi non possiamo conoscere il futuro, questo no, ma con un po’ di immaginazione possiamo individuarne i possibili sviluppi, e molte volte a pensar male ci si azzecca. Sicuramente siamo parecchio odiati nel contesto europeo, la nostra forza autarchica, il nostro progresso scientifico, la nostra ricchezza ed il nostro assetto sociale ci sono molto invidiati, soprattutto dalla nazione più potente del mondo: l’Inghilterra…chissà. Comunque il 1848 fu un anno orribilis…concessione della Costituzione nel Regno delle Due Sicilie, guerra esterna, guerra interna in Napoli e poi contro Ruggero VII in Sicilia, abolizione della costituzione…un bel ’48!

- Il mio racconto, oltre che dai dati documentali è anche suffragato da una mia personale amicizia con il Dott. Giuseppe Antonio Pasquale Barletta , nostro uomo di primario ingegno che partecipò personalmente alla campagna di Curtatone, Montanara e Goito e pure ebbe qualche comparsa perfino a Venezia.

Tutto era in fermento in Italia nel 1848, fermento sostenuto dall’inglese Lord Mintho e dall’Inghilterra che odiava Napoli e la sua dinastia, la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, sempre appoggiata dall’Inghilterra, che soffiava sul fuoco della rivoluzione, le sette che volevano il cambiamento di tutto, la Città di Milano che con le sue cinque giornate aveva scacciato gli austriaci e sollevato l’ingresso del Piemonte in guerra, Giuseppe Garibaldi che rientrato in Italia se ne va a Como a ricercar volontari, Pio IX che sperando in una pacifica transizione dei poteri e nella magnanimità dell’Austria, si rende disponibile a governare la Lega Italiana, Carlo Alberto che impegna il suo esercito di oltre cinquantamila uomini in una guerra contro l’Austria ma che segretamente, spinto dall’Inghilterra, vuole il governo su tutta l’Italia, Ferdinando II che si impegna (ingenuamente) a dare sostegno militare a Carlo Alberto, il Granducato di Toscana in subbuglio e favorevole alla guerra, così come lo Stato della Chiesa, Il Ducato di Parma e Piacenza, quello di Modena e la rinata Repubblica di Venezia sotto la guida di Daniele Manin. Nacque tutto per le cinque Giornate di Milano?

In questo contesto, ed in prossimità del fatto che nel brevissimo periodo Pio IX, avrebbe fatto cadere il suo disegno di sostegno alla Lega Italiana, vi racconto cosa accadde al primo corpo di spedizione napoletano.
Mentre una certa donna lombarda, Cristina Trivulzio Belgioioso, venuta a Napoli, formò un gruppo di centoventi volontari per inviarli nello scacchiere di guerra ove il loro comportamento fu vicino al pessimo, il 1° Battaglione del 10° di Linea di 800 uomini, al comando del Colonnello Rodriguez, partiva quel 5 Aprile, prima via terra poi sul Palinuro verso Livorno e poi per la Lombardia, non avendo ancora il Papa concesso il libero passaggio delle truppe.
Il 14 aprile un secondo battaglione di volontari crociati (Rossaroll) di 558 uomini, insieme ad un secondo Battaglione (altri 800 uomini) del 10° di Linea, al comando del maggiore Viglia, partì via mare sul piroscafo a vapore Archimede.

“Re Ferdinando sottoscriveva il 7 aprile una proclamazione nunziante ai suoi popoli la partenza delle soldatesche; e dichiarante:
“Pigliar la causa italiana con quelle forze che lo Stato del Regno permetteva. Tener come fatta la lega italica, dacchè volevala il consenso unanime dè principi e dè popoli; egli primo averla proposta, egli primo mandar ministri a Roma Già iti soldati e militi per mare e per terra per operare con l'esercito dell’Italia di mezzo: le patrie sorti decidersi su campi lombardi; i Napolitani doversi stringere al loro principe, uniti esser temuti e forti. Confidare nel valore dell’esercito, nella magnanima impresa: per ispiegar vigore fuori, volersi dentro pace e concordia; però sperar nell’amor pel popolo, nella Guardia nazionale, per serbar l’ordine e tutelar le leggi; contassero sulla sua lealtà alle libere istituzioni che ha giurate e vuol mantenere. Unione, abnegazione e fermezza; e sarà certa l’italiana indipendenza. Tacciano avanti a tanto scopo le men nobili passioni; e ventiquattro milioni di italiani avranno una patria potente, comune patrimonio di gloria, e nazionalità da pesare nelle bilance d’Europa.”

Fatti d’arme.

Al 1° Battaglione di linea Napolitano, Carlo Alberto medesimo gli ordinò di prendere possesso del Ponte di Goito (in muratura), mentre egli si dirigeva a Pastrengo. 
Il nostro 2° Battaglione del 10° appena arrivato al campo toscano del Gen. Ferrari ha il suo battesimo di fuoco con gli austriaci, poi d’impeto il giorno 8, il 2° Battaglione sloggiò il nemico. Il Battaglione Napolitano del Viglia, più due battaglioni di volontari di cui uno Napolitano e due di linea toscani, rioccuparono Montanara lasciata libera per errore del Gen. Ferrari. Il giorno 13 maggio gli austriaci attaccarono a Curtatone, Il battaglione volontari napolitano, uno di livornesi, altro di granatieri toscani, due compagnie di bersaglieri, ventiquattro cavalli, e pochi artiglieri attorno a un obice e un cannoncino: poco più che duemila. I Napolitani usciti dalle trincee l’affrontarono, seguiti dal resto del campo; il che, parendo fossero più che non erano, sgominò gli Alemanni, che cadder lasciando morti e prigionieri. Ivi cadde il livornese Dott. Montanelli, arringatore di studenti per la guerra italica.

Contemporanea zuffa seguiva a Montanara. V’eran due battaglioni di linea toscani, quattro compagnie del nostro 10°, due battaglioni volontari, cinque cannoni, e pochi cavalli toscani, intorno a duemila. Il generale Laugier, udendo l’inimico. Pose due cannoni sulla strada. Fra due battaglioni di volontari trincerati, sostenuti dalla linea toscana dietro il centro. I Napolitani, da manca sulla via di Curtatone serbavan le comunicazioni con quest’altro campo, con a destra i cavalli nascosti da una casina. I Tedeschi assaltaron di fronte, lanciando tre Battaglioni a molestar la sinistra; ma il Laugier ordinò al Giovannetti e quindi ai Napolitani e a due compagnie toscane di avanzare sul destro del nemico. La cosa riuscì; e una delle compagnie nostre col capitano Cantarella prese di forza una casina. Il ministro toscano Corsini presente alla battaglia battea le mani dicendo: Viva i Napolitani!

Radetzki con oltre ventimila uomini si diresse quindi a Curtatone e Montanara con superiorità numerica di oltre quattro volte…dopo aspri combattimenti e privi di artiglieria Laugier ordinò la ritirata. Le compagnie Napolitane, trovatesi tra due fuochi, passarono a nuoto il fiume. Il napolitano Pilla, morì sostenendo con il suo battaglione pisano la generale ritirata. Il Battaglione Napolitano perduti 250, tra morti e prigionieri e 86 feriti, ridotto a duecento appena, passò la notte a Goito, e a dimane andò a Brescia.

A Montanara comandava il Giovannetti. I nostri stavan divisi così. La compagnia cacciatori a sinistra, l’ottava fucilieri al centro, e i granatieri e la quinta indietro. Dalle undici del mattino sino a tardi la sera, il combattimento contro gli austrici fu violentissimo. Quindi fu ordinata la ritirata verso Castelluccio. Le nostre compagnie che al mattino contavano 287 uomini, a sera contarono 183 mancati 104 tra morti e prigionieri. Questo misero avanzo fu messo a guardia del ponte di Goito. Al vecchio Caldarella, salvato sulle braccia dei soldati, fu assegnata da Carlo Alberto la medaglia al valor militare.

Il 10° di linea, del colonnello Rodriguez, stava fermo sul ponte di Goito. Egli ordinò ai suoi di non prendere sgomento e di essere prodi. Gli alemanni tardarono e fu la salvezza. Carlo Alberto visitò a mezzodì il ponte e lodò le difese fatte dai soldati Napolitani. Colà eranvi otto compagnie del Rodriguez e’l maggiore Viglia: tre stavano sul parapetto della testa del ponte, una presso un muro di giardino con feritoie, guardanti il fiume verso il molino, altra su due case dietro il ponte, e l’ultime tre a sinistra della linea di battaglia sarda, di costa alla riva del fiume. I Tedeschi li investirono sulle ore tre, occupando una casina propinqua: però i nostri lasciato il parapetto per sloggiarli, rischiaron di cader prgionieri, e furono salvi da un’altra compagnia mandata dal Viglia. Rinnovarono l’assalto, e da ultimo aiutati da un battaglione sardo, a forze unite li respinsero.
Gli austriaci allora si raggomitolarono sulla dritta, e urtarono sulla sinistra avversa; ma patirono gravi danni dalle artiglierie, sicchè disordinati retrocessero a Rivalta. Peschiera si arrese. 

Al Rodriguez fu data la croce di S. Maurizio e Lazzaro; ad altri ufficiali medaglie del valor militare.
Una grande vittoria che vide i Napolitani artefici in tutto e così paganti in tutto a livello di vite .

Il maestro fermò la lettura ma nella nostra classe rimase un silenzio tombale. Avevamo quasi tutti la bocca semichiusa, per non dire aperta. Un racconto bellissimo, vero e sentito.
Il maestro ci disse:
- Cari ragazzi, sulla situazione delle nostre altre truppe al comando del generale Guglielmo Pepe, e della resistenza di Venezia, ve ne parlerò in un altro racconto. Vorrei ora soffermarmi su Curtatone, Montanara e Goito.-
La classe iniziò a risvegliarsi e vociare in silenzio, ma il maestro alzò il braccio destro a mezz’aria e chiese di nuovo il silenzio.
- Questo che vi ho letto è un corto brano di storia che il nostro Giacinto dè Sivo rilasciò tempo fa ai giornali. E’ storia vera. Quale la mia preoccupazione? Che questa storia verissima non sarà riportata ai posteri, che i nostri morti napoletani non saranno ricordati nel futuro! Io sento, spero sia solo mia immaginazione, che la Storia ci sarà contro, che l’Inghilterra vincerà con una dinastia che non sarà la nostra e sarà posta la “damnatio memoriae” nei nostri confronti.

- Poi l’Inghilterra sta preparando il Canale di Suez che permetterà di “scavalcare l’Africa per i navigli provenienti dall’oceano indiano…e questo fatto non mi convince…

Quanta verità usciva dalle parole del maestro, pensai io. E’ vero, se il Rodriguez, se il Viglia, se Ferdinando II non saranno mai ricordati nel futuro…allora tutto sarà perso. Chi scriverà la storia vera? Ma sarà mai scritta di nuovo? 

La campana di fine studio suonò e lasciammo la scuola in gran silenzio. Ognuno di noi era un Rodriguez, ognuno un Viglia, ognuno un soldato di Curtatone, Montanara e Goito, ognuno un napoletano!
*
Tratto da uno scritto di Giacinto dè Sivo, drammaturgo, letterato e storico del Regno delle Due Sicilie, Maddaloni (Regno delle Due Sicilie)

Fonte: da facebook di di Domenico Iannantuoni    del 24 novembre 2019

domenica 24 novembre 2019

QUADRO STATISTICO-ECONOMICO DEI VARI STATI D'ITALIA PREUNITARI DI ADRIANO BALBI




Nel 1830 uno studioso, Adriano Balbi preparò una tabella interessante.


QUADRO STATISTICO-ECONOMICO DEI VARI STATI D'ITALIA PREUNITARIA"


REGNO LOMBARDO-VENETO
Popolazione 4.930.000; 
Esercito 5.000  (0,1%)
Rendita(in franchi) 122.000.000  (27,8 franchi a persona)

REGNO DI SARDEGNA
Popolazione 3.800.000;
Esercito 23.000; (0,6%)
Rendita 60.000.000;  (15,8 franchi a persona)

GRANDUCATO DI TOSCANA
Popolazione 1.275.000;
Esercito 4.000; (0,3)
Rendita 17.000.000;   ( 13,3 franchi a persona)

STATO PONTIFICIO
Popolazione 2.590.000;
Esercito 6.000; (1,5%)
Rendita 30.000.000; ( 11,6 franchi a persona)

REGNO DELLE DUE SICILIE
Popolazione 7,420.000; 
Esercito 30.000;  (04%)
Rendita:84.000.000.  ( 11,3  franchi a persona) 


Dopo arrivò il  risorgimento, l'indebitamento, le tasse, e l'emigrazione, per sfuggire alla fame,  alla pellagra, alla miseria nera. 



venerdì 22 novembre 2019

L'ULTIMA POESIA DI ROBERTO PULIERO IN OSPEDALE… “GRASSIE A CHI M'HA CURÀ” .

Roberto Pugliero



Il giorno 19 novembre , a 73 anni, si è spento Roberto Puliero, grande regista, attore e radiocronista storico dell'Hellas Verona.
Ricoverato a Borgo Trento, nelle ultime settimane ha scritto una poesia dedicata a dottori e infermieri che l'hanno curato.


Ricoverato a Borgo Trento, nelle ultime settimane ha scritto una poesia dedicata a dottori e infermieri che l'hanno curato.


GRASSIE A CHI M'HA CURÀ 

Quando un giorno uno el se cata
ricoverado a l’ospedal,
più che ben, se po’ anca dir
che, struca struca... te stè mal
Ma, za dopo un par de giorni,
te te senti consolà,
e da una serie de attensioni
circondado e confortà!
Gh’è un bel sciapo de infermiere
che come ti te le ciami,
le se parcipita a iutàrte
come un supìo de tsunami!
Le te alsa, le te sbalsa,
le te senta, le te sbassa,
le te palpa, le te tasta,
le te dindola e strapassa
Fin da mattina imboressàde
la Federica o la Veronica
un’iniesson de bonumor
che la par la bomba ’tomica!
E le prova ad una ad una
sigalando un fià a la bona...
... che sia pronte par la sera
le cansone del Verona,
e le sistema le bandiere!,
parchè riva fin lassù
la gioiosità festosa
dei colori gialloblù!
... po’ gh’è Andrea, che te lo senti
quando riva el so vocion
che’l par proprio vegnù fora
da un Sior Todaro brontolòn
E Francesco che po’ se casco,
so a la fin contento istesso...
sono sicuro: co un colpetto
el me tira su dal cesso!
E gh’è la Elena col boresso
sempre annesso e incorporado
con la Kety a far da spalla
a quel “duo“ un fià scombinado
Fin che intanto la Michela,
coi so oceti birichini,
la te fa solo pensar
a pastissi e tortellini...
... e po’ gh’è la Paola capobanda:
per governar quelo che gh’è,
ela ghe basta un bel sorriso,
’na parola, anca un giossetin de te...
Du anni fa, forsi impisocado
e de sonno ancora storno,
m’era fin scapà da dir
“quasi quasi qua ghe torno!“
Ben, scusè, m’ero sbalià!...
Voi tornar ma no malà...
voi tornar pa ringrassiar
chi ogni giorno m’ha curà
con affetto e co umiltà
impinando el so lavoro
de amicissia e umanità
 R.P.

mercoledì 20 novembre 2019

Sisinium: Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto colo palo, Carvoncelle!”



Un ghigno compare sul mio viso, non potete vederlo ma vi assicuro che c’è, e il motivo mi viene cagionato dalla lettura di alcune documentazioni relative agli idiomi della penisola italica.

Non essendo un cultore della storia linguistica del nostro Paese devo, ob torto collo, riferirmi ad altrui affermazioni per comprendere l’evoluzione linguistica della “mia lingua”.

È universalmente riconosciuto che l’italiano moderno poggia i suoi enormi piedi sul latino classico, quello letterario per intendersi mentre il volgo (da vulgaris) aveva un suo idioma composto da un limitato vocabolario latino infarinato con le antiche lingue parlate nell’area, questi dialetti alla fine hanno dato origine alle varie lingue romanze attualmente vive nel bacino linguistico neolatino.

Questa è in breve sintesi la definizione (spero che qualcuno storca il naso, me ne rallegro).

Una prima lista di queste parole volgari la si ritrova nell’Appendix Probi del III secolo dove al fianco della corretta parola latina compare quella che il vogo utilizzava nell’uso comune, lo scopo era quello di affermare la corretta dizione ad uso didattico della parola (pardon per il gioco di “parole”).

In ogni caso il latino classico ha continuato la sua vita anche oltre l’impero romano essendo utilizzato come lingua ufficiale per tutti gli scritti finché un malcapitato giorno del 960 una dichiarazione processuale non sancì la nascita della lingua italiana o per essere più precisi del napoletano, il documento era il Placito Capuano e qui sono sicuro di non essere l’unico a conoscerne l’esistenza.

Qualche annetto dopo, diciamo intorno al 1300, venne eretto il primo grande “monumento” linguistico del volgare della “Caput Mundi” decaduta, la Cronica dell’Anonimo Romano nel quale, udite udite, si rivela come il vulgaris parlato in Roma fosse se non identico affine al napoletano, giusto per citare qualche parola: tiempo, uocchi, vocca, iente (gente), pozzo (posso).

Certo, non è da tutti poter consultare la Cronica, allora vi invito a visitare l chiesa sotterranea di S.Clemente, in uno degli affreschi dell’XI secolo che raffigura il papa Clemente I durante una celebrazione sarete felici di leggere “Sisinium: Fili de le pute, traite, Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto colo palo, Carvoncelle!”, beh, se vogliamo è un misto tra volgare e latino e anche quest’ultimo non più rispettoso dei canoni classici della lingua.

Il capitolo 18 della Cronica contiene una biografia di Cola di Rienzo dalla quale voglio estrapolare una parte di una legge emessa: “… fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli:
Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta.
Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi’ alli XV dìe.
Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo.
Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio.
Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane elle vedove aiano aiutorio.
Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti.
Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato.
Ottavo, chelle rocche romane, li ponti, le porte elle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo.
Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze.
Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d’ariento.
Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri.
Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire.
Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini.
Decimoquarto, che·lle citate e·lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma.
Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l’accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia”

Leggendola si notano le tantissime affinità tra il romanesco del 1300 e il napoletano, cosa affatto strana se si considera il ragionamento che avevo suggerito all’inizio, eminenti studiosi ritengono che la base linguistica del napoletano possa immergersi nella contaminazione del latino con la lingua osca comunemente parlata a Capuam e Pompei e dal successivo inquinamento dovuto alle aggiunte dei vari mercanti campani che attraversavano il territorio.

Roma per la vicinanza e il continuo scambio con le regioni a sud assunse quindi col passare del tempo l’uso e la padronanza del volgare napoletano che intanto aveva iniziato a includere assonanze longobarde, arabe, normanne e parzialmente bizantine anche se odiate, la conformazione politica del territorio inoltre ne favoriva lo sviluppo.

Le aree a nord del Soglio Pontificio invece assonarono il volgare latino con influenze germaniche degenerando la lingua negli attuali dialetti che oggi si parlano al nord.

E fu proprio da queste degenerazioni che nacque l’attuale romanesco ma questo avvenne in modo prevalente solo in seguito al sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi nel 1527 che diedero al romano-napoletano il definitivo taglio che le fece allontanare i due idiomi, in precedenza l’avvento dei papi medicei portò nella Città eterna le prime contaminazioni linguistiche dell’area toscana.

Tornando alle truppe carliniste dei lanzichenecchi, operarono un tal buon lavoro all’interno dell’Urbe che la popolazione calò sino a contare poche migliaia di individui, le successive integrazioni residenziali portò all’interno della città genti provenienti sia dalla Toscana che dai monti unbro-marchigiani con la loro parlata già distinguibile dalla napoletana, la lingua volgare romana quindi si esiliò completamente dalla napoletana dando vita a quella che oggi chiamiamo romanesco.

Grazie a queste modificazioni successive Roma allontanò il suo parlato da Napoli che intanto diffuse e migliorò la lingua che diede alla letteratura validi e importanti contributi mentre l’uso popolare ne favorì la musicalità fonetica a tal punto che l’arte del cantare napoletano ha poi generato quella che oggi chiamiamo musica italiana (mi spiace per i padani, ma i loro lamenti musicali possono solo da fungere da anestetico).

Anonimo Romano, Cronica, ed. G. Porta, Milano, Adelphi, 1979

Claudio Giovanardi, Lingua e dialetto di Roma all’inizio del terzo millennio, in:”Parolechiave” Nuova serie di “Problemi del Socialismo”, n. 36, Roma dicembre 2006, pp. 143 – 162

G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la ‘Cronica’ del non più Anonimo Romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, in: “Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei – Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, s. IX, 6 (1995), pp. 195 – 211

Fonte srs di Vincenzo Tortorella  da Principatus del 21 giugno 2014

lunedì 18 novembre 2019

LA STRUTTURA ANTIGHIACCIO DELL'ARENA DI VERONA





Le gradinate dell’Arena, prima di essere delle gradinate, sono un tetto che protegge gli arcovoli sottostanti.
Quando gli antichi romani arrivarono nella Gallia Cisalpina, trovarono un situazione climatica molto diversa da quella di Roma: con clima più piovoso, inverni molto più freddi, nebbiosi e spesso con temperature sottozero. 
Nella costruzione dell’ Arena avevano intuito che lasciare le gradinate e gli arcovoli sottostanti in balia di tale clima ne avrebbe destabilizzato, nel corso dei secoli, le strutture. 





Arrivarono a risolvere tale problema con un efficace intuito ingegneristico-architettonico: esportarono a martellina circa un  centimetro di pietra dalla superficie superiore dei gradini, lasciando un leggero rialzo solo sui bordi laterali di contatto, e appoggiandoli poi con un' impercettibile inclinazione verso l’interno. 






Questo ha permesso per secoli l’impossibilità dell’acqua di entrare nelle strutture sottostanti. Tale tecnica non è mai stata più usata nei vari restauri successivi.