venerdì 30 settembre 2011

E' TEMPO DI ELEGGERE UN LEADER MONDIALE E VOI SIETE CHIAMATI A VOTARE.

Queste sono le informazioni relative ai tre candidati:

Candidato A: il suo nome viene associato con quelli di politici corrotti. È solito consultare degli astrologi. Ha avuto due amanti. Fuma una sigaretta dopo l'altra e beve da 8 a 10 Martini al giorno.

Candidato B: è stato licenziato dal lavoro due volte. Dorme fino a tardi, faceva uso di oppio all'università e consuma un quarto di bottiglia di whisky ogni notte.

Candidato C: È un eroe decorato di guerra. È vegetariano, non fuma, di tanto in tanto si fa una birra e non ha mai avuto relazioni extra coniugali.

Quale dei tre candidati eleggereste?

-
-
-
-
-
-
-
-
-
-
-

Il candidato A   è   Franklin D. Roosevelt

Il candidato B   è   Winston Churchill

Il candidato C   è   Adolf Hitler


giovedì 29 settembre 2011

IL PIÙ BUONO KEBAB CHE CI SIA: AL GIROS DELLA GRANDE MELA DI VERONA


Oggi ho voglia di un KEBAB

Come è mia abitudine, per l’alimentazione,  ricerco  sempre prodotti di alta  genuinità e possibilmente coltivati alla maniera  di mia nonna, cioè “biologici”

Se voglio un KEBAB, voglio il meglio che vi è a Verona,  e se è il meglio a Verona  e anche il meglio  del Veneto, e se è il meglio del Veneto è naturale che sia anche  il meglio del Mondo.

Dove vado? Vado al  GIROS della GRANDE MELA di Verona.
Il titolare, da sempre, prepara personalmente  gli spiedi,  usando solo carne fresca, acquistata alla macelleria Costanzo di Buttapietra, una delle migliori di Verona.
Naturalmente anche il  pane è di alta qualità,  perché  è  quello prodotto  in modo artigianale dal panificio di San Giorgio in Salici. 
Della  bontà di questo KEBAB, non lo dico solo io, vi sono persone  che vengono alla GRANDE MELA anche dalle regioni confinanti, e solo per mangiare il KEBAB.
Poi, si sa, i gusti sono gusti, ma sulla qualità e genuinità del  prodotto  non vi sono dubbi.

Buon appetito!!! 

mercoledì 28 settembre 2011

Il Kebab? Come è buono! Ecco la composizione della carne

Il Kebab

Intestino, polmoni, cuore, lingua, occhi, scarti di macelleria, ossa, sale e grasso animale. Non, no è la ricetta della zuppa di una strega ma gli ingredienti della “carne” di un D. Kebab.

Una moda spopolata in tutta Europa, il kebab è diventato il fast food più diffuso, da Londra a Barcellona, Roma, Berlino, Parigi, milioni di persone lo mangiano ogni giorno, senza sapere che cos’è e quanto pericoloso è per la salute.
Mahmut Aygun, emigrato in Germania dalla Turchia negli anni Settanta è stato uno dei primi fautori della diffusione di questo alimento nel nostro continente. Pare che, originariamente, nei paesi arabi dove è nato, il kebab fosse un piatto artigianale e rustico di carne, anche abbastanza fresco e nutriente, servito con verdure e salse speziate. Il Doner Kebab (ovvero la versione “da passeggio”, diffusa dalla Germania in tutta Europa, ndr), invece, non ha niente di nutriente, né di buono, purtroppo.

Quel sapore anche “non male” e a volte appetitoso, che chiunque abbia mangiato un kebab conosce, non è nient’altro il risultato della lavorazione della carne con quantità spropositate di grasso animale e spezie: questo è quello che inganna il palato.
Chi è abituato a mangiare hamburger da McDonald od altre schifezze del genere, sa bene che il panino sembra buono: questo è solo un sapore indotto dal grasso utilizzato nel processo di lavorazione della carne.

Vi propongo i risultati di un’analisi condotta in Inghilterra da un equipe di scienziati e nutrizionisti (il testo integrale della ricerca è pubblicato in formato .pdf, sulle pagina  di AGORA VOX  http://www.agoravox.it/Kebab-Ecco-la-composizione-della.html
 ndr) e spero che vi facciano cambiare idea al momento di decidere se entrare in un “ristorante” che offre kebab.


      più del 50% dei Doner Kebab contiene carne diversa da pollo o vitello, la maggioranza dei kebab sono un miscuglio di carni diverse, tra cui quella di pecora e di maiale;
      a parte nei kebab realizzati con un’amalgama di carni di vitello, pollo, tacchino, pecora, maiale, in circa il 9% dei casi non si è potuta individuare con chiarezza la natura della carne utilizzata nel processo di triturazione;
      un kebab contiene tra il 98% (nel migliore dei casi analizzati) ed il 277% della quantità giornaliera di sale accettabile, oltre la quale la salute di un essere umano è a rischio;
      un singolo kebab contiene tra le 1.000 e le 1.990 calorie (senza considerare le verdure e le salse, ndr);
      un altro dato scandaloso è che ogni kebab contiene tra il 148% ed il 346% della quantità di grassi saturi assimilabili giornalmente da un essere umano (sempre considerando solo la carne, ndr);
       
La totalità dei kebab diffusi dalla Germania in tutta Europa, contengono una quantità elevatissima di conservanti ed additivi chimici, necessari per poter assicurare la conservazione del prodotto per mesi. Inoltre, durante il loro trasporto ed all’interno degli stessi stabilimenti dove sono venduti al pubblico, questi rotoloni di “carne” sono soggetti a gravi interruzioni della catena del freddo, in seguito a continui e ripetuti congelamenti e descongelamenti.
Buon appetito.


Fonte: AgoràVox
Fonte: No Censura


lunedì 26 settembre 2011

IL VOLO SU VIENNA. LA 87a SQUADRIGLIA "SERENISSIMA” DI ALBERTO MASPRONE: IL LEONE RUGGISCE ANCORA


Alberto Masprone

Il capitano pilota Alberto Masprone, nato a Poiano di Verona  nel 1884, fu il comandante della Squadriglia che organizzò il volo su Vienna nell'estate del 1918, nota vicenda storica che vide tra i protagonisti il poeta Gabriele D'Annunzio

Il 9 agosto 1918 la "Serenissima" viola il cielo di Vienna. A bordo del primo dei sette "SVA" che inondano di manifestini la capitale dell'Impero asburgico siede Gabriele D'Annunzio, il Poeta che già nel 1915 aveva ideato il raid.  Ma il Vate, che non è aviatore, è un passeggero, ospite illustre dell'87A  Squadriglia "Serenissima", comandata dal capitano Alberto Masprone, che l'aveva costituita con altri piloti veronesi. Già, perché Masprone, conosciuto per i suoi allori sportivi, era di Poiano. Nato il 30 maggio 1884, morì il 13 febbraio 1964.

Portacolori dell'Istituzione Comunale Marcantonio Bentegodi,  Masprone era tra i campioni veronesi che parteciparono alle prime edizioni dei Giochi Olimpici. Gli altri erano Erminio Lucchi, i fratelli Angelo e Virgilio Tommasi, Albino Pighi ed il "campionissimo" Adolfo Consolini.
Finalista nel lancio del disco ai "Giochi Olimpici Intermedi" nel 1906 ad Atene, nelle Olimpiadi del 1908 stabilì il suo record personale lanciando il disco a metri 40,10. Versatile nelle discipline sportive, praticò anche il calcio e fu allenatore del "Verona" negli anni 1911/12, 1912/13 e 1913/14. Con Enzo Ferrari fu tra i fondatori del "Corriere dello Sport".

Alberto Masprone ebbe il primo contatto con l'aviazione nel maggio 1910, quando organizzò l'immensa "salle à manger" per i partecipanti al Circuito Aereo Internazionale di Verona, per le autorità ed i giornalisti, sul campo di Tombetta.  Pilota militare con il grado di capitano, in una brumosa mattina del novembre 1917 raccolse attorno a sé sull' aeroporto della Malpensa alcuni piloti suoi concittadini, lanciando l'idea di formare una Squadriglia di veneti, riunendo nel reparto tutti i piloti veneti destinati a qualche squadriglia al fronte.
Reduci dall'attività bellica o dalla Scuola di volo di Furbara, c'erano i tenenti Aldo Finzi, di Legnago, e Giordano Bruno Granzarolo, da Carpi di Villabartolomea, i sottotenenti Nello Marani, Guglielmo Vianini, entrambi di Verona, Francesco Ferrarin, Alberto Grazzini e Fornasari.  Si unì anche il bergamasco ten. Antonio Locatelli, accettato nella "Serenissima" (questo il nome scelto da Masprone e Finzi) in quanto Bergamo faceva parte del territorio della Serenissima Repubblica di Venezia.

Il Commissario per l'Aeronautica, a Roma, ed il maggiore Capuzzo, del Comando Supremo, diedero subito il loro benestare e la "Serenissima" (il nome sarà ufficialmente riconosciuto dopo il volo su Vienna) venne costituita come 87A Squadriglia da ricognizione a lungo raggio, con i nuovi, velocissimi SVA 5.

Inizialmente da Ghedi, la Squadriglia di Masprone ai primi del 1918 si spinge sulle valli trentine (Valsugana, Val di Non, Val Sarca), sulle Giudicarie, su Trento, fino a Innsbruck. Ai primi di maggio, mentre si aggiungono alla prima schiera i tenenti Contratti e Sarti, i tenenti Locatelli e Granzarolo effettuano una riuscita ricognizione fotografica su Trieste. Scartato il progetto di apprestare una base a Nogara perché il terreno, impregnato d'acqua dopo giorni e giorni di pioggia, risultò inadeguato, la Serenissima viene spostata sul campo di San Pelagio vicino a Padova.  
Importanti missioni fotografiche vengono compiute da Locatelli e Ferrarin fin sul Lago di Costanza (un raid di 750 chilometri) e da Sarti e Vianini lungo il Tagliamento, fino alle sorgenti.
L'intera squadriglia prende parte con azioni di ogni tipo alla "battaglia   del Piave", in cui la nostra aviazione  avrà l'assoluto dominio del cielo determinando il crollo morale dei combattenti avversari.

Dopo questa fase positiva per le armi italiane, il capitano Masprone è convocato dal generale Bongiovanni, capo dell'Aeronautica del Comando Supremo, che gli chiede di preparare quattro SVA per un volo di milleduecento chilometri su territorio nemico.  Ogni apparecchio avrebbe dovuto portare un carico di venti-trenta chili di manifestini.  Masprone afferra al volo l'idea e risponde che, se alcuni aerei devono volare su Vienna, come gli fa pensare la proposta, tutta la Squadriglia deve parteciparvi, con un volo di massa. Egli prevede di preparare in quattro settimane i 14 apparecchi della 87A Squadriglia. Il generale Bongiovanni acconsente alla preparazione dell'intera Squadriglia e Masprone si mette subito all'opera.

Dopo una decina di giorni, mentre l'addestramento procede a ritmo serrato, il generale convoca ancora Masprone e gli fa presente che il maggiore Gabriele D'Annunzio, che già nel 1915 aveva pensato a quel raid, ha chiesto di prendervi parte.  Ma lo SVA é monoposto. C'è un biposto, a disposizione del capitano Bourlot del Comando Supremo,  ma pochi giorni dopo il velivolo precipita. All'Ansaldo l'ingegner Brezzi fa miracoli, lavorando giorno e notte, per approntare un nuovo biposto, con un serbatoio supplementare per il lungo volo: D Annunzio volerà a cavalcioni , del serbatoio, tenendo una mano sotto la punta del pugnale, per evitare che possa forare il serbatoio ...

Di studiare i dettagli dell'impresa  sono incaricati il Capo dello stato maggiore col. Franchini Stappo, il cap. Porro dell'Ufficio Operazioni, il capitano Masprone ed i tenenti Finzi e Locatelli. Partiranno due gruppi di sette apparecchi ciascuno in formazione a cuneo.

La necessità di trattenere almeno tre SVA per le ricognizioni sul fronte del Piave fanno ridimensionare il piano e vari contrattempi minacciano l'aborto del progetto. D'Annunzio si dispera e si rivolge a Masprone:
"Non può deludermi così crudelmente. E, come confido nel Destino, così confido nel Suo spirito fraterno .... Pel buon  successo, è necessario che il tempo si ristabilisca fermamente. Partiti, non dobbiamo tornare indietro. Il vostro Stormo è uno strale, come nella vecchia immagine. Perciò oso rivolerLe la preghiera di non tralasciare nulla per convincere i Capi che la scelta del giorno deve essere Sua”.
“Intanto io spero che i nostri operai sieno già all’opera. A ognuno dimostrerò la mia riconoscenza. Mi ricordi ai prodi compagni, e s’abbia un’affettuosa stretta di mano dal Suo Gabriele D’Annunzio”.

Ridotto a undici, per le necessità operative sul Piave, il numero degli apparecchi che dovranno sorvolare Vienna, per due volte la Serenissima deve tornare a San Pelagio per le avverse condizioni meteorologiche.
Finalmente, all’alba del 9 agosto, la Serenissima decolla. Ma il comandante Masprone è costretto ad atterrare tra gli alberi, pochi minuti dopo il decollo, per il malfunzionamento del motore, riportando la frattura della mandibola.  Altri due aerei devono atterrare prima di superare le Alpi. Proprio sul campo di Wiener-Neustadt, base della caccia che deve difendere la capitale, anche Sarti deve tentare un atterraggio di fortuna, per un’avaria irreparabile al motore.  Riuscirà ad incendiare lo SVA prima di venire catturato.

I  “sette dell’Orsa Maggiore” giungono sulla verticale di Vienna e per due volte sorvolano il centro, il cuore dell’Impero, lanciando il messaggio di sfida. Il rientro a San Pelagio è trionfale. Atterra per primo, alle 12,40, il ten. Ludovico Censi, che ai camerati accorsi grida: “A settecento metri su Vienna!”.

A mensa, nel Castello, commentando con il generale Bongiovanni e tutti i piloti l’impresa compiuta, D’Annunzio dice: “Questa nostra impresa noi l’abbiamo ostinatissimamente voluta. E’ nobile, perché porta l’impronta della volontà indefessa. Nacque in quella sera lontana del primo anno di guerra, là, sul piano di Campoformido, quando nella carta la matita rossa tracciò per scongiuro e per voto la linea della rotta dal villaggio del basso Trattato alla capitale austriaca. C’è una predestinazione segreta dentro il disegno. C’era perfino l’influsso del numero perfettissimo. Da principio eravamo in quattordici. E quelli che desiderarono e lavorarono e aspettarono e s’affannarono, e poi furono dalla sorte delusi, quelli devono essere lodati come gli altri, come gli eletti dalla fortuna.

 “Avevo portato meco per un buon augurio il mio guidone azzurro di Cattaro, costellato dalle sette stelle dell’Orsa, il
segno che m’era stato fausto nella notte Adriatica quando trassi dal labirinto marino il motto di guerra che la Squadriglia di nome “Serenissima” ha raccolto e fatto suo: “Iterum rudit Leo.   (Il  leone ruggisce ancora)

 “Il mattino del nove eravamo undici alla partenza... Sono tutti qui seduti, intorno a questa mensa, degni dello stesso onore i fortunati e gli sfortunati. Uno di essi, Masprone, ha la bocca ferita, e pure sorride senza invidia e senza rancore. Sopra la foce del Piave eravamo otto. Ma il numero sette della costellazione fatale doveva prevalere. Prima della meta l’ottava stella si consumava come una delle lacrime di fuoco che solcano l’aria di queste notti di San Lorenzo.
“O compagni, offriamo il meglio dei nostri cuori al prigioniero che è triste e solo, laggiù, avendo perduta la libertà, che è mille volte più preziosa della vita”.


Fonte: srs di Gianni Cantù;  da Pantheon di agosto settembre 2011

sabato 24 settembre 2011

UN SIMBOLO PER UNA NAZIONE: UN VIAGGIO A BOSCO CHIESANUOVA PER RISCOPRIRE LA BANDIERA TRICOLORE DI ANGELO MASOTTO

Luisa Cadaluppi con la storica bandiera


Da lontano una macchia violacea. Più mi avvicino, più la riconosco: è proprio lei, la lavanda, così bella e rigogliosa...proprio come mi era stata descritta. Sì, sono nel posto giusto, sulle fresche alture di Boscochiesanuova, a casa della signora Luisa. Con un sorriso mi accoglie, e adagio mi guida nel suo piccolo, ma ricchissimo, mondo degli antenati. Iniziano a prendere forma nella mia mente immagini di un passato in fondo non troppo lontano ...
Ecco sopraggiungere due figure a cavallo: è il re, Vittorio Emanuele III, e a seguire un uomo con i baffi e l’uniforme della Guardia Regia. Poco dopo lo rivedo, alto (dicono 1,97 metri!), giovane, accanto alla moglie e alla figlia Renata, ancora bambina. Poi a cavalcioni su un cannone. A fianco dei regnanti d’Austria. E ancora nel deserto, accompagnato da un arabo e da un ebreo.

Angelo Masotto, classe 1881, è un uomo di un certo rilievo, un’autorità.

Angelo Masotto in un ritratto dell'epoca

Nato a Quaderni, di famiglia benestante, ha tutti i requisiti per intraprendere la carriera militare: prima granatiere, la sua altezza (aveva un letto su misura!) e la sua “costituzione adeguatamente armoniosa” gli consentono di accedere nel ristrettissimo corpo delle Guardie del re.
Nel 1911 è inviato in Libia, e dalle calde terre desertiche spedisce brevi reportage di guerra a un giornale italiano. E forse scrive alla moglie, l’insegnante incontrata nel suo paese natale, che per nove anni corteggerà con una lettera a Natale e una a Pasqua!
Sempre leale con la sua patria, Angelo diventerà presto Ufficiale dei Carabinieri a cavallo e nel 1922 sarà inviato a Caltanissetta, per una missione di epurazione della mafia. Il soggiorno siciliano però gli sarà fatale. Colpito da una forma di paratifo e curato a pere cotte, a soli 44 anni lascerà per sempre i suoi cari.

Con gli occhi lucidi e con lo sguardo assorto, la maestra sembra perdersi nel ricordo. Ma d’improvviso la sua voce si rianima: l’amore per la patria, che nessuno nella sua famiglia ha mai tradito, fa vibrare la sua voce di orgoglio.
Passano pochi attimi, e d’un tratto mi trovo sola nella stanza. Occhi fieri mi scrutano dalle pareti bianche. Sostengo timidamente il loro sguardo, cercando di frugare nella mente di chi ha lottato e rischiato la propria vita per un ideale, che oggi è quasi dimenticato.
Mi incuriosisce il contrasto così profondo tra l’amnesia nazionale attualmente diffusa e quell’apprensione e attaccamento alla patria che muoveva un tempo gli animi della gente ...
Un rumore improvviso mi ridesta dai miei pensieri: è Luisa, che ricompare trascinandosi dietro un lungo contenitore cilindrico. Dalla custodia estrae l’oggetto che mi ha spinto fin qui, a Bosco.
Ecco finalmente srotolarsi davanti a me il tricolore, impresso su una stoffa lunga quasi due metri. È lì, davanti a me, il simbolo concreto e tangibile di quel sentimento patriottico: la bandiera italiana. Un simbolo rappresentativo mantenuto sempre vivo nei decenni successivi all’Unità e in cui Angelo credeva fermamente. Un simbolo, però, la cui linfa originaria era stata stravolta. Dopotutto la nazione non è un dato di natura, ma “uno stato di coscienza e di formazione storica”, che si trasforma nel tempo. Una sorte che non ha risparmiato l’ideale risorgimentale.
La promozione di una nazione italiana attraverso l’indipendenza e l’unità, concepita come nazione del popolo sovrano, di cittadini liberi ed eguali di fronte alla legge, della cui dignità umana si voleva garantire il rispetto, ha subìto variazioni significative di tonalità dal Risorgimento al Fascismo. Ma, ciò nonostante, i dispositivi retorici sono stati riproposti sistematicamente, cercando di mantenere lo stesso effetto sulle persone. L’invocazione ai martiri, al sacrificio, alla santità delle guerre nazionali, ha continuato a persuadere molti uomini.
Come è stato sottolineato negli studi storici, gli eroi maschi dovevano essere capaci di difendere la libertà e l’onore della nazione armi alla mano. «Nelle narrative nazionali il loro contatto con il sacrificio avveniva solo ed esclusivamente all’interno di un contesto bellico».
E le occasioni certo non mancarono, con il succedersi di guerre che hanno segnato la storia mondiale agli inizi del Novecento.
Così, il giovane Francesco Ruffoni che parte, convinto, per unirsi all’impresa garibaldina, è lo stesso giovane Angelo Masotto, che orgogliosamente, a cavallo, porta la bandiera del regno in difesa del proprio re. Volti diversi, ma accomunati e incoraggiati dallo stesso ideale. E la bandiera come simbolo, al pari dei rituali, delle cerimonie, dei gesti e degli atti pubblici, evoca momenti passati, suscita sentimenti forti, crea opinioni condivise: forma un senso di appartenenza comune.
La signora Luisa mi accompagna alla porta. Le stringo la mano. E mentre la guardo, mi tornano alla mente le parole di Simone Weil, ora più vere che mai:
«non privare nessun essere umano dei suoi metaxy, cioè dei suoi beni relativi e confusi (casa, patria, tradizioni, cultura) che riscaldano e nutrono l’anima e senza i quali, eccetto per la santità, una “vita umana” non è possibile».

CURIOSITÀ
La bandiera da parata di Angelo Masotto, prodotta a Trento, misura 195cm x 3m, l’elsa 70 cm e l’asta 310 cm.

I “codici pantone” del tricolore italiano sono:
Fern Green (verde felce) 17-6153;
Bright White (bianco acceso) 11-0601;
Red Scarlet (rosso scalrlato ) 18-166

Fonte: srs di Giovanna Tondini; da Pantheon di agosto-settembre 2011

venerdì 23 settembre 2011

ALFONSO VALLICELLA. DA SOLO CONTRO LA MONTAGNA

Il  campione del mondo Alfonso Vallicella

È stato il primo Campione mondiale di corsa in montagna, ma Alfonso Vallicella ha sempre corso pensando alla sua Lessinia, alla sua passione per l’allevamento. La storia toccante  di un solitario arrivato solo con la sua fatica sul tetto del mondo.

Come un falco pellegrino che sorvola le vette più alte, così anche Alfonso Vallicella ha lo sguardo e l'umiltà di chi la montagna non solo l'ha vissuta, ma la porta dentro, come un gioiello prezioso.
Ha una grande passione Alfonso, quella dell'allevamento di mucche, che porta avanti da quando era ragazzino e per la quale si sveglia ogni mattino alle tre e mezzo. Ma il suo nome è scritto nella storia della corsa in montagna. Una disciplina dura, aspra come i sentieri che percorre, fatta di fatica, sacrificio e passione.

Ed è proprio lui, Alfonso di Ronconi (S. Anna d'Alfaedo), soprannominato per la sua forza "il camoscio della Lessinia", che vinse nel 1985 (San Vigilio di Marebbe) il primo Campionato mondiale di questa disciplina, bissando il successo nel 1986 (Morbegno, Sondrio) e cogliendo un leggendario tris nel 1988 (Keswick, Inghilterra), nell'epoca in cui la corsa in montagna era alla pari, come visibilità, con quello che ora è il seguitissimo sci da fondo.
La storia di Alfonso Vallicella è davvero una storia di montagna, è pregna di quello spirito di sacrificio che solo questa gente sa portare sulle spalle senza caricarsi di doti eroiche. «Cominciai a correre a quattordici, quindici anni partecipando a corse non competitive» racconta Alfonso dagli occhi penetranti, azzurri come il cielo. «Fu importante la passione che aveva mio padre nel vedermi correre. Era sufficiente mi allenassi perché sul suo volto apparisse un sorriso. Alla prima corsa mi iscrissi con mio fratello». Ma la prima gara fu una sconfitta: «arrivai indietro, volevo smettere ancora prima di cominciare». In quel caso, come capitò altre volte, le persone vicine lo convinsero che quella era la strada da  sguire, e così ci riprovò una, due volte fino a quando non vinse la gara competitiva al Passo delle Fittanze, tra gli occhi sbigottiti dei presenti: «Non ero nessuno. Quando mio fratello mi iscrisse disse a tutti che probabilmente avrei vinto. Gli organizzatori lo presero per matto, ma poi vennero a complimentarsi».

Era l'estate del 1975, e subito venne ingaggiato per correre, ma Alfonso correva per passione, non voleva abbandonare la sua montagna. «Il mio lavoro era l'allevatore, la corsa era il mio passatempo. La voglia di correre, di fare bene, era quello che mi teneva acceso, ma ero un solitario. Mi allenavo da solo e correvo solo, contro tutti».

Alfonso, ci fu una persona che all'inizio credette più d'ogni altra in lei?
Fu Sergio Pennacchioni. Era il direttore sportivo del Gruppo Amici del Carega, per cui correvo. Aveva una costanza nel seguirmi e una fiducia nelle mie capacità che più e più volte mi fecero desistere dal mollare tutto. Mi allenavo sempre da solo, lui veniva su a Ronconi al tramonto ad aspettare che finissi di lavorare per farmi allenare o per portarmi alle gare. Mi diceva «Non mollare ora Alfonso, un giorno, quando non avrai più la possibilità, ti verranno in mente questi giorni e ti dispiacerà di non averci provato». Ma io ero giovane, mi sembrava di avere in mano il mondo, e solo oggi posso riconoscere quanto avesse ragione. In pochi, in questi anni, hanno parlato di lui, ma fu un grande uomo, quasi un secondo padre per me.
Lei riuscì a vincere il Mondiale per tre volte, nel 1985, 1986 e 1988. Ma quale fu l'emozione di conquistare il primo oro della storia?
Quando partecipai al Mondiale nel 1985 per me fu un evento. Vincere fu quasi naturale, corsi come sapevo fare, con le forze che avevo. Non feci ritiri o diete speciali, ma mi allenai da solo per i monti della Lessinia per un mese fino al giorno della gara. Quando arrivai al PIan de Corones per primo ebbi un tuffo al cuore, tutto si fermò. Per un attimo mi sembrò di essere diventato qualcuno. Quando tornai a casa trovai bandiere e incontrando parenti e amici, compreso mio padre, sulla porta festanti, fu molto emozionante.

Corsa in montagna, forse la disciplina più faticosa al mondo. Ci sono stati dei momenti difficili?
Molti. Se non ci fosse stato chi credeva in me avrei smesso prima di iniziare. Nel 1987 persi il Mondiale in Svizzera perché accettai di andare in ritiro con la Nazionale prima della gara. Mi mancò casa, mi mancò la montagna di casa, e in gara mi piantai. Fu una delusione immensa perché ero il favorito venendo da due titoli consecutivi. Altrettanto cocente fu la sconfitta nella Fosse-Corno d’Aquilio valida per il Campionato italiano. Correvo in casa, la gente era là per me. Fallii clamorosamente. Avrei voluto nascondermi dalla vergogna.

Quali sono le sensazioni che si provano in queste gare?
È una disciplina che richiede grande sforzo fisico, ma anche mentale. Si raggiunge un livello di fatica così elevato che anche la nostra mente a volte si rifiuta di accettarlo. Si arrivava sempre in apnea, ma negli anni d’oro sarei stato disposto a morire pur di non mollare. I primi anni, infatti, non avevo paura di niente, più la gara era dura e più mi andava bene. Al Mondiale del 1985 salii da San Vigilio di Marebbe al Plan de Corones, circa 15km, in un’ora.

Lei era un solitario, diceva che raramente seguì diete o partecipò a ritiri. La corsa in montagna era espressione della sua particolare solitudine?
Assaporavo la liberà in quello che facevo. Impormi di fare questa o quella cosa sarebbe stato un controproducente per me. La corsa era un diversivo. Certo, se avessi gareggiato allora con la testa di adesso forse sarei andato oltre, avrei fatto ancora meglio. Avrei fatto l’atleta.

Cosa le è rimasto di quel periodo?
Corro ancora, non posso smettere perché è un po’ come se facesse parte del mio DNA. Ho passato degli anni bellissimi, porto con me tanti ricordi felici, e non posso dimenticare che ho conosciuto mia moglie Cristina grazie a questa disciplina. Anche lei atleta di questo sport.

Chiudiamo con un aneddoto, un ricordo simpatico che porta con sé..
Erano i Mondiali del 1986 a Sondrio. Mostacchetti, ex atleta della Forestale, mi vide in preparazione alla gara. Tutti seguivano la dieta della squadra e mi disse: «dove vai con quella pancetta?» ironizzando sulla mia dieta tutt’altro che atletica. Vinsi e diventai per la seconda volta Campione del Mondo, e Mostacchetti fu il primo a complimentarsi.

Fonte: srs di Matteo Scolari e Matteo Bellamolli; da Pantheon di giugno 2011

giovedì 22 settembre 2011

BOSCOCHIESANUOVA: LA CHIESA DI SANTA MARGHERITA

Bosco Chiesanuova: Chiesa di Santa Margherita (1375)

Altopiano della Lessinia. Piccolo rifugio di anime oranti e di viandanti di passaggio nella notte dei tempi. Nel buio dei secoli si perdono le scarse notizie di questo tempietto alla base dell’impennata collinare che porta a Bosco Chiesanuova, ma la storia di Santa Margherita corre di pari passo con quella del paese di Bosco, portando con sé tradizioni, fatti accaduti e leggende.

Con il centenario della Chiesa parrocchiale di Bosco Chiesanuova emergono accenni sulla vita della comunità locale, che ha vissuto il passaggio dal suo primitivo e angusto tempio a quello grande e maestoso che, si erge imponente in, appunto, Piazza della Chiesa. Occorre r tornare all’anno 1375, quando il vescovo Pietro della Scala eresse, sotto l’invocazione di S. Tommaso, la Chiesa Nuova nella Frizzolana, nucleo storico dell’attuale Bosco. Mentre Valdiporro era già diventato Comune, Bosco lo divenne quindici anni più tardi per concessione di Gian Galeazzo Visconti. Paradossalmente Frizzolana fu frazione di Valdiporro, mentre ora è Valdiporro ad essere frazione di Bosco.

Secondo un documento del 1433 possiamo riconoscere i nuclei abitati facenti parte del del “Vicariatus monteneorum teuthoricorum” (un primissimo antenato dell’attuale Comunità Montana, ndr).  Lo scenario era molto diverso da quello di oggi: troviamo Vellum (Velo Veronese), Roverendum Valli (Roverè Veronese), Vallis Porri (Val di Porro), Camposilvanus (Camposilvano), Azzerinus (Azzerino, ora frazione di Velo) e Frizzolana «cum sui pertinentiis» vale a dire con le contrade.

Le più antiche contrade della Frizzolana sorsero in prossimità di una sorgente d’acqua a in piccole valli al riparo delle intemperie. Proprio in località Laghetto, ancora oggi così nominata, venne costruita la Chiesetta di S. Margherita, della quale tuttavia mancano notizie complete.

Il noto studioso Anselmo Sauro, dai cui scritti attingiamo queste annotazioni, nel suo libro “Le origini della popolazione dei 13 comuni veronesi” (Bosco Chiesanuova, Ed. 1988) offre anche notizie sui sacerdoti che guidarono questa alpestre comunità cristiana, «i cui abitanti» scrive «conservarono la loro parlata tedesca e avevano bisogno di sacerdoti che conoscessero la loro lingua».

Dal 1375 al 1578 furono quindi fatti venire dall’Austria e dalla Germania diversi sacerdoti. Di qualcuno di questi si conosce anche il nome: Padre Cristoforo era di Ulm (Germania), mentre Paolo Appl era di Salisburgo (Austria). Successivamente i parroci di Chiesanuova furono tutti oriundi dei XIII comuni e poi dei comuni della Provincia di Verona, mano a mano che anche la «parlata tedesca» venne persa.

«In occasione delle celebrazioni del 1854 con la proclamazione del Dogma dell’Immacolata» documenta il Sauro «apparve evidente che il tempio di allora fosse incapace di  costruirne uno più ampio ed imponente, quello attuale».

Il crescente interesse per il culto non tardò a manifestatasi e svilupparsi sia nella nuova maestosa Chiesa, come anche nella Chiesetta di Santa Margherita, in tempi recenti sempre di più frequentata soprattutto nei mesi estivi e in altre occasioni di festa, con interventi anche di sacerdoti ospiti della Parrocchia. Il capitello ove poi avvenne l’erezione della piccola chiesa era a sua volta dedicato a Santa Margherita che fu, guarda caso, una delle Sante più amate dalle popolazioni tedesche.

Fonte: srs di Gino Franceschini, da Pantheon di luglio 2011



LA CHIESA DI SANTA MARGHERITA




La Chiesa di Santa Margherita. E' situata all'inizio del paese e risale probabilmente alla fine del XIV secolo; sembra che in essa possa riconoscersi la "Ecclesia Nova", concessa agli abitanti di Vallepurri, attuale Valdiporro, per consentire il distacco dalla parrocchia di Roverè, posta al di là del Vajo di Squaranto, che fino al ‘700 vantò il diritto di venire in processione a Santa Margherita per riscuotere un tributo. La festa di Santa Margherita si celebra ancora oggi il 20 luglio.
La chiesa è di fattura semplice con soffitto a capriate all'interno e un presbiterio a crociera sottolineato da nervature in "rosso ammonitico", pietra locale. Molto interessante l'altare, formato da un blocco unico di pietra scolpita in bassorilievo, con una croce con i bracci che si allargano in un fiore, motivo che si ritroverà per secoli nelle varie croci in pietra e ferro della Lessinia. Dietro l'altare c'è un quadro di Santa Margherita, Santa particolarmente venerata dai Cimbri. La campana di bronzo della chiesa è custodita all'interno del Museo Civico; su di essa c’è un'iscrizione in latino distribuita su due fasce: "Mentem sanctam spontaneam (obtulit) honorum Deo (dedit) et patriae liberationem (imperavit)" (offrì mente santa e spontanea, diede onore a Dio e ottenne la liberazione della patria). Il soggetto è Sant'Agata, martirizzata sotto l'imperatore Decio e diventata poi patrona dei campanari. Nella fascia inferiore sono presenti la data MCDXXV (1425) e dei motivi decorativi: i fiori di cardo, tipici dei lanaioli, l'agnello pasquale e il levriero simbolo di fedeltà. Tali motivi richiamano anche la principale attività praticata allora nell'alta Lessinia: la pastorizia e la produzione della lana.





mercoledì 21 settembre 2011

1867 - I DISORDINI DI GREZZANA: ABBASSO LE CANNE, E VIVA L’AUSTRIA



E L’OMBRELLO FU FATALE

Barba nera, brutto d’aspetto, dell’età di trent’anni: Giovanni Andrioli si trovava lì, in mezzo alla folla, alla confusione, alla rivolta. L’unica arma a disposizione: il proprio ombrello. Senza esitazione, il giovane afferrò l’oggetto dalla sommità e con un gesto fulmineo lo scagliò sul capo dell’uomo che gli stava di fronte, Antonio Bernardi.  Non un uomo qualunque,  ma il vice brigadiere delle guardie di Questura. Non un gesto isolato ed estemporaneo, quello di Giovanni, ma il gesto condiviso da un intero paese.

I DISORDINI DI GREZZANA

Questi i fatti secondo il resoconto del sindaco Zanella: “il 7 luglio del 1867 alle ore 5 e mezza post meridiane, mentre passava per Grezzana una carrozza con entrovi 3 impiegati di questura e un real Carabiniere vennero questi insultati da alcuni giovinastri, con il dir loro “abbasso le canne e viva l ’Austria”. Questi impiegati allora procedevano all ’arresto di 3 individui. Il popolo allora adiratosi maggiormente voleva a viva forza riprendere loro i detenuti, a tal punto che i suddetti impiegati dovettero trar fuori i loro revolver per fare allontanare la folla. (...) Dopo di ciò sopravvennero sul luogo vari altri carabinieri coi signori ufficiali e praticarono l’arresto di altre persone del paese sia complici che sospetti.”

Stando alla versione ufficiale, gli impiegati si sarebbero presentati in carrozza travestiti da signorotti, scatenando così l'ira di chi signore non lo era affatto. Solo una questione di fame e miseria, e di contadini maldestri? E' vero, Giovanni Andrioli di “Marzana, famiglio presso certo Luigi Salvagno detto Bigotta e mezzadro a Novaglie di Stelle, non godeva di una gran fama. La di lui condotta quando dimorava in questo comune non fu certo delle lodevoli, perché poco operoso, dedito al vagabondaggio, e scostumato.”
Ma quanti, di temperamento diverso dal suo, parteciparono alla sommossa, ispirati da un sentimento comune, intriso di delusione. «Del resto», affermò lo stesso sindaco di Grezzana, rivolgendosi al Tribunale Provinciale «i detenuti sono tutte persone oneste e d'animo tranquillo».
Feliciano Bellini e poi l'Adamoli, il Turrini, il Gonzato e il Marastoni, sono solo alcuni nomi dei 13 personaggi che alla fine furono incarcerati, perché considerati tra i più attivi e pericolosi nella sommossa. Addirittura qualche d'uno, come il mugnaio Giovanni Saletti, fu arrestato erroneamente.

Ancora una volta, dunque, Zanella si propose come difensore dei suoi compaesani.  Ma il suo comportamento, volto a presentare l'ammutinamento popolare come un fenomeno di poco conto, non passò tanto liscio. Egli, in fondo, come sottolineò senza indugio il questore, con un sottile tono accusatorio, «se non prese parte diretta alloro operato era però in posizione, ove l'avesse creduto opportuno, di poterlo conoscere».
Forse le autorità veronesi non avevano poi così torto a temere le reazioni contadine. Forse non si trattava di banali episodi e tanto meno di gente ignorante e ignara della grave responsabilità a cui andava incontro, come ebbe a dire il sindaco Zanella. In fondo, proprio quest'ultimo era consapevole della situazione delicata, tanto da non attardarsi a raccomandare vivamente alla popolazione la massima quiete e tranquillità onde non solo smentire le tracce di un paese reazionario ma anche per evitare ulteriori sinistre conseguenze.

L’ EROE DEL PAESE

Il sindaco fece di più: per eludere la gravità della rivolta, spostò l'attenzione sull'impresa di un personaggio in particolare, che in essa fu coinvolto. Tra i rivoltosi e gli uomini della legge, non mancò infatti l'eroe, il martire. Spettò a Remigio Rossi ricoprire questo ruolo.
Mentre la folla, nonostante la reazione armata degli agenti pubblici, non si dileguava, il segretario Remigio Rossi, che era accorso sul luogo del tafferuglio, per sedarlo rimaneva ferito di una palla di revolver, senza sapere di dove venisse.
Zanella credette per questo che il signor Rossi fosse meritevole di una ricompensa per una tale azione al valore civile, e domandò alla questura la conferma se «la di lui posizione abbia realmente contribuito ad impedire un male maggiore e se finalmente in questo fatto calamitoso egli abbia esposto la sua vita».  Né vincitori, né vinti, nella ricostruzione della memoria dell' abile sindaco di Grezzana.  
Quell' abbasso le canne e viva l'Austria, che scatenò il finimondo, fu allora solo una provocazione? O rispecchiava piuttosto un sentimento reale? I tre singoli episodi, quello di Lugo, di Azzago e di Grezzana, solo apparentemente scollegati tra loro, si potrebbero facilmente ricondurre a un carattere più generale di sostanziale apatia proprio delle campagne dell'Italia centro-settentrionale, scosse solo da «occasionali scoppi di  protesta, contro la tassa sul macinato o contro i rincari dei prezzi di prima necessità» (Banti). Eppure ci si potrebbe domandare se non si sia trattato di manifestazioni di un'idea condivisa dalla popolazione nei confronti dell'annessione al Regno d'Italia.

In  un fenomeno conflittuale quale fu il Risorgimento, in cui gli stessi soggetti promotori solo idealmente marciavano verso una meta comune, la formazione cioè di uno stato per la nazione italiana, è difficile discernere realtà e ideologia, che insieme si contendono il campo della memoria e dell'interpretazione storica.  Chiaro, a tale proposito, è il titolo di un saggio di Sergio Noto, riferito al Veneto post-unitario: "L'annessione all'Italia. Realtà e speranze". Ed è lecito pensare che proprio la speranza delusa dalla dura realtà abbia agitato gli animi della gente della Valpantena. Una valle, oltretutto, che come tante altre aree marginali sarebbe stata raggiunta con una certa difficoltà dal linguaggio nazionale.

Ma nonostante ciò e nonostante i dissensi all'interno delle stesse classi dirigenti, il discorso nazionale avrebbe proseguito il suo cammino, allargando il proprio spazio di azione e arricchendosi di simboli, di valori e di concetti, che di lì a poco avrebbero sostenuto nuove esperienze, dalle spedizioni militari extra-europee dell'Italia alla Grande Guerra, fino a raggiungere la sua massima efficacia in quello che sarà il Ventennio fascista.

Fonte:  srs di Giovanna Tondini, da Pantheon di luglio 2011.

martedì 20 settembre 2011

GRADASSATE O INSUREZZIONE POLITICA; LA VERA LOTTA DI LIBERAZIONE DEI CONTADINI DELLA VALPANTENA DOPO IL 1866


Prosegue il viaggio di Pantheon dentro ai protagonisti, le storie e le leggende dell’Unità d’Italia rilette con un occhio di attenzione per Grezzana di Verona, la Valpantena e la Lessinia.
La vera lotta di liberazione dei contadini dopo il 1866

Il 25 aprile del 1867 su un albero nei pressi delle chiesa locale di Azzago viene affisso un cartello. Su di esso è riportato un messaggio offensivo contro la Guardia Nazionale. Bernardo Birtele e Antonio Leso, accusati di essere gli autori responsabili, sono arrestati.
Il 20 giugno dello stesso anno, nel caffè di Giuseppe Tacchella a Lugo, Luigi Francesco Dal Corso è arrestato dai Carabinieri Reali per un motivo simile, con l’aggravante di avere oltraggiato con molteplici imprecazioni la «sacra persona del re».
Solo un mese più tardi a Grezzana i contadini si scontrano con la polizia. Questa volta non si trattava solo di parole, si era passati all’azione, alla rivolta vera e propria.

Tre episodi. Tre paesi della Valpantena.  Cosa avevano in comune oltre all’anno, il 1867?
A pochi mesi di distanza dalla tanto faticata annessione al Regno d’Italia, nel Veneto il clima di tensione non si era ancora placato.
Certamente il potere centrale provvide alla “nazionalizzazione delle masse”, costruendo strumenti educativi che fossero capillarmente diffusi, “insegnando la nazione a tutti”. Il potere comunicativo era forte ed efficace, e in grado di imporre il “discorso nazionale”. Ma il popolo si lasciò persuadere? Quanto e in quale maniera percepì il passaggio di governo?

Luigi Messedaglia scrisse che i contadini non presero par te alcuna al Risorgimento, e anzi parteggiarono per l’Austria, che cercava di favorirli avvilendo i signori, ciò che è tipico dei governi dispotici.
Nelle campagne viveva un volgo senza nome e senza ideali, e il 1866 non avrebbe segnato una svolta, almeno secondo don Stegagnini.
Eppure si deve constatare che, se il Risorgimento non visse a Verona pagine di grande partecipazione popolare, comunque dopo l’annessione fu espresso pieno consenso al nuovo regno, come è testimoniato dal plebiscito, che vide solo 50 voti contrari a fronte di quasi 89mila favorevoli. Forse si sperava in un cambiamento vero, questa volta.
Un detto popolare che allora circolava rivela efficacemente il clima dei decenni in cui la vita veronese era stata condizionata dai “francesi assassini” e dai “tedeschi lurchi”.
«E’ andà via el re de denari e è vegnù quel de bastoni!» Così si diceva. E ora, si sarebbe avuto semplicemente un nuovo re? E di quale segno? Quale futuro avrebbe riservato la nuova dominazione italiana?

“IL RE DEI ME COGLIONI”

Già nel febbraio del 1867 a Verona si era verificata una manifestazione di protesta durante la processione del Corpus Domini. E proprio mentre si discorreva su tale evento, tra i muri del Caffé Tacchella, il signor Dal Corso, detto Bagatella, era sbottato esclamando per ben tre volte «Il nostro re è il re dei miei coglioni!». Ma si trattava di un personaggio veramente pericoloso? Seppur uomo «af fatto incensurato», secondo Zanella, sindaco di Grezzana, Dal Corso non avrebbe offeso nessuno, ma si sarebbe solo lamentato dell’inerzia delle Guardie Nazionali, che non furono in grado di impedire i disordini a Verona. Lo stesso poteva dirsi per gli altri accusati di Azzago. «La dimostrazione sunnominata può qualificarsi unicamente una gradassata, anziché un’insurrezione politica contro l’attuale governo, come tale è ritenuto in questo paese e comuni limitrofi (...). Ed è a credersi che, ignoranti come sono, non abbiano inteso di offendere il governo e la Guardia Nazionale, se non forse per beffarsi di alcuni loro compaesani che erano stati proposti come graduati nella Guardia stessa». E ancora assicura il sindaco, rivolgendosi al Tribunale Reale di Verona, che Antonio Brunelli e Giovanni Ederle, coinvolti anch’essi nel processo, sebbene «di temperamento bisbetico e poco operosi, hanno fondamenti politici che quantunque ignoranti sono affatto contrari all’attuale ordine di cose». E non solo loro.

LA POSIZIONE DELLA CHIESA

Anche il partito clericale sarebbe stato «del tutto estraneo in questo affare». «Tanto più che il parroco sebbene sia stato favorito dal cessato governo austriaco di un sussidio per l’erezione della chiesa, non lo ritengo però contrario all’attuale governo e favorevole a simili dimostrazioni».
Come hanno messo in luce gli storici, a cominciare dal vescovo, la paura delle ritorsioni che potevano sorgere contro i filoaustriaci o chi ancora manifestava questa sua inclinazione, fece sì che il clero alla fine accettasse, almeno formalmente e pubblicamente, la nuova dominazione italiana.  All’interno del clero, però, c’era anche chi si era schierato apertamente a favore della causa italiana. Addirittura Radetzky aveva vietato ai soldati austriaci di confessarsi dai preti veronesi, perché ritenuti filo-italiani. Quale movente avrebbe allora spinto questa gente di campagna alla protesta?

Al di là dell’atteggiamento estremamente diplomatico del sindaco Zanella, nelle sue parole si nasconde anche la vera chiave per comprendere il sentimento che accomunava gli episodi di Azzago e di Lugo. «I loro mezzi», affermò infatti Zanella, «sono insufficienti a sostenere le spese processuali e alimentari nel caso di condanna (...), perché tutti mezzadri o piccoli possidenti».
Si trattava di persone che, nonostante i rivolgimenti ai vertici politici, non sperimentarono alcun cambiamento. Esse avrebbero espresso un malcontento anzitutto nei confronti di quei signori che, prima e dopo l’Unità d’Italia, continuarono a esercitare il loro potere coercitivo.
Ed è proprio la rivolta di Grezzana a confermarlo. Come vedremo sul prossimo numero, nessuna bandiera, nessuna nazionalità, nessuna lingua avrebbe contraddistinto i rivali contro cui si scagliarono i paesani. Essi apparivano semplicemente signori. E contro i signori si voleva lottare per la vera liberazione, per la difesa della propria dignità.

I PROCESSI DI AZZAGO E LUGO

Gli episodi citati nel presente articolo sono testimoniati da alcune carte conservate in Archivio di Grezzana e riportate in luce grazie al paziente lavoro di Fernando Zanini.
Si tratta di una corrispondenza avvenuta tra l’allora sindaco di Grezzana, Zanella (sotto la cui autorità erano anche Lugo e Azzago, ndr) e il Tribunale Reale di Verona, nel corso dell’anno 1867.
Nel processo di Azzago furono accusati anche altri giovani, di «buona fama e condotta»: Ederle Paolo e Giovanni,  Piero Angelo, Anganetti Domenico, Zanini Gaetano, Fusina Sante, Carcereri Giacomo.
Nel processo di Lugo i testimoni accusatori furono Stefanoni Felice, di Bosco, e Tacchella Antonio, oltre ad altri testimoni, tutti di Lugo: Zanini Giuseppe, Tacchella Santo, Tacchella Giacomo, Zanini Angelo. Purtroppo, le fonti sopravvissute non ci permettono di ripercorrere la storia completa di questi personaggi, il cui destino rimane a noi sconosciuto.

Fonte: srs di Giovanna Tondini, da Pantheon di giugno 2011


lunedì 19 settembre 2011

LA MAGIA CHE STREGÒ IL PROF. FRANCESCO TAGLIENTE

Lo scavo al Riparo  Tagliente in una  foto del 1995

Archeologo prima per passione che per studi, Francesco Tagliente fu lo scopritore dell'oggi celebre sito di Stallavena. Affrontò lo scetticismo e l'iniziale chiusura degli esperti, in un'avventura che sa il sapore della passione, dell'amore per la scoperta e dello studio delle nostre origini.

Tre anni fa usciva di scena, con discrezione come gli piaceva fare quando non indossava i panni del docente il professor Francesco Tagliente, lo scopritore del Riparo di Stallavena. "Checchino" era stato fra i primi in Italia ad iscriversi a una facoltà universitaria dopo il pensionamento, per seguire un corso regolare di studi archeologici.  Si era laureato brillantemente discutendo una tesi di paletnologia (è la scienza che studia la cultura delle civiltà umane preistoriche e protostoriche attraverso l'analisi dei reperti materiali, ndr) proprio sulla sua esperienza con il riparo sotto roccia di Stallavena.
La sua scoperta si è rivelata di una straordinaria ricchezza anche sotto il profilo della storia dell'arte, poiché il giovane inumato che gli scavi hanno portato alla luce era stato onorato dal suo clan con la deposizione, a contatto con i femori, dei suoi graffiti: una leonessa, un bisonte e uno stambecco, giudicato il capolavoro dell'arte mobiliare paleolitica mediterranea.
Quegli animali, magistralmente delineati dodicimila anni fa dal cacciatore artista di Stallavena, nel periodo interglaciale avevano alimentato le famiglie dei primi abitatori della Valpantena, come dimostrano le ossa, anche parzialmente combuste, recuperate nel Riparo Tagliente: bovide, cervide, camoscio e capriolo, alce, marmotta, orso e cinghiale.

Il professor Tagliente mi parlava di una forza misteriosa che lo aveva spinto, nella primavera del 1958, verso la base di quella parete oggi nascosta alla vista dagli edifici industriali.  Il sito, abitazione e officina per generazioni di cacciatori e di artigiani, aveva conservato nella propria sacralità un che di magico, fino a trasmettere un irresistibile messaggio telepatico allo studioso che lo avrebbe rivelato alla scienza.
«Ogni volta che percorrevo in macchina la strada della Valpantena» mi diceva «sia all'andata che al ritorno, una inspiegabile attrazione, come una forza misteriosa, mi induceva a fermare l'auto per qualche istante, in quel punto. Non rispondevo a chi viaggiava con me, chiedendomi il motivo dell'improvvisa fermata: ero ammaliato da quello strapiombo scuro di roccia calcarea, contornato dalla fitta vegetazione, e riprendevo il viaggio ripromettendomi di fermarmi la volta successiva, per raggiungere a piedi la base della parete. Quando mi decisi a farlo, mi resi conto subito di aver messo i piedi in una stazione preistorica, che era sfuggita a tutti gli studiosi. Arrivato al riparo sottoroccia» continuava «fui colpito dall'abbondanza di materiale litico in superficie, sparso uniformemente e frammisto ad ossa fossilizzate. Portai i manufatti, con un campione di terreno, al prof. Francesco Zorzi del Museo di Storia Naturale. Sulle prime si mostrò scettico, preferendo pensare a scarti della produzione di acciarini, abbondanti in Lessinia nel Settecento».

Tagliente obiettò che una datazione molto più antica andava desunta dalla presenza di ossa quasi pietrificate e dalla totale assenza di elementi in ceramica. Zorzi consigliò di analizzare le pareti e l'ingresso della grotta, e Tagliente non  si fece ripetere il suggerimento tornando più volte al riparo, raccogliendo selci e ossa, e facendo anche un piccolo scavo vicino all'ingresso, fino a che trovò della terra nera, attestante un'antica attività dell'uomo.

Sarebbero passati quattro anni prima che il direttore del Museo Civico, davanti a quel pugno di terra nera, diventasse improvvisamente pensieroso. Il professor Zorzi chiamò subito Franco Mezzena, il suo giovane collaboratore per la preistoria, e si fece accompagnare a Stallavena.
«Erano le undici del mattino del 2 febbraio 1962» ricorda Tagliente «nell'interno del riparo rimasi zitto, mentre il Zorzi, con una lampada ad acetilene, esaminava attentamente il terreno, le pareti, e raccoglieva selci e ossa. Mezzena scattava continuamente fotografie con le lampade al magnesio. Tornati al museo, il professore, che era sempre stato zitto, cominciò a parlare. Era entusiasta, e nell'atto di riporre il materiale raccolto dentro un contenitore scrisse sull'etichetta "Riparo Tagliente".
Sapevo che aveva dato il nome di "Riparo Mezzena" ad un ritrovamento del suo discepolo, e conscio di non essere all'altezza di questo per preparazione, suggerii di adottare il nome della località “Còalo delle Tessare”, ma Zorzi insistette e dovetti accettare il lusinghiero riconoscimento. Si succedettero negli anni gli scavi scientifici, coordinati dal professor Broglio dell'Università di Ferrara, con la collaborazione del museo di Verona.

Con il procedere delle ricerche, il Riparo Tagliente si andava rivelando la più antica testimonianza del lavoro dell'uomo, fornendo indicazioni preziose anche sull'ambiente e la fauna in età lontane. Vennero alla luce alcuni focolari, e poi le opere d'arte, con lo scheletro di un giovane sepolto in posizione supina, al quale l'antropologo Cleto Corrain ha attribuito un'età di 24 anni». Per il professor Corrain la sepoltura era attribuibile ad una fase avanzata dell'epigravettiano medio.

Secondo lui si trattava della prima sepoltura paleolitica trovata nella Valle padana. Il corpo del giovane cacciatore era stato ricoperto di pietre, due delle quali recavano delle incisioni. Erano le più grandi di tutto il complesso ed erano state posate intenzionalmente con i graffiti a contatto con i femori. Il corredo funebre comprendeva un corno di bisonte ed una conchiglia forata. La piccola galleria d'arte del Riparo era formata da un mezzo ciottolo con la figura di stambecco, l'intera sagoma di una leonessa ed un bisonte. Le figure erano state incise dodicimila anni fa.

FRANCESCO TAGLIENTE

Francesco Tagliente ad El Alamein

Il prof. Tagliente era animato da uno sviscerato amor di patria. Nel 1992, per il 50° anniversario della battaglia del deserto, volle partecipare al pellegrinaggio veronese a El Alamein. Nella foto, davanti al mausoleo, regge e accarezza il labaro dei decorati al valor militare. Accanto a lui il col. Pilota Vittorio Organo, pluridecorato al valore in Africa Settentrionale, presidente dei decorati veronesi. Il dottor Organo, nella vita civile, è stato per decenni titolare della farmacia di Poiana.


Fonte: srs di Gianni Cantù; da Pantheon di  maggio 2011-09-17

sabato 17 settembre 2011

MONTORIO VERONESE: FANTASIE E LEGGENDE DI UN CASTELLO

Il castello di Montorio Veronese

Montorio non è solo realtà, ma anche leggenda. Così l'hanno riscoperta Luigi e Gabriele Alloro, grazie a un minuzioso lavoro di ricerca.  Il castello che sovrasta il paese della Val Squaranto ha stimolato, infatti, le fantasie popolari e quelle di illustri autori del passato.

Tra i muri del castello si sarebbero consumate vendette, come anche profonde storie d'amore.
Si narra, infatti, di una lite sorta tra il Castellano e un castaldo, al quale voleva sottrarre la sua bella. Raggiunto lo scopo e presa in moglie la giovane fanciulla, il Castellano fu però vittima del sentimento vendicativo del castaldo. Nelle sembianze di un fantasma questi raggiunse il castello e durante un banchetto riconquistò il cuore della giovane, sottraendola alle bramosie del suo rivale.

Il castello avrebbe poi ospitato i corpi inerti dei giovani amanti Florio e Biancofiore, protagonisti del romanzo “Filocolo” del Boccaccio.
Con queste parole li ricorda Domenico Bordigallo: «Cinta da ogni parte da monti si eleva la rocca di Montorio e la sua valle amena verdeggia di frutti. Florio arse d'amore per Biancofiore: essi giacciono lì e in un'arca si trovano le ossa di questi due illustri personaggio».

E chissà quante altre storie conserva ancora il nostro castello. Storie svoltesi tra le gallerie sotterranee, che giungerebbero fino all'Arena, come via di fuga in caso di assedio. E chissà se esiste ancora, nascosto, quel libro magico che attraverso le sue formule esaudirebbe tutte le richieste di chi ne entra in possesso.

Fonte: da  Pantheon di  maggio 2011 


venerdì 16 settembre 2011

LA STORIA DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO INIZIA NEL 1861, CON L’UNITÀ D’ITALIA


Giornali e televisioni ogni tanto ci dicono che il popolo italiano ha un mostruoso debito pubblico, ma nessuno ci dice verso chi siamo debitori. Apparentemente la cosa non è semplice da spiegare, in effetti la spiegazione è semplicissima. Per farla capire dobbiamo tuttavia rifarci al 1861. L'anno dell'unità d'Italia.

Nel 1849 si costituiva in Piemonte la Banca Nazionale degli Stati Sardi, di proprietà privata. L'interessato Cavour che aveva infatti propri interessi in quella banca; impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituzione compiti di tesoreria dello Stato.  Si ebbe, quindi, una banca privata che emetteva e gestiva denaro dello Stato!

A quei tempi l'emissione di carta moneta veniva fatta solo dal Piemonte, al contrario il Banco delle Due Sicilie emetteva monete d'oro e d'argento.
La carta moneta del Piemonte aveva anch'essa una riserva d'oro (circa 20 milioni), ma il rapporto era che ogni tre lire di carta valevano una lira d'oro.
Il fatto è che, per le continue guerre che i savoiardi facevano, quel simulacro di convertibilità in oro andò a farsi benedire, sicché ancor prima del 1861 la carta moneta piemontese era diventata carta straccia per l'emissione incontrollata che se ne fece.
(Ci meravigliamo poi che gli Usa, abbiano fatto la stessa cosa, quando il 15 agosto del 1971, Nixon annunciò a Camp David la decisione di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, e l'abrogazione unilaterale degli accordi di Bretton Woods "svincolando" il dollaro dal cambio con l'oro.)

Avvenuta la conquista di tutta la penisola, i piemontesi misero le mani nelle banche degli Stati appena conquistati. Naturalmente la Banca Nazionale degli Stati Sardi divenne, dopo qualche tempo, la Banca d'Italia.

Avvenuta l'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d'oro per trasformarle in carta moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo i Banchi (del bistrattato Sud) avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e così facendo sarebbero potuti diventare padroni di tutto il mercato finanziario italiano. Invece quell'oro piano piano passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia, nonostante tutto quell'oro rastrellato al Sud, la nuova Banca d'Italia risultò non avere parte di quell'oro nella sua riserva. Evidentemente aveva preso altre vie, che erano quelle del finanziamento per la costituzione di imprese al nord operato da banche, subito costituite per l'occasione, che erano socie (!) della Banca d'Italia: Credito mobiliare di Torino, Banco Sconto e Sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.

Le ruberie operate e l'emissione non controllata della carta moneta ebbero come conseguenza che ne fu decretato già dal 1 MAGGIO 1866, il corso forzoso, cioè la lira carta non poté più essere cambiata in oro.
Da qui incominciò a nascere il Debito Pubblico: lo Stato cioè per finanziarsi iniziò a chiedere carta moneta a una banca privata.
Lo Stato, quindi, a causa del genio di Cavour e soci, ha ceduto da allora la sua sovranità in campo monetario affidandola a dei privati, che non ne hanno alcun titolo.
 ( La sovranità per sua natura non è cedibile perché è del popolo e dello Stato che lo rappresenta ).

Alla prossima per altri segreti


Fonte: da FAI NOTIZIA Giornalismo partecipato.