lunedì 26 aprile 2021

SINCITINA-1

 

 

La syncytin-1, nota anche come enverina, è una proteina presente nell'uomo e in altri primati codificata dal gene ERVW-1 (gruppo 1 endogeno del retrovirus endogeno). Syncytin-1 è una proteina di fusione cellula-cellula la cui funzione è meglio caratterizzata nello sviluppo placentare. La placenta a sua volta aiuta l'attaccamento dell'embrione all'utero e la creazione di un apporto di nutrienti. 

 

Il gene che codifica per questa proteina è un elemento retrovirale endogeno che è il residuo di un'antica infezione retrovirale integrata nella linea germinale dei primati. Nel caso della syncytin-1 (che si trova negli umani, nelle scimmie e nel Vecchio mondo ma non nelle scimmie del Nuovo Mondo), questa integrazione è probabilmente avvenuta più di 25 milioni di anni fa. Syncytin-1 è una delle due proteine note di synytytin espresse nei primati di catarrhini (l'altra è syncytin-2) e una delle molte syncytins catturate e addomesticate in più occasioni nel tempo evolutivo in diverse specie di mammiferi. Ciò è analogo all'incorporazione di alcune specie batteriche nelle cellule eucariotiche nel corso dell'evoluzione che alla fine si sono sviluppate in mitocondri. 

ERVW-1 si trova all'interno di ERVWE1, un provirus a lunghezza intera sul cromosoma 7 nel locus 7q21.2 affiancato da lunghe ripetizioni terminali (LTR) ed è preceduto dal bavaglio ERVW1 (gruppo AntiGen) e pol (POLmerase) all'interno del provirus, entrambi i quali contiene mutazioni senza senso che le rendono non codificanti. 

La sincitina-1 è anche implicata in una serie di patologie neurologiche, in particolare la sclerosi multipla, come immunogeno. 

domenica 25 aprile 2021

CHI LIBERÒ VERAMENTE L’ITALIA


  

Si può celebrare in tanti modi la Liberazione dell’Italia nel 1945 ma ci sono dati, numeri e vite che non si possono smentire e che sono la base necessaria e oggettiva per dare una giusta dimensione storica all’evento. Dunque, per la Liberazione dell’Italia morirono nel nostro Paese circa 90mila soldati americani, sepolti in 42 cimiteri su suolo italiano, da Udine a Siracusa. Secondo i dati dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, furono 6882 i partigiani morti in combattimento.

 

Ricavo questi dati da una monumentale ricerca storica, in undici volumi raccolti in cofanetto, dedicata a La liberazione alleata d’Italia 1943-45(Pensa ed.), basata sui Report of Operations di diversi reggimenti statunitensi, gli articoli del settimanale Yank dell’esercito americano e i reportage dell’Associated press. E naturalmente la ricerca storica vera e propria. Più un’ampia documentazione fotografica. L’autore è lo storico salentino Gianni Donno, già ordinario di Storia contemporanea, che ha analizzato i Reports of Operations in originale, mandatigli (a pagamento) da Golden Arrow Military Research, scannerizzati dall’originale custodito negli Archivi nel Pentagono. L’opera ha una doppia, autorevole prefazione di Piero Craveri e di Giampiero Berti e prende le mosse dallo sbarco di Salerno.

 

Secondo Donno, non certo di simpatie fasciste, il censimento dell’Anpi è “molto discutibile” ma già quei numeri ufficiali rendono le esatte proporzioni dei contributi. Facciamo la comparazione numerica: per ogni partigiano caduto in armi ci furono almeno 13 soldati americani caduti per liberare l’Italia. Senza considerare i dispersi americani che, insieme ai feriti, furono circa 200mila. E il conto risuona in modo ancora più stridente se si comparano i 120mila militari tedeschi caduti in Italia, soprattutto nelle grandi battaglie (Cassino, Anzio e Nettuno) contro gli Alleati e sepolti in gran parte in quattro cimiteri italiani.

 

Naturalmente, diverso è parlare di vittime italiane della guerra civile, fascisti e no, di cui esiste un’ampia documentazione, da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa, per citare le ricerche più scomode e famose. Ma non sto parlando di fascismo e guerra civile, bensì di Liberazione d’Italia, ovvero di chi ha effettivamente liberato l’Italia dai tedeschi o se preferite dai “nazifascisti”.


martedì 20 aprile 2021

LA STORIA DEL RISO

 


La storia del riso è lunga quanto è il mondo


 

Su questo cereale, che ha informato di sé non soltanto l’aspetto alimentare della civiltà ma anche quello religioso, filosofico e culturale, di tradizioni e di notizie ce ne sono tante, alcune contrastanti. Tra tutte, si cercherà di seguire una via alquanto lineare che si basa sulle notizie sicure o, comunque, su quelle più probabili. È sicuro, ad esempio, che il vocabolo riso è un derivato della denominazione di lingue orientali con esiti fonetici differenti. Quel che pare certo è che dalle specie primordiali di questa graminacea se ne siano differenziate una ventina. Solo due di queste hanno tuttoggi una certa rilevanza a scopo alimentare: Oryza sativa, di origine asiatica, e Oryza glaberrima, di origine africana. 

Dalla specie asiatica (Oryza sativa L) sono derivati tre tipi: 

1) Japonica, differenziatosi in Cina, adatto a zone temperate, caratterizzato da un chicco corto, da un contenuto in amilosio tendenzialmente basso e da scarsa sensibilità al fotoperiodo. Si tratta del più diffuso nelle nostre risaie. 

2) Indica, differenziatosi in India, caratterizzato da chicco lungo, sottile, cristallino, da un contenuto in amilosio tendenzialmente alto e da sensibilità al fotoperiodo. Da questo tipo derivano i long grain americani e il Basmati. 

3) Javanica o Tropical Japonica, caratterizzato da varietà con caratteristiche intermedie ai due tipi precedenti, poco conosciuto in Italia.

mercoledì 14 aprile 2021

IL SAPONE VENETO CHE LAVO’ GRAN PARTE DELL’EUROPA

 


 

Uno dei tanti primati di Venezia fu, nella sua epoca d’oro, la fabbricazione di un sapone detto “di Castiglia”, particolarmente delicato e profumato, che sostituì ben presto quello in uso più a nord in Europa, a base di grassi animali e addirittura puzzolente.

 

I fabbricanti veneziani per qualche tempo, durante il secolo XIV, tolsero alla Spagna il primato della fabbricazione del suo sapone detto “di Castiglia”, considerato il migliore di tutti.

 

Questo sapone, bianco e duro e di odore gradevole, poteva essere venduto come un genere di lusso, quasi come un medicinale, invece in paesi nordici come l’Inghilterra, il sapone di fabbricazione indigena era molle, scuro e maleodorante perché fatto di grassi animali.

 

Invece del sego i veneziani usavano l’olio d’oliva, che le loro navi portavano in grande quantità dalla Puglia; e invece della potassa usata al nord, come alcali i veneziani usavano ceneri importate dalla Siria. Non la cenere marina dei vetrai, ma la cenere di un certo arbusto che conteneva una buona percentuale di soda e produceva quindi un sapone solido che poteva essere profumato secondo i gusti dei clienti. All’epoca era considerato un bene di lusso e di grande pregio. Le nobildonne del tempo erano disposte a spendere cifre davvero importanti per acquistare una saponetta.

 

da “Storia di Venezia” di Frederic C. Lane

 

Curiosità: A Venezia il sapone anticamente non era conosciuto, lo portò una principessa bizantina, andata in sposa al figlio di uno dei primi Dogi, un Orseolo, e per il fatto che si lavava ogni giorno era vista con un certo sospetto e imbarazzo

 

 

Fonte: srs di Milo Boz, da VenetoStoria del 11 ottobre 2019

Link: https://www.venetostoria.com/?p=1076

Fonte: srs di Radolfo Targon, da Libro d’oro della Repubblica di San Marco 

Link: https://www.facebook.com/groups/1851486808466536

 


SAPONE DI CASTIGLIA, COME PRODURLO IN CASA




Il sapone di Castiglia insieme a quello di Marsiglia è tra i saponi naturali più diffusi al mondo; in vendita se ne trovano di tanti tipi, sia realizzati con le ricette base, che addizionati di altri ingredienti, come oli vegetali o oli essenziali. Può anche essere prodotto in casa, basta procurarsi gli ingredienti che lo compongono. 

 


  • 2 chili di olio di oliva
  • 600 grammi di acqua distillata
  • 250 grammi di soda caustica
  • 20 ml di olio essenziale di lavanda
  • Protezioni per maneggiare in sicurezza la soda caustica: guanti di gomma resistente, occhiali, mascherina
  • Bilancia di precisione
  • Mestolo di legno
  • Caraffa in vetro per diluire la soda caustica
  • Pentola di acciaio inox
  • Termometro da forno
  • Frullatore a immersione
  • Contenitori in plastica resistente da utilizzare come stampi
  • Maglioni vecchi di lana

 

Sapone di Castiglia, la preparazione

 

  1. Pesate la soda caustica e versatela con molta delicatezza nell’acqua dentro la caraffa: attenzione a non mettere prima la soda e poi l’acqua in quanto è pericoloso
  2. Mettete l’olio a scaldare nella pentola a fiamma dolce e aspettate che arrivi a 40-50°
  3. Versate la soda diluita, facendo molta attenzione
  4. Iniziate a frullare il composto, con il frullatore a immersione, finché non si addensa: per capire se è pronta basta alzare il frullatore e verificare che il composto lascia una scia che non si incorpora subito, ma rimane in superficie
  5. Aggiungete l’olio essenziale preferito e mescolate: volendo potete anche aggiungere spezie, alghe, erbe officinali o altri elementi naturali per donare al sapone altre qualità o caratteristiche specifiche
  6. Dopo aver mescolato bene il composto, versate negli stampi e ricoprite con della vecchia lana infine lasciare riposare un giorno.
  7. Trascorso il tempo, togliete il sapone dagli stampi per tagliarlo nelle forme desiderate: anche questa operazione va eseguita con i guanti

Il sapone è pronto per l’impiego dopo almeno un mese e mezzo.

 

 

Sapone di Castiglia, dove comprare?


Oltre il sapone di Castiglia solido, da produrre come appena descritto, il sapone di Castiglia è reperibile in forma liquida. In commercio non è difficile trovare sapone di Castiglia liquido senza detergenti aggiunti. Tra i prodotti più naturali presenti sul mercati vi segnaliamo: Sapone Biologico di Castiglia – Naturale al 100% 

 

 

Fonte:  da Idee Green 

Pubblicato da Anna De Simone il 22 Ottobre 2014

Link: https://www.ideegreen.it/sapone-castiglia-come-produrlo-in-casa-46184.html

 

 

lunedì 12 aprile 2021

DALLA LESSINIA FINO IN RUSSIA CON NAPOLEONE, COME UN BENEDETTI DIVENNE EL BERESINA.



Nella foto Giuseppe Benedetti, detto «Caporale» con le figlie Linda e Marietta 

 

Francesco Benedetti, nato a Ceredo nel 1795, desideroso di vita avventurosa, ma anche per garantirsi, in quel periodo di ristrettezze, almeno due pasti al giorno, si unì nel 1812 alle truppe napoleoniche che dal Veneto marciavano verso la Russia.

Ben presto si trovò, nel novembre dello stesso anno, a combattere la battaglia della Beresina, che fu battaglia combattuta presso il fiume Beresina, affluente di destra del Dnepr, tra la Grande Armata di Napoleone e l'esercito dell'impero russo tra il 26 e il 29 novembre 1812, durante la campagna di Russia. Lo scontro ebbe un esito discusso: anche se le forze francesi riuscirono a forzare la linea russa, evitando così di finire intrappolate fra le tre armate che convergevano su di loro, la battaglia costò loro moltissime perdite, ed in ogni caso la ritirata dalla Russia non fu arrestata.

Infatti la battaglia della Beresina è contemplata dagli storici come uno dei peggiori disastri militari della storia contemporanea, benché dall'esito parzialmente favorevole. Essa infatti è stata eretta a simbolo della disfatta della campagna di Russia intrapresa dall'Impero francese nell'estate del 1812.

Per molti soldati il fiume Beresina diventa la tomba. Francesco, allora diciassettenne, si salva per miracolo fingendosi morto nel ventre di un mulo squarciato.

Ritornato, dopo diverse peripezie nelle sua Ceredo, anche se non sollecitato, continua a raccontar della sua avventura-disavventura, mettendo nel suo dire così spesso il fiume Beresina, tanto che finisce per diventare egli stesso «el Beresina», in seguito storpiato in Bresina, e Bresini.

A raccogliere i racconti del «Beresina» da tramandare oralmente ai posteri ci ha pensato il nipote Giuseppe Benedetti, nato nel 1854, detto «Il Caporale».

Nel tempo «Bresini» saranno chiamati, ancora oggi, i Benedetti suoi discendenti, originari da un unico ceppo, cognome presente sul territorio fin dalla metà del 1500.

 

 

Fonte: da facebook,  Magica Lessinia

Link: https://www.facebook.com/Battocchio.Giorgio/posts/4517391971624085?notif_id=1618144641544409&notif_t=feedback_reaction_generic&ref=notif

 

venerdì 9 aprile 2021

LA TEORIA DELL’ORIGINE VIRALE DELLE MALATTIE

 


 

La teoria dell’origine virale delle malattie

 


Arthur M. Baker


In origine la parola “virus” significava veleno e il termine “virulento” voleva dire velenoso. Oggi intendiamo per virus una entità submicroscopica e “virulento”, in generale, significa contagioso.

 

La medicina moderna utilizza il termine “virus” per indicare una microscopica forma di vita capace di infettare le cellule e a cui viene pertanto attribuita la responsabilità di molte delle nostre malattie.

Nell’immaginario popolare, il virus è una forma di vita in grado di parassitare ogni altra forma di vita, inclusi gli animali, le piante e i saprofiti (funghi e batteri).
Nella descrizione delle infezioni virali, ai virus vengono attribuiti comportamenti quali “iniettarsi”, “incubare”, “essere in latenza”, “invadere”, avere uno “stadio attivo”, “impadronirsi”, “riattivarsi”, “mascherarsi”, “infettare”, “assediare” ed essere “devastanti” e “mortali”.

La teoria medica convenzionale sostiene che i virus nascono da cellule morte che essi stessi hanno infettato. Il virus “si inietta” nella cellula e le “ordina” di riprodurlo, fino al momento in cui la cellula esplode per lo sforzo. I virus sono a questo punto liberi di cercare altre cellule in cui ripetere il processo, infettando così l’intero organismo.

Tuttavia i virologi ammettono che i virus, pur avendo natura peculiarmente organica, non possiedono metabolismo, non possono essere replicati in laboratorio, non possiedono alcuna caratteristica degli esseri viventi e, in realtà, non sono mai stati osservati vivi!!

I “virus vivi” sono sempre morti ...


Il termine “virus vivo” indica semplicemente quei virus creati dalla coltura di tessuti viventi in vitro (cioè in laboratorio), dai quali si possono ottenere trilioni di virus

Ma proprio qui sta il punto: anche se alcune colture da laboratorio vengono tenute vive, nel corso del processo si verifica un massiccio ricambio cellulare ed è dalle cellule morenti che vengono ottenuti i “virus”. Essi sono comunque morti o inattivi, poiché non possiedono né metabolismo né vita e non sono altro che molecole di DNA e proteine.


mercoledì 7 aprile 2021

MONTORIO. LE ORIGINE DEL FIUMICELLO


Il laghetto Squarà

 

 

A Verona i corsi d' acqua costruiti dagli antichi Romani sono sicuramente due: I' Adigetto o Riofiol e il Fiumicello .  

L' Adigetto iniziava a Castelvecchio e terminava al Ponte Aleardi, era stato costruito per vari motivi:  come scarico delle acque durante le piene dell' Adige, era navigabile e per difesa della città romana nell'ansa dell'Adige creando così un' isola. Oggi il percorso dell'Adigetto è riconoscibile all'esterno, verso Porta Nuova, delle antiche mura di Piazza Bra.  

Il Fiumicello nasce dal Laghetto Squarà a Montorio e anche quello sfociava nell' Adige di fronte all'Adigetto .

Quando scrissi un' articolo sul Fiumicello nel 1995   ( A. Solinas , Il Fiumicello 1900 - 1995 , in: C'era una volta . . . in Veronetta, tra storia e cronaca n. 3;   Comitato benefico di S. Toscana, Verona 1995)...  sorsero delle contestazioni,  alcuni lettori, infatti, non erano d' accordo sull' origine del Fiumicello come acquedotto.  Molti ritenevano che il cunicolo scoperto in fondo al Vicoletto cieco Fiumicello fosse quella famosa galleria che la tradizione ci racconta cioè che dal Castello di Montorio partiva una galleria che conduceva in Arena. Perciò quest' anno cercheremo di chiarire questi argomenti .

 

Diciamo subito che senza ombra di dubbio il percorso del Fiumicello è opera dell'uomo, perché si dirige verso la città ( a ovest ) invece di seguire il corso naturale che compie il Fibbio verso sud.

Ma l' argomento più difficoltoso da contestare era quello che scriveva l'ingegnere Mario Benini, che fu per un periodo dirigente dell' Acquedotto Municipale della nostra città. 

Nell'articolo  "L'acquedotto di Verona " edito da Vita Veronese nel 1967 egli scrive : « ( . . . ) i romani preferivano le acque sorgenti alle acque correnti del Lorì  (di Avesa n. d.s .) e le sorgenti di Montorio, e quindi con poche garanzie circa la loro potabilità . . . I tecnici romani scartate le sorgive di Sommavalle e Fontana del Ferro, perché insufficienti, e quelle della Valpantena, perché già sfruttate, si orientarono per le sorgenti di Parona e di Novare . . . » .

 

 


L’area del laghetto  Squarà  in una mappa  del 1700


 

Come è noto, caduto il paganesimo, sui templi dedicati ai falsi Dei,  sorsero le Chiese Cristiane.

Se osserviamo le chiese della bassa Valpantena, esse sono sorte ai piedi delle colline e su delle sorgenti .

 

L'antichissima chiesa di Santa Maria in Stele ( non stelle ), è sorta sul notissimo Ninfeo, dove l'acqua nasce da una polla e la chiesa fu consacrata da papa Urbano III nel 1187.

 

La parrocchiale di Quinto è stata dedicata a San Giovanni Battista: alle spalle della chiesa vi è la sorgente delle Nade,  dove una volta le freschissime acque erano distribuite dalla fontana della chiesa .

 

La chiesetta di San Zeno a Vendri, secondo l'opinione degli studiosi, è nata su un antichissimo tempietto dedicato alla dea Venere ( Afrodite per i greci ),  si sa bene che Venere è nata dalle acque ed è simbolo della bellezza e della fecondità . A pochi passi dalla chiesa campestre c' è una sorgente dove si poteva bere l'acqua minerale .

 

Maria Montolli e Luigino Castellani di anni 80 ( nel 1997 ) e che abitano a fianco della chiesa, raccontano che sul tetto della chiesetta di San Zeno, capitava a volte che degli spiriti dispettosi e maligni, si annidavano tra le tegole, e alla sera uscivano per infastidire i contadini vicini. Allora i loro genitori prendevano le scale, salivano sul tetto e con dei bastoni li scacciavano.  L'ultima bastonata che subirono i diavoletti dovrebbe essere stata fatale a loro, perché i due narratori non hanno ricordo di averne mai visti .

  

Poiano, la vecchissima chiesetta porta il nome di San Pietro in Bosco ed è sorta sopra l'antichissima fontanina del paese ( questa era così famosa che negli statuti del Comune di Verona, scritti nel 1276 al tempo di Alberto e Mastino Della Scala, al capitolo CLXXVII leggiamo :« L'acqua della fonte di Poiano deve essere lasciata scorrere nel suo alveo fino al Progno . . »).  La sorgente è tuttora attiva - l'unica in Valpantena - e gli anziani del posto ne sono guardiani e, gelosissimi, affrontano le spese dei controlli sulla potabilità dell'acqua .

L' opinione della gente del luogo è che l'acqua è buonissima e possiede anche proprietà afrodisiache e si vantano dicendo che anche i frati del Barana vengono a prenderla per berla.

 

Eccoci giunti a Montorio in Val Fontese ( come è scritto negli antichissimi documenti ).  Questo ridente borgo è ricchissimo di vestigia archeologiche romane ed è famoso nel mondo per il suo tesoretto che fu rinvenuto nel 1800; oggi è al museo di Vienna ( consiglierei agli studiosi in materia di guardare bene che il ponte che si trova sotto il ponte Trivelin ha tutta l' aria di essere romano ) . Infatti lo è, come dimostrano le fotografie di Gabriele Alloro.  Un secondo ponte romano è quello a Ponte Florio, sotto la strada Antonio da Legnago dove passa il fossato Ingozzo .


 


Le arcate del ponte di età romana sotto a quello del Trivelin

 

 

Le ricche ville romane che sorgevano a Montorio erano quasi tutte presso le sue risorgive;  il Bojolo Squarà, il Tondo , la Madonnina , il Tondello e il Fontanon .   Su due di queste polle vi sono delle vetuste chiese : la Madonna della Rotonda conosciuta come la Madonnina ( che si ritiene di origine medievale ) e la Pieve

 

La pieve di Montorio è stata consacrata con il nome di Santa Maria Assunta, ma in alcuni vecchi documenti vi è aggiunto anche il nome di San Giovanni Battista.  Come mi ricorda l' amico Luigi Alloro è così antica che non si conosce la sua data di fondazione: si ritiene verso la fine del 1100. 

 I due luoghi dovevano essere considerati sacri già in età romana: in particolare la zona dove è stata fondata la pieve perché, anche al suo interno, sgorgano le polle principali e danno origine al Fibbio e al Fiumicello. 

 

Per confermare questa mia ipotesi, quando il laghetto dello Squarà dava segni di prosciugamento, subito si corse ai ripari, come apprendiamo dal vecchio manoscritto di Antonio Zambelli redatto nel 1901: « Nella notte fra il venerdì 7 ottobre 1825 ed il sabato, circa ad ore 11, i Mulini di Montorio si fermarono e a poco a poco si essiccarono le fontane dette Bojo - Tondino - Dessor de Ive  ( alte sorgive ) …

La mancanza di acqua durò totale circa 2 ore: poscia a poco a poco cominciarono a sgorgare le sorgenti, ma in modo intermittente, fenomeno che durò 15 giorni.  In tali occasioni non mancarono né preci né benedizioni alle Fonti .

Ad ore 8 di notte della vigilia di Natale, si vide mancar totalmente l' acqua in tutte le fonti come era succeduto dieci giorni prima ( la vigilia di Santa Lucia [  . d. s. ] ) . . . Anche allora si ripeterono pubbliche preci e benedizioni . »


Si sa per certo che presso le sorgenti sacre, gli antichi romani usavano fare riti propiziatori alle acque nei momenti di siccità ,  forse questa usanza si è mantenuta fino all' inizio del 1900 .

 

 

Il ponte di età romana a Ponte Florio .

 

 

Cosa dire dei nomi? Sono tutti legati all'acqua: San Giovanni Battista, San Zeno era pescatore come San Pietro in Bosco ( le ninfe vivevano anche nei boschi ) e per tre volte Santa Maria.

Il letterato S. Girolamo, nato a Sidone il 347,  interpreta il significato del nome di Maria scomponendolo il mar-yam e lo traduce in goccia del mare , perché in ebraico mar è goccia . Come abbiamo potuto constatare, dove nasce il Fiumicello era senza ombra di dubbio un luogo sacro come lo è oggi.


 

Vediamo ora la potabilità delle acque. Tra le tante leggende sul profondo abisso Spluga ( dal latino spelunca ) della Preta ( detta anticamente di Pialda, dalla vicina malga ),  uno racconta che buttando dei sassi nel suo interno, questi apparvero nelle sorgive di Montoria

 

 

 

Laghetto Squarà, la siccità del febbraio 1989 .

 

 

Tutte le leggende hanno un profondo di verità, in realtà le risorgive di Montorio hanno origine carsica.

Narrando la leggenda della Preta, gli attenti anziani non sono d' accordo che l'acqua provenga dalla Lessinia ( Sant' Anna d'Alfaedo -Boscochiesanuova ) .

Il motivo è semplice altrimenti le risorgive di Montorio avrebbero già fatto una brutta fine, come tutte le sorgenti pedemontane della Valpantena.  Come lo dimostrano la chiusura dei pozzi dell'acquedotto veronese di Quinto, Nesente, San Felice  ecc. messi fuori combattimento dai liquami che fuoriescono dagli allevamenti di maiali che affollano la Lessinia nordovest. Secondo la loro opinione l'acqua giunge a Montorio da nord-est, dal bacino del monte Carega, attraverso le valli d'Illasi e Mezzane, tutte aree dove gli allevamenti zootecnici non sono ancora a carattere intensivo .

Sebbene gli scienziati dicano che l'acqua dello Squarà è buona, i nonni non la fanno bere ai loro nipotini, non si fidano .

E raccontano:  sono i pesci che ci avvisano se l'acqua è buona da bere, non servono le analisi .

Fino a dopo la guerra si vedevano abbondanti i gambari (Astacus fluviatis ), i magnaroni ( Cotus gobio ), le bresanele ( Phoxinus laevis ) e le trote ( Trutta fario ) .

 

 

ll gambero di Montorio ( Astacus Astacus fluviatis )

 

 

I gamberi sono scomparsi all'inizio degli anni sessanta, seguirono le bresanele, i magnaroni che erano abbondanti non si vedono più dalla fine degli anni ottanta, e ridendo dicono: c' é quello del Carnevale in cartapesta, solo le trote resistono.  Ma l'allarme sicuro ci viene dato dall'aumento delle alghe nello Squarà:  secondo loro questo fenomeno è dovuto agli scarichi fognari delle industrie a nord del laghetto.

Per la verità, durante la grande siccità dei mesi gennaio-febbraio 1989,  per parecchi giorni si prosciugarono tutte le risorgive di Montorio. Il fondo dello Squarà si presentava coperto da uno strato più o meno alto di una melma nera e grassa.  Dalle poche pozzanghere che erano rimaste al suo interno, si rinvennero vivi una cinquantina di magnaroni, un gambero e un'anguilla .

 

L'uomo ha sempre distinto l'acqua buona da quella cattiva. Basti pensare che lungo le rive del Lago di Garda i villaggi palafitticoli erano sempre in prossimità di una polla d'acqua simile a quelle di Montorio. Perciò quegli abitanti delle palafitte, con tutta l'acqua che avevano a disposizione, andavano a prendersi quella delle risorgive .

 

Con la conquista della pianura Padana, dopo la sottomissione dei  Galli  Insubri nel 196 a. C. e quella dei Boi nel 191 a. C., i Romani pensarono subito a costruirvi una nuova Verona nell'ansa dell'Adige .

Seguendo la cronologia degli avvenimenti storici ed architettonici, è mia opinione che il nome della città di Verona, sia stato dato dai Romani, e come  "colonia" romana sia stata " fondata " prima di quelle Romane di Placentia ( Piacenza ) e Cremona nel 218 a. C., con lo scopo principale di controllare la via fluviale sul  Po.  

Per Verona non si conosce la data della fondazione Romana, forse perché essendo sulla via fluviale dell' Adige e in territorio dove da sempre vivevano popolazioni alleate dei Romani, non avevano necessità di creare una nuova colonia .

 

Un' altra osservazione è che il nome della città, Verona, non è mai cambiato nei secoli, ed è l’unica città della Pianura Padana con il nome immutato .

Infatti, per esempio, la capitale dei Galli ( i Celti chiamati Galli dai Romani)  Insubri, Mediólanon

( Milano ),  quando venne conquistata dai Romani nel 220 la chiamarono latinamente Mediolanium;  I'Etrusca Felsina nel 189  a. C.  divenne colonia Romana e prese il nome di Bononia ( Bologna ) .

Vedendo le vicende storiche, i Romani sconfissero Pirro nel 275 a. C.  e tre anni dopo si interessarono di come colonizzare la Pianura Padana, nel 268 fondarono Ariminum ( Rimini ),  in territorio dei Galli Senoni. Nel 238 i Galli attaccano Rimini e i Romani stringono patti con i Veneti -che vivevano anche sul Castello di S. Pietro e di Montorio -, per frenare i  Galli nella zona tra Adige e Po. 

 

Galli nella zona tra Adige e Po.  In questo momento da parte dei Romani dovrebbe iniziare il ruolo principale di Verona  la più importante città sull' Adige. Sicuramente la presenza militare e commerciale di Roma in Verona è già cospicua: perché nel 225 a. C .,  Veneti e Galli Cenomani -abitanti anche i nostri Castelli - prendono accordi con Roma per combattere i Galli Boi, Gesati e Insburi che marciavano verso Roma per distruggerla, per questa alleanza i Galli furono costretti a lasciare parte delle loro forze a guardia dei loro confini. Ed è logico che le primitive mura megalitiche del Castelliere ( " città " fortificate con possenti mura a secco costruite sulle colline e montagne ), sul colle di San Pietro a controllo della via fluviale dell' Adige vengano rifatte dai Romani in opus quadratum, cioè il sistema di costruire con blocchi tagliati in forma di parallelepipedi e disposti in filari orizzontali senza leganti di malta o grappe di metallo, in sostanza a secco, imparato dai maestri greci. Difatti sotto via Redentore n° 9,  vi è un muro in pietra giallizza del colle di San Pietro con queste caratteristiche, mentre le mura di Cremona e Piacenza innalzate con mattoni sesquipedali, inventati dopo, e sono state datate al  190 a. C.


Come loro abitudine, tra le prime opere architettoniche da costruire per una città erano gli acquedotti . I nuovi ingegneri idraulici, essendo molto pratici, scelsero le risorgive di Montorio per l'acquedotto di Verona romana.  Le acque erano buone e abbondanti ( oggi escono 5.000 litri di acqua al secondo, una quantità cinque volte superiore a quella fornita dall'acquedotto veronese ).

Il percorso che doveva fare l'acquedotto era il più semplice e il meno costoso, dato che il materiale principale per la sua costruzione era reperibile sul posto adoperando la pietra tolta dalla cava Preara sotto il Forte Austriaco e i ciottoli dell'Adige abbondanti all'imboccatura della Valpantena. Dunque questo fu il primo acquedotto per Verona Romana pensato dagli ingegneri di quel periodo. 




Verona  Stabilimenti Mondadori. localizzazione sul catasto austriaco del rinvenimento a Ca’ Banchette ricordato nella lettera del Danieli 

 

 

Dell'acquedotto romano di Montorio se ne erano perse le tracce, però restavano le leggende. Solo nel 1668 lo storico archeologo veronese Lodovico Moscardo scrisse nella sua Storia di Verona: « Fra il Contro Teatro ( oggi piazza Bra Molinari - n. d. s. ) e il Circo romano, la Naumachia e li ponti v'era un lago formato da duo fiumicelli, che d’altro cadevano nel medesimo, l'uno si conduceva da Montorio per un volto sotterraneo da me osservato con l’occasion, che si cavavano li fondamenti della facciata della chiesa di S. Maria Reggio ( l'attuale ristorante-pizzeria Redentore - n. d. s.), dentro del quale v'era un grosso cannone di piombo che terminava nell'Adige ( . . . ) , l'altro si conduceva da Parona per un altro condotto ( . . . ) .

Ma perché questi fiumicelli, o per dire meglio fontane, non portano acqua, per formar lago sufficente a rappresentarvi giochi e guerre navali . . . »

 

Da come scrive il Moscardo, egli pensava a tutto fuorchè si trattasse di un acquedotto per le necessità dei romani. Infatti al suo tempo vi era solo l'acquedotto costruito da Cansignorio nel 1368, che portava l'acqua del Lorì,  da Avesa a Piazza delle Erbe,  ed era sufficiente alla città del 1600 - 1700 che, come si sa bene, in quel tempo non si usava lavarsi frequentemente.


 

Tratto dell' acquedotto romano all' interno dello stabilimento grafico Arnoldo Mondadori

 

 

Ancora nel 1902 si parlava solo di una galleria e non di un acquedotto. Scriveva il ragioniere Danieli, impiegato al Municipio di Montorio, in data 17 gennaio : « . . . del tunnel o sotterraneo che trovasi lungo la strada che dal ponte Florio mette alla Catana (attualmente la casa quasi di fronte alle nuove carceri [ n. d. s. ] ). Detto sotterraneo trovasi a sinistra della strada in parola e fa corpo colla medesima.  E a volto e lavorato in tura molto bene. Ha l 'altezza di m. 1,70 circa. Molte sono le versioni sullo scopo di quel manufatto. Pare che avrebbe messo in comunicazione il Castello con Verona . Vi sono dei tratti lunghi e in qualche punto è demolita la facciata esterna per cui vi si accede comodamente .

Nella casa denominata Banchette, che dalla costruzione deve essere antica, trovasi nella cantina lo stesso sotterraneo che vi si entra e prosegue ".

 

Purtroppo la casa Banchette è stata restaurata negli anni '60  dallo Sporting Club Mondadori e si è persa ogni traccia del tunnel.




Particolare della mappa del 1662, dove è in evidenzia l’acquedotto romano affiancato al Fiumicello, all’inizio delle casermette in via San Michele

 

 

Ma, nel settembre dell' anno 2000, mentre si costruiva un nuovo fabbricato nello stabilimento grafico Arnoldo Mondadori, venne alla luce quel tratto di " galleria " che il ragioniere Danieli descrisse. Era uno splendido tratto dell’acquedotto perfettamente conservato, al suo interno dicono che non vi era traccia di deposito terroso. Ciò come era possibile se  Danieli dice che la “galleria”  al suo interno era alta m. 1,70, quando in realtà è alta 2,50?  Purtroppo non ho potuto verificare questo importantissimo particolare, perché le autorità competenti vietarono agli estranei di avvicinarsi e fotografare il manufatto romano . Oggi è nuovamente interrato.

 

 

L'acquedotto che attraversa  via Tiberghien  7, passando poi nel cortile del  bar Da Romano, attualmente questo tratto dell'acquedotto viene usato dal comune di Verona come collettore di fogna 

 

 

Finalmente si ha la prova archeologica che il tunnel era un acquedotto romano: in data 27 marzo 1905  l'Ufficio Comunale di Verona scrive:  " . . . nell' eseguire lo scavo di fondazione del Fiumicello di Montorio per le spalle del ponte sulla nuova strada, che si costruirà per allacciare il viale Spolverini con la strada provinciale Vicentina, sulla proprietà Brunelli ed a m. 0,60 sopra il letto del Fiumicello, si scoprì un volto dell' antico acquedotto romano tra Montorio e Verona.

Si fece il saggio tagliando il volto e si riscontrò che piedritti e volto erano formati da ciottoli e malta colata come i lavori romani, intonacato tutto intorno internamente.



Muro con la targa e l'asta idrografica con incisi i livelli dell'acqua dello  Squara'

 

 

Se il Fiumicello aveva avuto origine dal percorso dell’acquedotto Romano, logicamente l’inizio di questo doveva trovarsi dove nasce il Fiumicello.

Infatti il laghetto Squarà è il punto più importante delle risorgive di Montorio. Qui l’acqua fuoriesce da tutte le parti: dal fondale, dal muro che delimita la sua circonferenza e usciva perfino dal pavimento della pieve. 

 

Costeggiando il laghetto dopo il campanile, dirigendosi verso gli orti,  vi è un muro sul quale vi è infissa una targa in pietra con incisa la scritta:

 

<< I, LIVELLO ● M ● 3 ● 000, ● FONDO ● M ● 420, PRINCIPIO DELLE MISURAZIONI, DI LUNGHEZZA ● DEL ●, FIUMICELLO RELATIVE, AGLI STANTI DI PIETRA >>.

 

Sotto la targa, al livello della sponda del laghetto Squarà, parte una sbarra in pietra (stanti) con le tacche che servono ad indicare il livello delle acque. Perciò il Fiumicello nasce da quel punto dove è infissa la prima targa; oggi l’ultima rintracciabile è in vicolo Terra e porta il numero LV.

 

 

Il  tetto del Bojo

 

 

Dietro il muro, il primo orto è confinante con lo Squarà. Notiamo nell’orto una serie di canalette che raccolgono l’acqua delle piccole polle che scaturiscono al suo interno. Sempre nell’orto, a filo di terra, si presenta un rettangolo di circa m. 2,90x4 costruito con lastre di pietra di Prun. Questo è il tetto di una piccola costruzione chiamata sul posto il Bojo. Al suo interno sgorga la polla più copiosa della zona ed è l’unica di tutte quelle di Montorio che sia coperta e protetta.

 

L’edificio del Bojo appare ben conservato, come una struttura massiccia posta all’inizio di un canale. Quest’ultimo è costruito con grossi massi in pietra bianca della Valpantena, squadrati e appoggiati a secco uno sopra l’altro: dalle sue fessure filtra abbondantemente l’acqua. 


 


Mappa del 1806 dove e' evidente: il laghetto squara', il muro che lo divide dal Bojo e la corte con il Tondo Maggia

 

 

All’esterno la costruzione del Bojo si mostra con un ingresso largo circa m. 1,70 e alto m. 1,80, le pareti misurano in altezza circa m. 1 dalle quali si innalza un arco a tutto sesto in mattoni. L’ingresso è chiuso da un cancelletto in ferro. Nel Bojo ci si può entrare solo nei rarissimi periodi di assoluta magra.

 

 

L’interno del  Bojo .


 

Potendo entrare vediamo che la sua stanzetta misura circa m. 1,70x 2,80, le pareti sono alte all'incirca m. 1  e sono costruite con enormi massi ben lavorati in pietra bianca della Valpantena; la volta è a botte ed è intonacata; la sua altezza misura m. 1,80 quindi dal livello della sponda dello Squarà il piano del Bojo si trova sotto di m. 1, 90 . Mentre il fondo del laghetto Squarà è a m. 4,20 

 

Curiosissimo è il pavimento tutto in lastre di pietra incastrate tra di loro, senza uso di malte: dal fondo e per tutta la larghezza della stanzetta parte una ghiera composta da quattro elementi in pietra larghi circa 45 cm. e alti circa 10 cm .  Questo anello poggia sopra una piattaforma costruita con un solo blocco di pietra dello spessore di circa 20 cm.   Al centro vi è un foro rotondo largo all'inizio di circa 40 cm., poi si restringe a 30 cm.   sotto al foro che protegge il buco nella pietra .

Da questo foro esce abbondantissima e tumultuosamente l'acqua, si capisce subito perché la  costruzione viene chiamata Bojo, in effetti sembra proprio che in quell' ambiente l' acqua bolla.

 

Finora non sappiamo con precisione quando fu costruito il Bojo e per quale scopo. La prima notizia dell'esistenza del Bojo, sono riuscito a saperla leggendo un interessantissimo studio del prof. Marco Pasa,  presentato all' Accademia di Agricoltura e Scienze e Lettere di Verona nel 1990: Miglioramenti Fondiari nella campagna minore di Verona ( secoli XVI .XVII ):   

 

« Nel sopralluogo alle acque del Fiumicello in data 27 gennaio 1550  fatto dal podestà, era stato infatti osservato che il marchese Pier Paolo Malaspina, avendo avuto il permesso di iniziare lo scavo di un fossato o fossa tra gli argini dello Squaranto ed il muro del giardino dei Battaglia a Montorio nei pressi della chiesa del luogo, più precisamente aveva utilizzato un piccolo terreno tra la chiesa stessa e il muro del giardino  " . . . faciendo unam foneam magnam senuam ( una fogna o piuttosto una grande fossa ) et seu vulgo dicitur ( che il volgo chiama )  un Gorgo de Aqua . . . " largo tra i 30 e i 40 centimetri e dalla lunghezza di circa 60 metri "potius rotundam quam quadratam  ( piuttosto circolare che quadrata ) plenam aquis scaturienti bus et fuentibus ex venis subterraneis ( piena di acqua che scaturisce da una vena sotterranea )  in dictum locum quae fossa sive gorgo ( in detto luogo fossa o piuttosto gorgo )  vocatur ut ibidem a multis dicitur El Squarà ( chiamato dalla gente del posto El Squarà ) et habet a parte versus Veronam unum murum satis magnum altitudinisn muro ( e ha nella direzione verso Verona un muro abbastanza grande ) ab aqua  ipsius Squaranti supra circa quattuor pedes ( per contenere l’acqua dello stesso Squaranto al di sopra di circa un metro e 36 cm. ) factum lapidibus quadratis et honorifice compactis ( fatto di pietra dalla forma quadrata e onorevolmente compatta ) " .

 

Questo antico muro si estende sino al giardino dei Battaglia, lo Squaranto e la chiesa formano un invaso dal quale le acque non possono uscire se non per . . . unum alveum manufactunt versus Veronam qui vocatur El Fumaesello ( un canale in direzione Verona qui chiamato El Fiumicello )» .

 

Quindi si può dire che l'origine del laghetto Squarà venne fatto abusivamente dal marchese Malaspina( pagò una multa di 100 ducati ) nel 1549 per avere la possibilità di usare più acqua per irrigare i suoi campi, sottraendola in parte al vicinissimo Bojo .

 

Questo può essere confermato in quanto :  " . . . in fundo cuius loci Squaranti potius prope ripam versus murum viridiarij ( nel fondo di quel luogo chiamato Squaranti confinante con la riva dalla parte del muro del giardino ) prcedicti extat una clavica seu aqueductus lapidibus satis magnae ( prima esisteva l'inizio di una chiavica o acquedotto con pietre abbastanza grandi ) .

 

Da questo brano veniamo a conoscere che nella memoria della gente era ancora vivo, nel 1550, il ricordo che, in quel punto vicino al muro, iniziava un acquedotto.  Infatti il podestà, entrando attraverso una porta costruita nel muro che dava nel giardino dei Battaglia, poté osservare :" Questo muro alto 2 m. e lungo 6, circonda approssimativamente uno Bojon de acqua assai profondo ….et in quo scaturit vas aquae in bona quantitate . .. " .

 

Sempre all' interno del recinto del giardino il podestà racconta:  " . . . alium  locum muro circumdatum  quadratum aquis   plenum  ( un altro luogo recintato da un muro di forma quadrata, pieno di acqua)   dal quale esce  “uno bogion assai grande   vocato  (chiamato)  la  Fontanella   “ 

 

 

L’acquedotto romano   presso l’Hotel Brandoli nel 1998 


 

A conferma che il Bojo era l'inizio di un acquedotto, basta proseguire la lettura del diario in data  7 ottobre 1825 :  “. . . a poco a poco si essiccarono fontane del Bojo . . . Si osservarono nello Squarà due bocche ingoianti l' acqua con grande celerità , . . . le due bocche una all' angolo dello Squarà dietro una fila di pietre,… l' altra era vicina al Bojo.  Venturi Giovanni mugnaio, testè defunto, spinto dalla curiosità, entrò nel canale del Bojo insieme ad un compagno.  Il piccolo tunnel era largo circa mezzo metro con volta al di sopra, e si prolungava alquanto. Intanto i due visitatori per un improvviso e potente sgorgar d'acqua fuggirono dalla bocca che mette nello Squarà per la quale erano entrati e che è larga circa mezzo metro in  quadrato “. 

 

Dunque la costruzione del Bojo era in contatto con il tunnel ma il Bojo da quel lato fu chiuso per permettere all' acqua di fuoriuscire nello Squarà attraverso il foro quadrato da cui erano entrati i nostri due  "esploratori "   E dal lato sud del Bojo fu aperta la porta, tuttora esistente, per dare la possibilità all' acqua di fare funzionare il mulino della famiglia Cozza; perciò senz'altro il Bojo fu in parte rifatto.




L'acquedotto in via Antonio da Legnago, la volta è stata  distrutta alcuni anni prima  per opere di  sottoservizi 



Se, come abbiamo scritto, il tunnel era l'acquedotto romano ( e iniziava dal Bojo ) quest'ultimo era il caput aquae .  Per capire questo dobbiamo ricorrere ancora a Vitruvio .

Nel suo libro VIII, al capitolo VII;   " I modi di trasportare l' acqua " , dice: " si costruisce in primo luogo un castello ( un edificio idraulico simile a un serbatoio ) sulla sorgente per imbrigliare l'cqua dal quale parte un condotto coperto a volta perché il sole non guasti la qualità delle acque. Il manufatto deve essere costruito assai solido . . . Se poi tra la città e la sorgente dell'acqua ci fossero dei monti, allora si forino, e se vi sarà tufo o sasso si taglierà il condotto in esso medesimo livellandone secondo la caduta dell'acqua, ma se il suolo sarà terroso o sabbioso si costruiscano dentro la fossa le pareti con la loro volta. Una volta costruito il muro del condotto, all'esterno si intonachi con calcina mescolata con arena, al suo interno si stenda il primo strato di calcina impastata con cocci infranti, poi si imbianchi con fior di calcina sciolta nell’acqua in modo che possa attecchire lo strato di malta che forma il rivestimento più grossolano della muratura composta da calcina impastata con mattoni cotti e pestati, poi si applichi l ultimo intonaco con pura calcina ( . . .  )  Giunto il condotto alle mura della città si costruisca un castello, nel quale vanno sistemate tre cannelle in piombo per condurvi le acque in tutti i luoghi . . . " .


 


La strada romana sopra  l’acquedotto 

 

 

Ricordiamoci, che l'acquedotto è un manufatto di prestigio in Roma antica ed è simbolo di grandezza e di efficienza.  Alcuni di questi acquedotti non si sono mai fermati, come quello della Vergine che alimenta ancora oggi la Fontana di Trevi e la Fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona a Roma .


Inoltre i romani sceglievano la qualità dell'acqua da bere perciò quella di Montorio aveva un difetto; essendo una polla, trasporta con sé delle sabbie e queste dovevano essere eliminate.

Se noi osserviamo le polle del vicino Tondo Maggia, vediamo che la sabbia viene spinta su dalla forza dell' acqua ai suoi margini, mentre la parte centrale dell' acqua risulta pulitissima. Questo fenomeno naturale, venne sfruttato dagli ingegneri idraulici Romani per eliminare la sabbia dall’acqua; ciò venne fatto nel modo più semplice: bastava raccogliere solo la parte centrale della polla.  Per fare questo bisognava costruire un pavimento di una sola lastra di pietra con un foro al centro, in modo che una volta appoggiato sulla polla, si raccoglieva solo la parte centrale di essa. Così fatto, si otteneva l'acqua pulita usando solo le forze della natura.  Mentre l'acqua con la sabbia veniva contenuta sotto il pavimento ed espulsa ai suoi lati.  Ecco il perché di tante piccole polle attorno al Bojo.  Questa dunque la funzione della costruzione del Bojo.

 

Certo è che i romani costruivano veramente bene se dopo duemila anni il Bojo è ancora funzionante .  E un'opera idraulica simile non poteva essere che romana, perché solo nel 1368 lo scaligero Casignorio costruì  I'acquedotto per Verona usando l'acqua del Lorì di Avesa .


 


Il percorso del Fiumicello- seguito dall’acquedotto romano fino a S.  Nazzaro  in una mappa del  1550

 

 

In quel tempo, così lontano da noi, i romani avevano studiato alla perfezione anche le  pendenze che doveva possedere l'acquedotto. 

Partiva dal Bojo che è situato a quota  m. 64 s. l. m. ( tutte le  quote sono calcolate approssimativamente ).  

Appena fuori Montorio, dove la strada Antonio da Legnago  si restringe, l’acquedotto si trova. a q.   60;  prosegue sotto la stessa via ( nel 1991,   durante la posa di tubazioni, notai per circa 60 m . i resti dell'acquedotto ); a ovest dell'Hotel Brandoli  lo ritroviamo a q.   59 ; sotto casa Banchette ( oggi Sporting Club Mondadori),  si trova  q. 58;  in via  Tiberghien raggiungeva  q.56;  entrava a Nord di Piazza Santa Toscana  e in vicoletto cieco  Fiumicello   toccava q.48;    per abbassarsi poi velocemente a q. 44  all' esterno della cinta romana ( si può immaginare nei pressi di S. Maria in Organo ) dove esisteva il castello delle acque da cui partiva la tubazione che vide e descrisse il patrizio veronese Lodovico Moscardo .

 

Questo percorso dell'acquedotto Romano lo illustrai spesso con diapositive o passeggiate sia a bambini che ad adulti, e si dimostrò veritiero. 

 

Nel 1993 avviso la Soprintendenza dell'avvenuta distruzione di una  " villa rustica romana " durante i lavori per la superstrada a Ponte Florio, e pochi giorni dopo a ovest dell' Hotel Brandoli appare l' acquedotto .    

Nel 1999,  risistemando la strada a Ponte Florio riappare l' acquedotto visto nel 1991  . 

Nel 2000, l'amico  Giorgio Battocchio lo segnala sotto la breccia nelle mura veneziane a est della chiesa di Santa Toscana.  




L'acquedotto in prossimità delle mura di Porta Vescovo



Quest' anno nel rifare la strada si mette in luce tutto il tratto dell'acquedotto e si viene a sapere che i Romani costruirono una strada sul volto del condotto, come avviene oggi. Se chi di dovere avesse letto quello che scrissi nel 1997, si sarebbe risparmiato danaro, tempo e disagi per i cittadini .

 

 

La maestria con cui i romani costruivano gli acquedotti la si può toccare con mano proprio in quel capolavoro che esiste in fondo al vicoletto cieco Fiumicello, abbandonato dall' incuria umana, ma non dai gatti che gli fanno buona guardia perché non diventi il regno delle pantegane ( il ratto delle chiaviche, stando in argomento ) .

 

Per la lunghezza di circa 30 m. l'acquedotto romano si snoda quasi parallelo a via S. Nazaro ed è costruito nel margine interno del Monte Castiglione, tanto che in parte è scavato in trincea o addirittura all' interno della stessa collina, quando non si poteva sviluppare comodamente all'esterno del monte, come si costruirà in epoca Scaligera .

Per fare il condotto dell'acquedotto, le maestranze romane in alcuni punti scavarono una trincea direttamente nella pietra tenera chiamata da – gli anziani scalpellini veronesi piera gialeta del Monte   Castiglione,  larga circa 6 piedi romani ( un piede romano equivale a circa m.  0,296 ) cioè m.  1,77 circa .

 



ll Fiumicello in Vicolo Terrà in una fotografia di Mario Carniel nel dopoguerra .

 

 

All' interno dello scasso costruirono il condotto: i piedritti sono costituti da seregni ( grossi ciotoli dell' Adige ) legati con malta per uno spessore di circa 45 cm.  per un' altezza media di m. 2,15 . 

Da  questi si stacca la volta a tutto sesto con raggio di 35 cm.   dello stesso spessore dei muri portanti.

É particolarmente interessante osservare come venne costruita la volta dell' acquedotto: si notano ancora nella malta le impronte delle tavole usate per la sua armatura, i seregni usati sono stati scelti con cura, quasi tutti in porfido o granito, della stessa grandezza di 30 o 35 cm.,  piuttosto piatti ( i più tondi vennero spaccati a metà dal lato lungo per adattarli alla costruzione dell' arco . Infine la parte esterna della volta, venne tesa tutta uniforme da uno strato di malta.

 

 

L' acquedotto romano in Vicolo Fiumicello nel  1994 

 

 

L ' interno del condotto si presenta proprio come insegna Vitruvio: la larghezza utile per lo scorrimento dell'acqua varia da 70 a 75 cm.,  sulle pareti venne steso uno strato di intonaco composto da sabbia grossolana mista a frammenti di mattoni triturati, poi lisciato con calcina pura;  misura mediamente 5 cm.  di spessore per un'altezza di  1,60 dove il condotto corre all’interno del monte.  Nel tratto che l'acquedotto percorre all'esterno del colle, l'intonaco è stato innalzato fino a toccare la volta.  Sul fondo del condotto venne steso uno spesso strato di intonaco composto da abbondanti mattoni triturati, questo venne innalzato anche sulle pareti,  creando uno scalino dallo spessore di circa 10 cm. per un'altezza di circa 7 cm.,  poi terminava scemando a un' altezza di 14 cm. circa sulla parete  intonacata .

 




La sezione dell'acquedotto

 

Oggi l’acquedotto in vicolo cieco Fiumicello, nel tratto scavato sotto il colle appare interrato fino all' altezza dell'intonaco: sarebbe cosa buona cosa  togliere la terra e seguirlo fino dove è possibile,  molto probabilmente si giungerebbe fino sotto allo Scalone XVI Ottobre.  Già senza fare questo scavo, il nostro acquedotto è finora il più bello e interessante di tutto il Veneto e forse dell’ Italia del nord.

 

Spero che tra breve si ricominci a sistemare l'area dell' acquedotto nel nostro quartiere e sia possibile visitarlo, in modo che i nostri lettori che mettevano in dubbio la funzione del tunnel si possano rendere conto che quest' ultimo era proprio l' acquedotto di Verona Romana.

 

Così scrissi nel 1997. Ma nel 1998 venne occultato da una soletta di cemento. 

 

 


L' acquedotto romano  in Vicolo Fiumicello nel 1998 .

 

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L' autore ringrazia il Sig . Ensino per avergli concesso le fotografie del Bojo, e il Sig. Candido che gli permise di visitare il Bojo nel suo orto .

 

Autore della ricerca ALBERTO SOLINAS

Fotografie di PIERENZO SAETTI E ALBERTO SOLINAS

Per le successive foto storiche dell' archivio di Luigi Alloro

si ringraziano :

 

LUIGI ALLORO

BRUNO ZAMBONI

REMO ARTIOLI 

BIBLIOTECA CIVICA DI VERONA

 

 

Fonte: da srs  di Alberto Solinas 

Articolo di Alberto Solinas, ripreso da I Ponti di Veronetta, tra cronaca e storia n° 5 Comitato benefico di S. Toscana,  Verona 1997 . E aggiornato all' agosto 2003 nel “Le origini del Fiunicello, Montorio Veronese  2003”