martedì 30 giugno 2015

STORIA VENETA – 53: 1368 - CONTARINI RIFIUTA IL DOGATO. FATICOSA L'ELEZIONE DEL NUOVO E RESTIO DOGE



Dal testo di Francesco Zanotto


"Fin da quando moriva il dì 12 luglio 1364 il doge Giovanni Dolfino, rapporta la cronaca Savina, che sendo nominato a surrogarlo Andrea Contarini, rifiutò; narrando aversi egli stesso opposto alla sua elezione, a motivo che trovandosi egli ancor giovanetto in levante, un moro maomettano gli predisse il suo avvenimento al trono, e che sotto il suo reggimento avrebbe corso pericolo di perdere la città e l'intero stato: per la qual cosa non volle accettar la ducea, per non incorrere nella profetata disgrazia ... "


ANNO 1368


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


C'è chi vuole il potere assoluto e chi nicchia e proprio non ne vuole sapere. Anche perchè il compito di doge non era dei più facili e il fardello era pesante assai.  Contarini fu uomo molto restìo alle lusinghe del potere, ma dovette rassegnarsi alle minacce dei rappresentanti dello Stato che non potevano accettare defezioni ...


LA SCHEDA STORICA  - 53


Alla morte del doge Lorenzo Celsi sotto il cui dogato era scoppiata la rivolta dei coloni veneziani di Candia successivamente domata, salì al trono Marco Corner. La sua elezione non fu priva di contrasti e di obiezioni, prima fra tutte l'avanzata età - aveva più di 80 anni - e la sua condizione economica, risultando il Corner estremamente povero.
L'aspirante doge tuttavia seppe difendere le sue ragioni e la sua candidatura davanti al Maggior Consiglio con una tale passione e al tempo stesso con tanta saggezza da spuntarla e venir eletto quale nuovo doge. Il tempo si dimostrò tuttavia meno clemente col vecchio doge, che scese infatti nella tomba da lì a pochi anni il 13 gennaio del 1368 lasciando ancora una volta Venezia senza doge.
Se il governo del Corner, seppur breve, si caratterizzò come un periodo di pace e prosperità, non così il governo del suo successore Andrea Contarini, con il quale infatti la repubblica veneziana si ritrovò nuovamente in guerra coi genovesi e non solo.
Contarini, al contrario era un uomo di indole estremamente pacifica, assolutamente privo di ambizioni personali pur essendo l'esponente di una ricca ed illustre famiglia che darà a Venezia ben otto dogi. Del resto, le circostanze e le modalità che accompagnarono la sua ascesa al trono ducale sembrano confermare una natura del tutto scevra da aspirazioni di potere.
Il Contarini infatti, rifiutò per ben due volte l'alta carica. La prima volta sembra sia stata ancora nel 1261, dopo la morte di Giovanni Dolfin. Le ragioni di questo primo rifiuto restano del tutto sconosciute, ma si narra che egli addusse una strana profezia fattagli da un moro quando, ancor giovinetto, si trovava in Levante. Questi gli predisse la sua possibile ascesa al trono ducale aggiungendo però che sotto il suo governo avrebbe rischiato di perdere la città e l'intero Stato. Per non incorrere nella funesta profezia, dunque, Andrea Contarini avrebbe rifiutato di salire sul trono ducale.
Ma le leggende, circa la riluttanza da parte del Contarini di assumere l'alta carica, non si fermano certo qui. In un'altra occasione, si narra infatti, gli venne predetta la sua elezione a doge. Innamoratosi di una monaca che, dicono le fonti, pare lo ricambiasse, Contarini nel momento in cui stava per farla sua, si accorse di un anello nuziale che la monaca portava al dito. Alla domanda che cosa fosse quell'anello, la donna rispose che era l'anello, il simbolo delle nozze mistiche con Cristo. Di fronte a questa risposta il Contarini si pentì improvvisamente e fuggì dal monastero. Un crocefisso nel chiostro del convento durante la sua fuga, gli fece un cenno di approvazione col capo. Quel medesimo crocefisso gli sarebbe poi apparso in sogno una notte e gli avrebbe appunto predetto la sua elezione a doge di Venezia, ma che avrebbe anche affrontato in quella veste una delle prove più dure per la sua città.
Perchè alla fine abbia accettato, comunque, appare fin troppo evidente. Ritiratosi in uno dei suoi possedimenti nel padovano, alla notizia di essere stato eletto quale nuovo doge Contarini rispose inizialmente all'ambasciatore che gli portava la notizia con un categorico rifiuto, ma a quel punto la risposta del Consiglio fu ancora più categorica. O il Contarini infatti, avrebbe accettato la nomina assumendosene tutte le responsabilità o sarebbe stato condannato all'esilio e alla confisca del suo patrimonio.


Doge sotto minaccia


Solo  dietro queste pesanti minacce, pare, il Contarini si rassegnò a diventare il nuovo doge di Venezia. In una cosa tuttavia, la leggenda del crocefisso apparso in sogno si dimostrò invece veritiera e cioè che sarebbe stato doge in un momento in cui la sua città si vide costretta ad affrontare una delle prove più terribili che mai avesse dovuto affrontare nell'ormai secolare sua storia. Nei suoi 14 anni di ducea, al Contarini infatti non dovettero certo mancare i momenti durante i quali rimpiangere la pace della sua tenuta padovana.
Iniziò la città di Trieste all'indomani, praticamente, della sua elezione con una improvvisa rivolta. Una città molto più piccola dell'attuale alla quale Venezia non aveva mai prestato particolare attenzione, ma che riuscì a tenere impegnata la flotta veneziana in una lunga ed estenuante guerra che si concluse solo con la capitolazione della città presa per fame.
Dopo Trieste, fu il turno di Padova dove Francesco da Carrara proseguiva nella sua opera di provocazione con la fortificazione degli argini del Brenta che segnava allora il confine fra il comune di Padova ed il territorio veneziano mentre per via diplomatica continuava a tessere sinistre alleanze anti-veneziane. Una congiura organizzata e finanziata dallo stesso Francesco da Carrara arrivò anzi a minacciare il cuore di Venezia, tanto che il Consiglio dei Dieci si vide costretto a decretare lo stato di emergenza. Le calli e i canali dovevano essere sorvegliati da pattuglie e gli stranieri perquisiti prima di entrare in città, mentre i sospetti potevano essere torturati.
 Come se non bastassero i guai in casa propria, anche nel Levante le cose sembravano mettersi veramente male. Nel 1373 a Cipro scoppiarono violenti disordini fra la comunità veneziana e quella genovese anche se fu un'altra, ben più grave circostanza a riaccendere le ostilità tra le due repubbliche nemiche.
Intanto anche Genova tesseva le sue reti di alleanze tanto che alla fine venne formandosi un formidabile ed imprevisto fronte anti-veneziano, dove ciascuno dei suoi membri portava o accampava i suoi interessi: Padova con le sue mire espansionistiche, Genova con i suoi interessi commerciali, il duca  d'Austria che aspirava ad annettersi il trevigiano, il re d'Ungheria che sperava di recuperare la Dalmazia fino al Patriarca di Aquileia che sperava invece di recuperare  Trieste, ampliando ulteriormente il suo già potente feudo.
Venezia si trovava così, improvvisamente e quasi inaspettatamente circondata.. I Carraresi ed i Genovesi erano riusciti a chiudere la Serenissima in una trappola mortale.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI


STORIA VENETA - 52: 1346 - LA GIOSTRA IN PIAZZA SAN MARCO. PER CELEBRARE LA VITTORIA SUI RIBELLI DI CANDIA



Dal testo di Francesco Zanotto


"Eseguito infrattanto lo sbarco dal prode del Verme, una sola battaglia data per mare e per terra valse a' Veneziani per disperdere e conquidere i rivoltosi, e a prendere i sobborghi della città. Per la qual cosa vedutisi alle strette, i ribelli spedirono, a' vincitori, Andrea Cornaro e Michele Faliero; i quali con calda orazione scusarono i rei,  ed ottennero speranza di venia. (... ) Indicibili furono le feste fatte da' Veneziani per quella vittoria, e dopo rese grazie a Dio nella Basilica, fra le altre solennità si ordinarono splendide giostre in sulla piazza maggiore di S. Marco".


ANNO 1346


 Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Risolto il problema di Candia lo stato veneziano potè tirare un sospiro di sollievo: era stata garantita la legittimità della repubblica e la gioia fu tale che  fu indetta una gran giostra con torneo di cavalieri in piazza San Marco ...


LA SCHEDA STORICA - 52


Il   governo veneziano aveva dunque tentato più volte di far rientrare la rivolta dei coloni veneziani di Creta attraverso l'invio ripetuto di una delegazione diplomatica. La prima era stata guidata da Pietro Soranzo, Andrea Zenò e Marco Morosini, ma non era riuscita neppure ad attraccare al porto con le sue galee tanta era la furia dei rivoltosi. La seconda spedizione era invece composta da cinque senatori che pur riuscendo a sbarcare nell'isola e ad incontrare i ribelli, se ne tornarono in patria senza un nulla di fatto. A quel punto le maniere forti restavano l'unica ed estrema possibilità per il governo ducale.
Vennero così armate 33 galee e 12 navi onerarie dove vennero imbarcati 1.000 cavalieri e 2.000 fanti al comando di Luchino del Verme. Era questi uno dei più contesi e valorosi capitani di ventura dell'epoca. Di origine lombarda aveva prestato servizio presso i più potenti signori, dai della Scala ai Visconti per arrivare proprio nel 1364 in laguna al servizio del doge che lo scelse proprio per le sue note qualità di comando e militari. E così, il 10 aprile di quello stesso anno la flotta ducale salpava da Venezia alla volta di Candia dove arrivò il mese successivo. La flotta ormeggiò nel porto di Faschia mentre gli uomini si preparavano alla sortita.
Il tempo trascorso aveva tuttavia lavorato a favore di Venezia Fra i ribelli infatti, iniziarono ad affiorare le prime, profonde spaccature accanto alle sempre più numerose defezioni. L'esercito dei rivoltosi, poi, era per lo più composto da briganti e malfattori usciti di prigione a seguito dell'amnistia concessa da Marco Gradenigo. Non pagati -e dove si poteva trovare tanto denaro?-, questi furfanti non trovarono di meglio che approfittare della situazione e dedicarsi a violente e indiscriminati saccheggi. Le famiglie veneziane, poi, iniziarono a preoccuparsi per le crescenti aspirazioni politiche dei greci, molto più numerosi di loro, ai quali la rivolta aveva dato un formidabile spazio e potere. Ben si comprende come le truppe veneziane, ben equipaggiate e fortemente motivate ebbero facilmente alla fine la meglio.
Quando queste sbarcarono e dilagarono nella città, fu così un fuggi fuggi generale. Leonardo Gradenigo, il Calogero, colui che aveva portato agli estremi le premesse della rivolta mettendosi a capo dei gruppi più estremistici, venne catturato e decapitato mentre nell'isola stava tornando gradualmente la calma. Il 4 giugno del 1364 la galea di Pietro Soranzo entrava trionfante nel porto di Venezia con gli alberi ornati di fronde e i rematori incoronati di alloro in segno di vittoria.
Testimone d'eccezione alla vittoria riportata sui ribelli di Candia, Francesco Petrarca, allora a Venezia e alloggiato in una casa sulla riva degli Schiavoni ospite di riguardo del doge Lorenzo Celsi durante i festeggiamenti tenuti in Piazza  S. Marco. " Niun sesso, nessuna età, nessuna condizione mancava. Il doge con numerosissimo seguito occupava la fronte del tempio sopra il vestibolo ed ivi dalla marmorea loggia vedeva tutto agitarsi sotto i suoi piedi. Era il sito dove propriamente stanno i quattro cavalli di bronzo dorato .... lo stesso colà invitato fui posto a sedere alla sua destra. La gran piazza, la chiesa stessa, la torre i tetti, i portici, le finestre, tutto era non dico pieno, ma zeppo, murato di gente. In fianco alla chiesa erasi alzato magnifico palco per le veneziane matrone che in numero di ben 400 rendevano più gaia la festa ... " Così il poeta alla vista dello straordinario spettacolo. Uno spettacolo che si protrasse per ben tre giorni richiamando genti da tutti i paesi:" ...


Una festa memorabile


“Alla festa presero parte parecchi inglesi, parenti del re, tutti esultanti per la loro recente vittoria (probabilmente quella sui francesi), che allora trovavansi a Venezia e in questa spirava per più giorni la gioia e il forestiero rimaneva sbalordito alla vista di tanta magnificenza", racconta ancora il Petrarca.
I festeggiamenti si distinsero anche per tutta una serie di giostre e tornei che si tenevano principalmente in Piazza S. Marco che per l'occasione diventava un grande, eccezionale palcoscenico.
Il primo giorno fu la volta della giostra dei 24 giovani nobili vestiti con abiti riccamente ornati e guarniti d'oro e d'argento che montavano sopra altrettanti superbi cavalli divisi in due squadre per poi simulare una sorta di torneo cavalleresco.
I due giorni successivi la giostra procedeva con la partecipazione di molti signori provenienti numerosi anche da altre provincie italiane ai quali si univano altri nobili veneziani in una giostra che in quell'occasione vide vincitore Pasquale Minotto. A questi il doge consegnò il premio stabilito di una corona d'oro del valore di 360 ducati aurei. L'altro premio andò invece al secondo classificato, un cavaliere ferrarese come ci informa ancora il Petrarca. Gli eventi successivi tuttavia, dovettero mettere in luce quanto prematuri fossero stati questi festeggiamenti.
Per i cretesi infatti, la partita non era ancora chiusa. Giovanni e Giorgio Kalergis, Tito Venier e altri ribelli ritornarono infatti clandestinamente nell'isola da poco riappacificata riaccendendo sui monti dell'isola una guerriglia che tenne impegnati i veneziani per altri tre anni anche se alla fine vi aderivano ormai i soli ribelli locali.
La repressione di Venezia questa volta fu davvero senza pietà. Atroci e sommarie esecuzioni, distruzioni e atti di violenza si susseguirono nell'isola senza tregua per giorni e giorni mentre la ricca pianura della Mesarea che dava i prodotti per sfamare gli insorti, venne lasciata volutamente incolta per poter prender per fame i ribelli. La strage dovette essere veramente consistente dal momento che nel 1368 si rese indispensabile far venire da altre isole vicine e dalla Cilicia dei profughi per far ripopolare l'isola.
 La situazione, con il terrore, era nuovamente sotto controllo. Il governo ducale poteva ritenersi finalmente soddisfatto anche se la rivolta lo aveva messo in guardia sui possibili e negativi risvolti di una politica eccessivamente dura e spregiudicata nei confronti delle colonie. Per il momento comunque, anche se a caro prezzo, l'ordine tornava a regnare nell'isola.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI




sabato 27 giugno 2015

STORIA VENETA – 51: 1363 - LEONARDO DANDOLO AFFRONTA I RIVOLTOSI. LA RIVOLTA DEI VENEZIANI DI CANDIA.



Dal testo di Francesco Zanotto


"Quella sedizione gravissima nacque da leggiera cagione, imperocchè dovendosi, per interrimento fattosi dalle sabbie marine, escavare quel porto e ripararsi quel molo di Candia, fu per decreto pubblico posto un balzello agli isolani per sopperire alla spesa. I primarii Greci di Candia e molti fra i coloni Veneziani ebbero a sdegno quella disposizione, pretendendo essi, per le concedute franchigie, di andare immuni da quella gravezza. ( ... ) Dandolo coraggiosamente a ricontro dice a loro: Essere sovrana dell'isola la Repubblica, e quindi poter ella ordinare gli aggravii, e più come questo, rivolto all'utilità loro ... "


ANNO  1363



Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Motivi economici produssero la più grave delle rivolte subite da Venezia nei suoi territori d'oltremare. A Candia si giocò una partita delicatissima, e la pazienza della Repubblica fu messa a dura prova dai rivoltosi veneti che alla fine però rimasero isolati anche dalla stessa popolazione indigena ...


LA SCHEDA STORICA - 51  


 E' una storia di continue rivolte e conseguenti repressioni quella del dominio veneziano su Creta. La grande isola era stata letteralmente acquistata da Venezia in occasione della quarta crociata nel 1204. Donata al marchese Bonifacio di Monferrato, uno dei fautori di quell'impresa, dall'imperatore bizantino Alessio IV per l'aiuto ricevuto dai crociati, l'isola venne poi venduta dal marchese al governo veneziano per 1000 marche d'argento.
Creta costituiva uno scalo nevralgico nei traffici da e per l'Oriente, una sorta di ponte naturale di collegamento tra il Peloponneso e l'Asia Minore nel cuore del Mediterraneo. Chiamata dai veneziani anche Candia, dal nome arabo della loro capitale nell'isola, Khandak, presso l'antica Cnosso, Creta divenne per i successivi quattro secoli e mezzo uno dei più importanti e irrinunciabili capisaldi dei traffici commerciali di Venezia con il Levante.
L'occupazione dell'isola tuttavia, si rivelò lunga e difficile, non solo inizialmente per la resistenza delle popolazioni locali, per la sua selvaggia e montagnosa morfologia, ma anche per il confluire su Creta anche degli interessi di Genova, da sempre in accesa e violenta concorrenza con quelli veneziani.
Avuta tuttavia ragione del corsaro genovese Enrico Pescatore che per alcuni anni dette del filo da torcere alla flotta ducale occupando una parte dell'isola, Venezia poteva finalmente inviare a Creta nel 1208 il suo primo rappresentante ufficiale nella persona di Jacopo Tiepolo col titolo di duca di Candia.
Negli otto anni del suo governo (1208-1216), il Tiepolo riuscì ad averla vinta sulle ultime guarnigioni genovesi, a reprimere e sconfiggere le prime rivolte locali e ad imporre l'amministrazione veneziana con la colonizzazione sistematica dell'isola che subì un vero e proprio processo di "venetizzazione".
Creta venne infatti divisa in sei sestrieri ricalcando in pieno la divisione di Venezia, sestrieri a loro volta divisi in turme o castellanie. Un capitano, poi, era preposto ad ogni sestriere - l'esigenza e il carattere militare dell'occupazione e della sua difesa era inevitabile -, mentre iniziava di pari passo l'invio massiccio di coloni veneziani a popolare l'isola. A questi nuovi arrivati veniva assegnata parte dei beni sino ad allora appartenuti alla chiesa greca. I coloni, tuttavia, non potevano cedere i loro beni se non ad altri veneziani, dovendo inoltre impegnarsi a difendere personalmente l'isola o, non potendo, pagare delle tasse al comune.
L'invio di coloni veneziani nell'isola si fece massiccio specialmente negli anni 1222-1233-1252 (in 40 anni ben 310 famiglie veneziane erano giunte a Creta), arrivando alla fine del secolo a concedere il permesso di contrarre matrimonio fra le due comunità nell'evidente tentativo di giocare anche e soprattutto la carta dell'integrazione molto più conveniente al governo veneziano rispetto a quella della repressione annata.
Ma di integrazione vera e propria, almeno per i primi secoli, non si può certo parlare, dato che le rivolte locali, di fatto, non vennero mai definitivamente sedate e Creta continuava a rappresentare per il governo veneziano una vera spina nel fianco.
Nel corso del XIV secolo ben tre furono le rivolte di una certa entità e pericolosità, l'ultima delle quali, tuttavia, nel 1363, trovò sorprendentemente ed eccezionalmente uniti per la prima volta greci e coloni veneziani, dai quali partì sostanzialmente il moto di rivolta contro la madre patria.
L'occasione fu data dall'imposizione di nuove, ulteriori tasse per l'ampliamento del porto di Candia. Queste tasse, decise unilateralmente dal governo veneziano, andavano però ad aggiungersi ad un carico fiscale già di per sè eccessivo tanto da provocare la reazione indignata della comunità veneziana dell'isola.
Settanta notabili si erano così riuniti in una chiesa per eleggere una delegazione di 20 Savi da inviare al più presto a Venezia presso il Consiglio Maggiore per esporre e far presente le lagnanze dei veneto-cretesi. Quando giunse al Consiglio la notizia di tanti preparativi, questo mandò a dire che non era sicuro che nella colonia vi fossero 20 persone degne di essere chiamate tali (Savi).
All'offesa ricevuta con questa sarcastica risposta, i veneziani dell'isola risposero allora con la rivolta. Il  gonfalone di S. Marco venne ammutinato e al suo posto issato quello di S. Tito, patrono di Candia, mentre il governatore veneziano Leonardo Dandolo, figlio del doge Andrea, andava incontro coraggiosamente ai rivolto si che erano riusciti intanto a raggiungere il suo Palazzo.
Era il 9 agosto del 1363 e fra i capi della rivolta c'erano i nomi del fior fiore del patriziato veneziano immigrato: Marco Gradenigo, Tito Venier, Leonardo Gradenigo detto Calogero (il monaco greco) dopo a seguito della sua conversione alla fede ortodossa e non a caso il più filo-greco dei rivoltosi, che avrebbe voluto portare sul trono dell'isola il cretese Giovanni Kalergis. Il  Consiglio Maggiore intanto sembrava sottovalutare la rivolta scoppiata nell'isola e solo con il fallimento della seconda missione diplomatica si convinse di passare alle vie di fatto.
I ribelli nel frattempo avevano imprigionato lo stesso Leonardo Dandolo che invano aveva tentato di far rientrare pacificamente la rivolta.  Il governatore, presentatosi ai coloni inferociti aveva tentato infatti di riportarli alla ragione cercando di far capire la gravità di una simile iniziativa.  Tutto era stato inutile e solo grazie all'intervento di due eminenti nobili veneziani il Dandolo ebbe alla fine salva la vita.  Al suo posto venne nominato dagli insorti Marco Gradenigo il Vecchio che per prima cosa proclamò un'amnistia generale mentre alle ragioni dei veneziani andavano sempre più affiancandosi quelle delle popolazioni locali alle quali era stata promessa l'uguaglianza religiosa e civile.
Per il governo veneziano si era a questo punto superato ogni limite. La situazione nell'isola era diventata insostenibile e doveva essere risolta al più presto. Come spesso accadeva la via più celere anche in quel caso, fu quella delle armi. Intanto, di fronte alla prospettiva di uno scontro armato con la madre patria, molti feudatari veneziani incominciavano a ritirarsi dall'impresa alla quale mancò lo stesso aiuto - richiesto - dei genovesi. Le premesse per un tragico fallimento erano già chiaramente delineate.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI



venerdì 26 giugno 2015

STORIA VENETA - 50: 1355 - LA MORTE DI MARINO FALIERO. CONDANNATO PER CONGIURA CONTRO LO STATO



Dal testo di Francesco Zanotto


"Gli avvisati corsero tosto al Consiglio de' X, e quel Consiglio tanto operò nella notte che precedeva il giorno tremendo, che furono arrestati i principali capi della congiura e tradotti in giudizio. Dai quali saputo l'ordine della trama, e come in essa v'entrava il Doge medesimo, dannati a morte, furono impesi. Quindi fu arrestato anche il  Doge medesimo, e convinto e confesso del suo delitto, venne condannato da quattordici senatori alla pena di morte, il 17 aprile del citato anno 1355. Pria di soggiacere alla sentenza, gli fu conceduto di poter disporre di 2000 ducati del suo, e gli fu tolto il berretto ducale sulla scalea ... "


ANNO 1355


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Fu l'odio per la classe degli aristocratici che non lo amava, o forse uno sgarbo e un'offesa all'onore. Sembra certo comunque che per Marin Falier la congiura doveva spianargli la strada per il potere assoluto.  Il  rischio di un cambiamento politico radicale fu grave  per Venezia ma la delazione ebbe il suo peso  e la congiura fallì ...


LA SCHEDA STORICA -  50


Il  7 settembre del 1354 moriva il doge Andrea Dandolo. Pochi mesi ancora e il doge avrebbe assistito ad una delle più tremende ed umilianti sconfitte della flotta veneziana per mano dei mortali nemici genovesi.  Nel novembre di quel medesimo anno, infatti, presso Portolongo, tutte le 56 navi spedite da Venezia per combattere quelle della repubblica ligure vennero catturate dal nemico mentre ben 450 marinai venivano infilzati, pare a sangue freddo, dai genovesi.
Toccò al nuovo doge, Marin Falier portare il peso della dura sconfitta. Esponente di una delle più antiche famiglie della nobiltà veneziana, prima della sua ascesa al trono ducale si era distinto tanto per la sua attività diplomatica, quanto per le sue doti militari che poté esplicare durante la guerra con la ribelle Zara nel 1346.
Più volte membro del Consiglio dei Dieci pare abbia svolto in quel contesto un ruolo determinante nella repressione della congiura di Bajamonte Tiepolo e nella sua stessa scomparsa.  Podestà di Chioggia, Padova e Treviso, proprio in questa città il Falier si era distinto per il suo carattere aspro ed irascibile, arrivando a schiaffeggiare pubblicamente il vescovo di quella città.
Quando venne eletto doge, dunque, il Falier era pubblicamente e da tempo noto sia per il suo impegno  a favore della Repubblica sia per il suo carattere eccentrico e suscettibile del quale ben presto i veneziani avrebbero avuto un'eclatante riprova.
Tutto iniziò, si racconta, il giovedì grasso del 1345 durante i festeggiamenti che si tenevano abitualmente a Venezia in quel giorno. La festa, da Piazza S. Marco proseguiva poi nel Palazzo Ducale dove veniva offerto dal doge il tradizionale banchetto e  fu proprio lì che ebbe inizio la rovina dello stesso Falier.
Un giovane infatti, tal Michele Steno, probabilmente ormai ubriaco, importunò pesantemente una damigella del seguito che accompagnava la dogaressa. Il doge offeso ed irritato fece cacciare dalla sala il giovane che prima di andarsene riuscì però ad intrufolarsi nella Sala del Maggior Consiglio e a scrivere sul seggio ducale: "Marin Falier da la bela mujer. Altri la galde (gode) e lu la mantien".
Difronte a tanto affronto l'ira del doge apparve incontrollabile esplodendo ancor più violentemente quando la Quarantia pronunciò una sentenza tutto sommato assai mite nei confronti dello Steno, portando a sua discolpa la giovane età e la sua naturale indole pacifica.  Non era la prima volta del resto che l'organo chiamato a giudicare chiudesse un occhio nei confronti dei rampolli della classe patrizia. Una classe che stava da tempo esageratamente insuperbendosi anche a scapito della figura e del ruolo ducali.
Un ulteriore episodio, che confermò al doge questa pericolosa tendenza, non tardò a verificarsi. Un certo Stefano Ghiazza detto Isarello o Ghisello, ammiraglio dell'Arsenale, veniva aggredito e sbeffeggiato pubblicamente da un giovane aristocratico. Ricorso al doge per avere giustizia dell'affronto, Ghisello si sentì rispondere che se nemmeno al doge venne resa giustizia, tanto meno lui poteva aspettarsi tanto. Ghisello intuito così lo stato d'animo del doge pare lo abbia in quell'occasione reso partecipe della congiura, una congiura che avrebbe visto per la prima volta nella veste del congiurato lo stesso doge.
Ma una congiura contro chi, allora? Da sempre queste segrete iniziative avevano avuto lo scopo di rovesciare, cacciare o uccidere proprio il doge! Qualcosa, evidentemente, nella società veneziana del Trecento era nel frattempo profondamente cambiato.
Ad accomunare il Falier e il Ghisello sulla necessità e sull'obbiettivo della congiura era l'odio verso una classe aristocratica sempre più potente e l'insofferenza nei confronti di un apparato di governo che sempre più nei secoli aveva tolto spazio e peso alla figura del doge.
Appoggiarsi a Ghisello, il massimo ufficiale dell'Arsenale, era di per sè fondamentale per il doge dal momento che i dirigenti di quell'ente costituivano dalla metà del Trecento una sorta di corpo paramilitare fedelissimo al doge stesso.  Lo scopo dell'azione era quello di sovvertire dunque e niente meno che lo stesso ordinamento della Repubblica al fine di instaurare anche a Venezia una sorta di Principato, scalzando così ogni forma di controllo e di vincolo sull'operato ducale. Alla congiura, che prendeva via via sempre più consistenza, partecipavano anche il nipote del doge ed il suocero di Ghisello, Filippo Calendario,  da molti ritenuto niente meno che l'architetto del costruendo Palazzo Ducale.
Tutto era dunque pronto per il giorno stabilito, il 15 aprile, ma ancora una volta, come trent'anni prima per Bajamonte Tiepolo, qualcuno parlò. Anzi, molto probabilmente più di qualcuno andò ad informare i membri del Consiglio dei Dieci dell'imminente congiura ai danni della Serenissima.
Con la tempestività e l'efficienza che gli erano ormai propri, il Consiglio mobilitò prontamente i suoi uomini in ogni sestriere (in tutto quasi 8.000!), pronti a sedare ogni minimo disordine. E così la congiura venne stroncata ancora prima di esplodere. Tutti i congiurati vennero in breve tempo catturati compreso il doge Marin Falier.
Reo confesso di fronte al Consiglio di Dieci, il vecchio doge si assunse in pieno ogni responsabilità dichiarandosi pronto a pagare e giustamente, con la vita il suo tradimento. E così fu.
Il 18 aprile del 1355 Marin Falier venne prelevato dai suoi appartamenti in Palazzo Ducale. Venne quindi tradotto verso la scala esterna nel cortile e lì venne privato delle insegne ducali e del corno d'oro. Ribadita pubblicamente la giustezza della sentenza e posato il capo sul cippo, venne infine decapitato. Le porte del Palazzo Ducale, chiuse durante l'esecuzione vennero riaperte ed il corpo esposto al popolo. Dalle due colonne rosse nelle vicinanze del Palazzo dove venivano comunemente decapitati i malfattori, venne proclamata l'avvenuta esecuzione e che giustizia era quindi fatta. A Venezia, ancora una volta, niente era mutato anche se il pericolo non era mai stato così inaspettato e grave.
Ancora nel 1366 il doge cospiratore non trovava pace, tanto che il suo ritratto nella sala del Consiglio Maggiore dove si trovavano dipinti tutti i dogi, venne coperto da un velo nero con su scritto poche, lapidarie parole: "Questo fu il posto di Marin Falier, decapitato per delitto di tradimento".



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI