giovedì 31 dicembre 2009

BUON FINE ANNO 2009




La poesia della Bandiera





Sono la terra, i monti, i mari, il cielo e tutte le bellezze
della natura che ci circondano,
l’aria che respiri
il sangue di chi è caduto nell’adempimento di un dovere o nel
raggiungimento di un  ideale,
per permetterti di vivere libero,
la zolla che copre i tuoi Morti,
la Fede, l’amore, il vibrante entusiasmo dei tuoi avi,
la fatica, l’affanno, la gioia di chi studia e di chi
produce con la mente e col braccio,
il dolore, il sudore e la struggente nostalgia degli
emigranti,
la tua famiglia, la tua casa ed i tuoi affetti più cari,
la speranza, la vita dei tuoi figli
SONO LA TUA BANDIERA, L’ITALIA, LA TUA PATRIA
Ricordati di me, onorami, rispettami e difendimi
Ricordati che al di sopra di ogni ideologia mi avrai sempre
unico simbolo di concordia e di fratellanza, tra gli Italiani
Ricordati che finché apparirò libera nelle tue strade tu sarai libero
Fammi sventolare alle tue finestre, mostra a tutti che tu sei ITALIANO.

mercoledì 30 dicembre 2009

Corte Lepia. E profanate le Chiese, scoperchiate le tombe, defecheranno sulle ossa della vostra memoria



E questo è quanto sta avvenendo  nei resti di quello che fu l’antico monastero benedettino  della Lepia, il complesso conventuale più antico dell’area veronese sorto nel 1170  XII sec, all’interno del quale si trova la chiesetta romanica dedicata a San Giuliano.


Vago di Lavagno di Verona: Monastero Benedettino  della Lepia e chiesetta romanica dia San Giuliano. Testimone poco conosciuta di una realtà rurale e religiosa di tempi passati, oggi la chiesa di San Giuliano si presenta in stato d’assoluto  degrado ed abbandono.


Povera mediocre  classe politica italiana, annegata nelle ideologie e succube  di potentati  culturali ed  economici, incapace  di gestire il futuro e di proteggere il  proprio passato, che vive, nella sua decadenza culturale, un vacuo  presente, faro spento di dimenticate glorie,  autorizzi a bramosi e  assettati imprenditori - che lavorano solo per i soldi e non per vivere - che la Leppia  sia inserita e parte di un piano di lottizzazione commerciale-direzionale-artigianale che ha permesso di costruire degli edifici architettonicamente incompatibili con  tutto il  contesto circostante e lasciando i manufatti al degrado e all’abbandono  come ultimo rifugio  migranti nord africani che profanata la chiesa, divelte le lapide, ne hanno trasformate le tombe in lugubri latrine.

Le tombe delle suore benedettine  trasformate in latrine




Italiano,  i giorni di gloria sono finiti e l'Italia si appresta a diventare povera  e vecchia  (New York Times)

(VR 30 dicembre 2009)

LAVAGNO DI VERONA: Corte LEPIA, il saccheggio continua




La strada costruita vicino all’antico complesso monastico di Lepia

LAVAGNO. Era un angolo incantato. Ora una strada sfreccia accanto al monumento, proprio lì è stato fatto l’ennesimo centro commerciale e i muri medievali crollano

Disprezzo della storia e vergogna della propria memoria. Non ci sono altre spiegazioni per quello che sta succedendo nel complesso monastico medioevale di San Giuliano di LEPIA, poligono di addestramento per vandali.

Il complesso formato dall’antico convento e dalla fattoria che nei secoli si è costruita attorno al nucleo originario è da anni in abbandono.
Mentre si discute del suo recupero e si fanno scavi per sondaggi archeologici in vista degli interventi futuri, dentro il cuore della LEPIA, nel monastero e nella chiesetta con affreschi anteriori al 1200, distruzione e degrado.


Proprio in occasione dell’ultimo intervento della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici, mirato a dei sondaggi archeologici, era stato aperto un pertugio per un sopralluogo all’interno della chiesetta.  Da quella parte sono venute le ultime e più gravi devastazioni, con vandalismi che non hanno altra spiegazione se non il disprezzo.


Così è ridotto l’altare della chiesa, spogliato di tutti i marmi

L’altare maggiore è stato preso di mira con la rottura di diversi inserti marmorei e la frantumazione della pietra che chiudeva il lato a vista. La pesante pietra è stata scalzata dalla sua sede e frantumata sui gradini dell’altare. Stessa sorte è toccata alla pietra della mensa.

Il vandalismo ha messo in luce l’unica cosa di valore che l’altare nascondeva: un grosso parallelepipedo in marmo bianco, che è probabilmente il basamento di una colonna romana.
Infatti allungando la mano nella fessura fra la mensa rotta dell’altare e la base superiore della misteriosa pietra bianca si percepiscono ancora le cavità dentro le quali erano probabilmente sistemati gli ancoraggi per il blocco di marmo sovrastante della colonna o del pilastro.



Primo piano dell’altare spogliato: al centro si nota una pietra bianca, probabilmente di origine romana

Quello di sistemare sotto gli altare delle chiese cristiane pietre con o senza iscrizioni latine era un particolarità delle costruzioni altomedioevali, documentata sotto l’altare della chiesa di Santa Giustina a Illasi, a pochi chilometri dalla LEPIA.  Anche questa era chiesetta di un complesso monastico dove pare sia stata priora Francesca, figlia di Cangrande della Scala.
In un intervento di restauro del secolo scorso fu rinvenuto sotto l’altare una pietra con iscrizioni dedicate agli imperatori Massimino e Costantino.
Il martirio di santa Giustina avvenne infatti mentre regnava Massimino e collocare la pietra con il suo nome sotto l’altare dedicato alla vergine martirizzata era un segno tangibile del trionfo del bene sul male.


Sul lato visibile la pietra di LEPIA non porta iscrizioni, ma nulla impedisce che ci siano sui lato rivolto verso l’abside o sulle pareti non visibili.
Il peso del reperto ha impedito che fosse trafugato e la sua scoperta casuale, grazie a una visita agli scavi della Soprintendenza da parte di Aldo Masconale, appassionato di arte e archeologia, ha impedito che ci fossero ulteriori devastazioni e furti.


Il chiostro dell’ex complesso monastico, oggi in stato di abbandono e soggetto a vandalismi

«Ho avvisato il Comune di Lavagno e l’assessore Walter Facchini ha fatto murare l’accesso alla chiesa», racconta Masconale.  Nel frattempo erano già state sfondate le due grandi pietre sepolcrali che si trovavano al centro della navata, mentre in precedenza c’erano stati il furto del pozzo al centro del chiostro e delle due campane dalla torre.

Per ora si sono salvate tracce di affreschi altomedioevali nell’abside e sulla facciata: a quelli penseranno probabilmente le intemperie e le infiltrazioni di umidità a dare il colpo di spugna definitivo.



Il colonnato 

La caccia al reperto non ha risparmiato neanche tre gradini di pietra levati da una scala che sale al piano superiore della casa colonica.  Nella vicina grande stalla, tutte le colonne in pietra, eccetto una, che sorreggevano le grandi travi del soffitto sono state rubate. Una, caduta ai ladri e spezzatasi, è rimasta sul pavimento, mentre ne mancano al conteggio almeno una decina. Il soffitto è puntellato con tubi in ferro e pali di fortuna.


La Soprintendenza ha fatto i suoi sondaggi archeologici, ma non ha dato il buon esempio: ci sono scavi aperti da mesi e lasciati in totale abbandono e incuria.
Affiorano ossa umane — tibie, femori e calotte di crani — cocci di vasellame, chiodi arrugginiti di vecchie casse in legno sfasciate, testimonianze di un cimitero attorno al complesso monastico che meriterebbe quanto meno il rispetto umano, visto che quello archeologico non sembra interessare.
In attesa del grande intervento di recupero per fare della memoria che resta case e uffici, perfino un ristorante, si accendono le vicine luci della zona artigianale e commerciale: nuovi mercanti a due passi dal tempio della storia.

Fonte: srs di Vittorio Zambaldo da  L’Arena di Verona di mercoledì 03 settembre 2008;  provincia pag. 23


Corte Lepia: Alle ortiche secoli d’arte


Campanile e abside della chiesa, con parte degli edifici dell’ex monastero, da anni abbandonato al degrado

Gli edifici storici ora in rovina derivano da un insediamento dell’anno 996: fino alla soppressione da parte della Serenissima, fu un monastero molto importante

LEPIA di recente è stata anche teatro di un’operazione di polizia contro lo spaccio di stupefacenti.  Complice l’apertura dell’accesso a nord, senza portone, nelle cantine, negli essiccatoi e nei depositi agricoli si trovavano giacigli di fortuna, auto, televisori e materiale di ogni genere. Anche i writers hanno trovato il modo di esprimersi pitturando le pareti degli edifici.


Il primo insediamento in località LEPIA risale a prima dell’anno Mille: il primo documento scritto, datato 996, si riferisce a una sentenza imperiale su questo appezzamento di proprietà della nobile famiglia Avogadro.
Nel 1176 un Avogadro concesse chiesa e terreno a due sorelle di nome Gemma e Realda.
Queste si votarono alla regola di San Benedetto, costituendo un monastero di clausura, mettendosi sotto la diretta protezione del papa. Il 2 novembre 1186 papa Urbano III venne a consacrare la chiesa di San Giuliano.
Nel 1411 papa Eugenio IV soppresse il convento.

La regola dettata da Gemma e Realda prescriveva oltre ai tre voti perpetui (castità, obbedienza e povertà) anche quello di obbedienza al papa.  Una scelta che verrà ripresa successivamente dalla Compagnia di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola.  Quest’ultimo voto venne osservato con fedeltà, ma furono gli altri a venir meno, come quello della povertà e soprattutto della castità.

Nel 1391 si aprì una vertenza tra le suore papiste e il vescovo di Verona, monsignor Giacomo Rossi, che sfociò in un processo ecclesiastico sulla loro condotta morale.
 Furono raccolte varie testimonianze su situazioni di promiscuità tra le monache e i contadini che conducevano i loro fondi, una situazione che creò non poco scompiglio tra i fedeli del posto.
Raccolte le prove, il vescovo si rivolse a papa Eugenio IV, che decretò la chiusura del convento e la soppressione dell’ordine femminile.  Le undici suore superstiti lasciarono il convento e vennero invitate a ritirarsi in quello di Santa Giustina a Padova.


Tuttavia alcune di loro nel 1447 fecero ritorno a LEPIA in barba alle disposizioni del pontefice e riaprirono il convento sotto l’egida di quello di Santa Giustina prima e di quello di San Nazzaro e Celso poi.
Le suore tornate numerose e osservanti vennero premiate da papa Innocenzo X che il 23 aprile 1646 concedette l’indulgenza plenaria alla chiesa di San Giuliano.  La chiusura definitiva giunse con il decreto di soppressione della Repubblica di Venezia nel 1771.  (Z.N)


Fonte: srs di Zeno Martini da  L’Arena di Verona di mercoledì 03 settembre 2008 provincia pag. 23


(VR 30 dicembre 2009)

Vago di Lavano. Appello per Corte Lepia: Fermate la distruzione



Il Complesso Monastico di Corte Lepia

Il monastero di Lepia, un tesoro  artistico abbandonato al degrado. L’antico complesso è ormai circondato da strade e capannoni e rischia di sparire.  Allarme anche per il Colle di San Giacomo.

Fermate la distruzione di Corte Lepia, ricca di cultura e storia; fermate lo stravolgimento del territorio attorno al colle di San Giacomo dove don Luigi Verzè intende realizzare il proprio ospedale». Ancora una volta l’Archeoclub d’Italia, sezione di Legnago, lancia il proprio grido di allarme a tutela del «territorio del Comune di Lavagno in generale e della Corte Lepia in particolare».
Il monastero di Lepia, fondato nel 1176, si trova infatti inserito in una zona destinata a «essere trasformata da agraria ad artigiano-industriale-commerciale». Una sorte quasi simile rischiano di subire anche i dintorni del colle di San Giacomo per il futuro ospedale San Raffaele, «con irreparabile perdita di un irrepetibile paesaggio di natura e di arte». Cosa veramente don Verzè intenda realizzare vicino al colle di San Giacomo molti cittadini non l’hanno ancora capito. Ma tutti sanno che i dintorni del colle su cui è edificata la «basilica incompiuta» di San Giacomo non saranno più come sono oggi.
Un grido preoccupato, quello dell’Archeoclub, per i guasti che, a scadenza ravvicinata, si potrebbero verificare. Proprio per questo Luisa Bellussi, presidente della sezione dell’Archeoclub, ha inviato una nuova lettera al sindaco di Lavagno, a Legambiente, alla Soprintendenza ai beni ambientali e culturali di Verona, alla Soprintendenza ai beni culturali e architettonici di Venezia e al ministero per i beni culturali con lo scopo di richiamare la loro attenzione sul pericolo che importanti testimonianze della nostra storia passata vengano distrutte per sempre.
«Quando ancora», scrive, «si realizzava la sistemazione della strada Porcilana, di origine romana, ritenuta ormai inadeguata anche per il traffico locale, già allora si prefigurava quale poteva essere il destino del territorio adiacente: quello di essere trasformato in appetibile area artigiano-industriale-commerciale».
Corte Lepia di Vago si affaccia proprio sulla strada Porcilaia, che era, fino al suo allargamento, la via d’accesso al convento. Ora, invece, un guard-rail privo di interruzioni, corre appena al di fuori del portone della corte tanto che, per poter entrare nell’ex convento, occorre inoltrarsi nella nuova zona industriale su cui è sorto anche «Casamercato», il megastore della casa inaugurato l’estate scorsa.
«Allora», continua la lettera dell’Archeoclub, «facevamo osservare che Corte Lepia era un insediamento di antica origine, testimonianza di importanti avvenimenti storici, tuttora ricco di significativi elementi e, perciò, meritevole di essere tutelato nel suo complesso di corte rustica e dell’ambiente agrario in cui era insediato». Purtroppo, però, la situazione va sempre più deteriorandosi.
Eppure Corte Lepia con tutta la zona vicina è ricca di importanti testimonianze storiche e culturali. In particolare si possono ricordare il sito preistorico denominato «Castellar di Lepia», ancora da indagare adeguatamente, e la villa dei conti Da Lisca con il parco ricco d’acque e di piante secolari. Poco più avanti, fuori dal Comune di Lavagno, ma sempre lungo la Porcilana, si trova anche un altro gioiello dell’arte romanica veronese da poco restaurato: la chiesa della Madonna della Stra’.«Il nostro precedente intervento», ricorda con profonda amarezza Bellussi, «è rimasto senza risposta. La Porcilana è stata allargata; il traffico dell'ex statale 11 in buona parte è stato dirottato su di essa. Ed ora del tutto, per i lavori al ponte delle Asse».
L’Archeoclub dà voce a una sensazione condivisa da molti abitanti di Lavagno e da quanti amano il suo territorio. «Quel che è peggio», si legge nella lettera, «è che, a lato della Porcilana, il Comune di Lavagno ha lasciato edificare mostruose costruzioni... e altre ne sorgeranno sicuramente nei terreni adiacenti in cui già sono state realizzate le infrastrutture. Frattanto, però, nessuno ha pensato a Corte Lepia, in attesa che vandalismi e crolli la facciano sparire del tutto». O possano servire da copertura per far approvare un progetto che la stravolga.
A questo punto l’Archeoclub evidenzia l’altro interevento urbanistico che potrebbe deturpare una delle più interessanti porzioni del territorio di Lavagno: la collina di San Giacomo, «minacciata dal mega ospedale» di don Verzè. «Eppure», propone Bellussi, «sarebbe ancora possibile alla Soprintendenza vincolare l’immobile e il terreno libero che sta attorno a Lepia e all’Amministrazione comunale acquisirne la proprietà, per curarne il restauro».

Fonte: srs di di Giuseppe Corrà, da L’Arena di Verona di Venerdì 28 dicembre 2007; provincia pag. 24


Il fronte della protesta:  L’obiettivo? «Degrado e poi la demolizione»


Il degrado

Oltre all’Archeoclub, anche Legambiente è preoccupata e sensibile verso le sorti di Corte Lepia. Per questo ha inserito l’antico monastero nella dodicesima campagna itinerante nazionale «Salvalarte», che punta a sensibilizzare al recupero delle testimonianze del passato segnalandole nella guida «Gioielli ritrovati».
Con la voce preoccupata delle due associazioni concorda anche lo storico Guerrino Maccagnan di Veronella nella sua lettera indirizzata al nostro giornale. Anche lui vuole alzare la propria voce contro lo «scandaloso scempio che si sta verificando lungo la via Porcilana». Per l’ex convento di San Giuliano di Lepia, precisa lo storico, la tecnica per arrivare alla sua demolizione è semplice: «Attendere che il complesso precipiti sempre più nel degrado, lasciandolo ai ladri, ai senzatetto ed ai drogati». Poi arriverà il colpo finale. «In nome di un progresso inarrestabile e per il pericolo di crolli o di ricoveri di clandestini o sbandati», scrive Maccagnan, «si dà il via libera alle ruspe. E magari con il beneplacito degli amministratori, che riusciranno ad ottenere il nulla osta della Soprintendenza». (G.C.)


I monastero di Lepia, un gioiello  fondato nel 1176


La Corte Lepia

Il monastero di Lepia, come tanti altri, rispondeva alle esigenze medievali della consacrazione religiosa. Ma ha rappresentato anche un momento importantissimo sulla strada del risorgere della cultura e della rivalutazione del lavoro manuale. Il convento, con la chiesa dedicata a San Giuliano, venne fondato nel 1176 nella parte sud di Lavagno, adiacente alla via Imperialis da Bozoto (o Barzoto) degli Avvocati (o Avogadri), nobile famiglia veronese e affidato a due sorelle monache benedettine: Redalda (o Realda) e Gemma. Le due sorelle vi costituirono una congregazione di monache che osservavano la Regola di San Benedetto, ma con un particolare voto di obbedienza al Papa. Sembra che il convento sia stato visitato anche da papa Lucio III che visse i suoi tre anni di magistero in Verona. La sua soppressione avvenne nel 1771 per ordine della Serenissima preoccupata dell’eccessivo potere dei religiosi.  L’elenco dei beni fatto in quell’occasione annoverava possessi a Giara, Sabbionara, Vago, Cellore, Badia, Illasi, Cogollo, Tregnago, Marcellise.  (G.C.)


San Giacomo e la basilica incompiuta



Chiesa di San Giacomo

Il complesso di San Giacomo è posto sulla sommità del colle del Grigliano a Vago. Qui il 20 giugno 1396, sui resti di un tempio più antico, venne posta la prima pietra di quella che avrebbe dovuto diventare una chiesa monumentale gotica a cinque navate di 80 metri di lunghezza e quasi 40 di larghezza. L’edificazione della grandiosa basilica venne promossa dopo il ritrovamento delle presunte ossa dell’apostolo san Giacomo.
Nel 1407 le opere di costruzione della basilica erano in fase di realizzazione. Ma cessarono quasi del tutto con l’arrivo al pontificato di Gregorio XII che manifestò dubbi sull’autenticità delle ossa attribuite all’apostolo Giacomo. Però, solo nel 1886 papa Leone XIII pose fine alla vertenza definendo autentiche quelle del santuario spagnolo di Compostela. La chiesa e il convento, sorto nel frattempo accanto ad essa, vennero affidati ai monaci.
Nel 1895 il colle passò ai fratelli Milani che vi edificarono la villa. Infine, negli anni ’30, il complesso fu acquistato dai fratelli Battiato che nel 1951 lo donarono alla congregazione di san Giovanni Calabria. G.C.


Fonte:  Fonte: srs di di Giuseppe Corrà, da L’Arena di Verona di Venerdì 28 dicembre 2007; provincia pag. 24


(VR 30 dicembre 2009)

Corte Lepia di Vago di Lavagno: una speculazione che viene da lontano



La chiesa del monastero di Corte Lepia

Lepia è nome antichissimo di una terra con un abitato preistorico, con una strada romana e un convento medioevale: tutto intorno la campagna, bella, è coltivata a viti ed è solcata da fossi ricchi d'acqua e torrenti.

L'abitato preistorico, su altura quasi circolare, dai reperti è riferibile all'Età del Bronzo Recente (quanto prima sarà attuato uno scavo archeologico dalla competente Soprintendenza); la strada romana, che anticamente congiungeva la Via Postumia, a S. Martino Buon Albergo, con la Via Emilia-Altinate, a Montagnana, è denominata Porciliana, Porcillana o Imperiale in molti documenti medioevali; tale nome le deriva dall’antica denominazione del vicino Comune di Belfiore, fino al 1867 chiamato Porcile.


Cartografia del Lepia

Il convento, alienato come proprietà religiosa verso la fine del 1700, è ora una bella corte rustica, fino a qualche anno fa sede di una importante azienda vinicola; era intitolato a S. Giuliano e fin dall'anno 1176 viene citato come monastero di suore benedettine, con privilegi papali e protezioni romane.

Il complesso architettonico quattrocentesco sorge su una realtà edilizia di epoca altomedioevale, dove si nota il riutilizzo abbondante di materiale edilizio di epoca romana.
La chiesetta presenta, all'esterno, un'elegante abside ad archetti in cotto, le cui mensole sono, talvolta, trasformate in volti umani; l'interno presenta molte tracce di affresco e, nel catino dell'abside, il Cristo in Maestà (XIlI sec.). Fuori, un discreto campanile sovrasta, minimamente, gli altri edifici dell'ex convento.

Sotto il ponticello che induce all'unico portone di accesso alla corte chiusa, scorre, rapido, un piccolo corso d'acqua denominato Ranzan o Progno Marccllise, che, costeggiando la strada romana, affluisce a valle nel torrente Illasi, là dove questo riceve le acque del Dugale o Progno Mezzane. Qui a Lepia, per breve tratto, l’argine destro del Dugale costituisce la linea di confine fra il Comune di Lavagno e il Comune di Caldiero.

Questa descrizione dei corsi d’acqua vicinissimi all’edificio monumentale di Lepia è stata necessaria per spiegare che essi sono corsi d’acqua pubblici e sono, tutti, di proprietà demaniale, cioè dello Stato, e, in quanto tali, assoggettati a vincolo di rispetto ambientai e ai sensi della legge 431 del 08/08/1985 (ex legge 1497. del 1939), nota anche come legge Galasso.  Questa legge prevede il vincolo di rispetto anche per gli edifici esistenti nell'area di rispetto ambientale.

Per il Ranzan, il piccolo corso d’acqua, che bagna lungo la strada gli edifici di Lepia, l’area di rispetto è minima e quindi quegli edifici rientrano solo in parte nell’area di - vincolo di tutela, mentre per i due torrenti, il Mezzane e l’Illasi, lì area di rispetto ambientale risulta  più ampia e comprenderebbe tutta la realtà edilizia esistente a Lepia, che sarebbe, “ipso facto”, assoggettata a vincolo di tutela.

Mentre il Comune di Caldiero, per le sue competenze, ha recepito la sopra citata legge, poiché i due torrenti passano nel suo territorio, quello di Lavagno, nel cui territorio si trova Lepia, non ha recepito quella legge, poiché nessun torrente vi passa, anche se il confine è costituito da un argine del Dugale.

In questi giorni si è diffusa la notizia, successivamente verificata, che i proprietari dell’importante costruzione conventuale di Lepia hanno presentato al Sindaco di Lavagno la richiesta di autorizzazione per abbattere gli edifici dell’ex convento, risparmiando la chiesetta e il campanile, utilizzando la cubatura della parte demolita per la costruzione di un ampio condominio.

Da questa sede si invitano, pertanto, le Istituzioni preposte alla tutela dei beni ambientali ed architettonici a far applicare e rispettare la cosiddetta legge Galasso anche in Comune di Lavagno, visto che la realtà di quel territorio lo richiede, come lo richiedono quei cittadini rispettosi del patrimonio culturale che appartiene non solo al Comune di Lavagno, ma a tutta l'Umanità.



Fonte: srs di Franco Guarnirei da Archeo Legnago della Bassa e del sud Est Veronese n° 47- anno 12 - dicembre 2000


(VR 30 dicembre 2009)

Lago di Garda Sos: Residence e cementificazioni a valanga




Una veduta panoramica del residence «Borghi del Garda resort Village» in località Sermana, a Peschiera

ESPOSTI. Tre quelli fatti alla Procura dal Comune di Torri, che ha posto vincoli nelle delibere. E Brenzone ha approvato una mozione ad hoc. Lotta alle strutture turistiche trasformate in seconde case Passionelli: «E nessuno in Regione interviene»


Una mozione consiliare, alcuni esposti alla Procura della Repubblica e gli strali, ma solo verbali, della Unione gardesana albergatori veronesi.
Sono solo queste, finora, le armi messe in campo sul lago di Garda contro i residence turistico-alberghieri che, con vari «trucchetti» e sfruttando le parti ambigue della legge regionale numero 33 del 2002, diventano poi vere e proprie «seconde case».
Il tutto con tanto di pieghevoli e siti internet di ditte o agenzie immobiliari che ne pubblicizzano la vendita prima ancora che vengano terminati i lavori di costruzione.

Un’escalation che, partita dal basso Garda con la vicenda amministrativo-giudiziaria della Sermana a Peschiera, sta risalendo lungo la costa veronese del Garda, sempre più cementificata e meno riqualificata dal punto di vista alberghiero.

Che la legge regionale 33 sia mal fatta e dia spazio a interpretazioni distorte è cosa ormai assodata.
Specie per le pubbliche amministrazioni che sono costrette a grane legali per tutelare il proprio territorio ma, soprattutto, devono cercare di fare rispettare la destinazione d’uso del piano regolatore per cui sono concesse le licenze a costruire.
L’ufficio tecnico dell’edilizia privata di Torri, da solo, ha già fatto tre «esposti cautelativi» alla Procura di Verona segnalando situazioni di potenziale aggiramento della legge 33 del 2002. Infatti, due lottizzazioni autorizzate e previste dal piano regolatore come residence turistico-alberghieri e una come albergo con annesse unità abitative stanno creando grattacapi di non poco conto all’amministrazione e agli uffici tecnici.

Fino a questo momento reati non ne sarebbero stati ancora materialmente commessi, visto che nessuna delle tre lottizzazioni è terminata, ufficialmente venduta in multiproprietà o utilizzata in modo difforme dal previsto.
Per tutte e tre però è scattata la segnalazione in Procura perchè, sul territorio o sui siti internet, sono state pubblicizzate possibilità di acquisto di «seconde case», possibilità di avere in proprietà «lussuose villette», e dichiarazioni di «avvenuta vendita» di una parte di quanto non ancora neppure realizzato.
«Esposti che hanno il preciso scopo di dissuadere chi sta costruendo dal proseguire nel proposito di edificare seconde case sotto le mentite spoglie di residence turistico-alberghieri», aveva spiegato il responsabile dell’ufficio tecnico dell’edilizia privata di Torri, Valentino Peroni.

Finora solo una ditta, tra le tre oggetto di esposti, ha messo nero su bianco il proposito di «mantenere la destinazione d’uso iniziale, concordata col comune». Un’altra, invece, ha avviato uno scontro legale e un contenzioso con l’amministrazione di Torri. L’ultima parola spetterà al Tar del Veneto, verosimilmente a fine giugno 2009. Solo nell’alto Garda però, da parte delle amministrazioni pubbliche, ci si sta muovendo per cercare di tutelare l’ambiente facendo rispettare le regole. Il comune di Torri, oltre agli esposti, ha posto vincoli nelle delibere di consiglio comunale.
Quello di Brenzone si è mosso approvando recentemente una mozione.
«Lo scopo è impedire che, una volta concessa, venga cambiata la destinazione d’uso dei residence turistico alberghieri a seconde case», avevano spiegato il sindaco, Giacomo Simonelli e l’assessore ai lavori pubblici, Davide Benedetti.
Oltre a questi fatti però, solo Legambiente si è dimostrata attiva, spedendo in Procura altri esposti che poi hanno generato casi seguiti oggi dai magistrati scaligeri.
Nulla di più da altri soggetti pubblici o privati, al di là di estemporanee dichiarazioni.

L’impressione, insomma, è che, sul Garda, sia solo cresciuta l’attenzione della magistratura sui singoli casi segnalati dai comuni o da Lega Ambiente. Ma, quel che manca davvero, pare essere la volontà politica di prendere decisioni sulla legge 33 del 2002.
«Nessun consigliere o assessore regionale veronese ha fatto dichiarazioni di voler mettere mano al problema, nonostante quel che sta succedendo, e nonostante i vari appelli fatti anche sulla stampa», conferma il sindaco di Torri, Giorgio Passionelli.


Fonte: srs di Gerardo Musuraca da L’arena di Verona d1 venerdì 23 gennaio 2009;  Provincia, pag. 30


In arrivo «cemento a valanga»



Una veduta di Bardolino

BARDOLINO. A Cisano l’incontro promosso dai comitati locali in difesa dell’ambiente: parola ai giornalisti che denunciano la speculazione. Stasera dibattito con Messori e Biondani

Il futuro del Garda e del suo paesaggio sono al centro del dibattito pubblico che si svolge oggi  (venerdì 23 gennaio 2009) dalle 21 all’hotel Caesius di Cisano, sul tema: «Affarismo, speculazione o natura come risorsa e valore. Che lago vuoi?»

All’incontro interverranno lo scrittore Vittorio Messori, che abita a Desenzano, e i giornalisti veronesi Paolo Biondani, inviato del settimanale L’Espresso, e Stefano Lorenzetto, già caporedattore dell’Arena e ora editorialista del Giornale e di Panorama.

L’incontro, promosso dall’associazione Amici del territorio, è stato stimolato anche da una recente inchiesta di Biondani sull’Espresso («Lago di Garda e di cemento») nella quale il giornalista, originario di Lazise, parla di «politici spregiudicati, costruttori senza scrupoli e mafiosi che stanno distruggendo un paradiso naturale, con lottizzazioni selvagge e parchi acquatici».

Una vera invasione di cemento sul più grande lago italiano, tanto da far dire a Vittorio Messori, scrittore di fama mondiale, che sul Garda, lui che da 15 anni risiede a Desenzano, «si vive quotidiana sofferenza nel vedere prati bellissimi, ruscelli, boschetti e uliveti devastati da distese di capannoni commerciali e di lottizzazioni che sembrano conigliere. A lasciare sbalorditi è l’insipienza, la folle idiozia che spinge tanti amministratori, non necessariamente corrotti, a distruggere spiagge e colline per dare sempre nuovi spazi alle cosiddette seconde case: squallidi sottoprodotti edilizi, abitati per due settimane all’anno da anonimi soggiornanti che sul lago non lasciano soldi, ma soltanto rifiuti».

Ma la distruzione non è finita. «Incombe una nuova ondata di cemento», scrive Biondani che sommando solo i progetti già in cantiere nei tanti piccoli Comuni sparsi tra Brescia, Verona, Mantova e Trento, calcola un milione di metri cubi di nuove costruzioni in arrivo. «Un business da due miliardi di euro, che sta già muovendo plotoni di speculatori, faccendieri e politici locali», conclude il giornalista. Affermazione e argomenti che non mancheranno d’infiammare un incontro atteso non solo a Bardolino.

All’iniziativa, partita del locale gruppo Amici del territorio, si sono unite ben 18 associazioni e comitati che stanno operando in sinergia nella zona del Garda-Baldo. «Questa volta ci poniamo una domanda di una portata notevole», riassumono in un comunicato i promotori dell’associazione Amici del territorio. «Vogliamo continuare a considerare il lago come un territorio da sfruttare, solo come area commerciabile appetibile, a scapito di ambiente e paesaggio, o non è il caso di cominciare a considerarlo come un valore ormai irri-nunciabile, un patrimonio da salvaguardare? Non c’è più tempo di tergiversare, dobbiamo prendere coscienza delle conseguenze che le nostre scelte avranno sul futuro del lago e operare con lungimiranza. Chi amministra dovrà fare i conti con le due anime del nostro territorio, e cioè il polo turistico e la risorsa ambientale, e cercare il giusto equilibrio tra le due».

Fonte:  srs di Stefano Joppi da L’Arena di Verona di venerdì 23 Gennaio 2009;  PROVINCIA, pagina 30


Verona: I tesori sepolti possono diventare una risorsa




Bertocchi nelle cantine sotto piazza Corrubio

LA CITTÀ NASCOSTA: In lungadige Capuleti  c’era un forno e piazza Corrubio cela una necropoli romana. Lo storico Battiferro Bertocchi interviene sul dibattito relativo ai ritrovamenti archeologici. E spiega come trasformare un disagio in vantaggio.

«Verona non è una città qualsiasi, e quello che si trova nel suo sottosuolo non sono reperti qualsiasi».
Esprime indignazione lo storico dell’arte Riccardo Battiferro Bertocchi sul dibattito a proposito dei ritrovamenti archeologici in occasione dei recenti scavi per la realizzazione di parcheggi pertinenziali.
«Non si può dire che un muro od una tomba valgano meno di un’altra», aggiunge, insistendo sull’idea che Verona si renda finalmente conto dell’«inestimabile valore storico-artistico» di cui è depositaria.
«I reperti che vengono portati alla luce non vanno visti come un problema, bensì come una risorsa».
 Oltre che sul valore artistico, Battiferro pone l’accento sui risvolti turistici che tali ritrovamenti possono avere.
«La complessità architettonica e urbanistica della nostra città non si può semplificare nei percorsi stereotipati e ormai stantii dei tour operator.  Il trittico Casa di Giulietta, piazza delle Erbe e piazza Bra è ormai logoro e semplicistico rispetto alla reale portata culturale del veronese».
Secondo Bertocchi, è ormai tempo di creare dei circuiti turistico-artistici alternativi,  «che rendano veramente onore al valore millenario della storia di Verona».

Nel caso i recenti ritrovamenti «vengano ignorati», lo storico propone di presentare Verona all’Unesco come «luogo a rischio, così come la valle di Noto in Sicilia».

Per meglio comprendere cosa sta sotto i piedi dei veronesi, disegna una mappa ideale.

LE STRADE.

Tre erano le arterie principali che in epoca romana attraversavano la città. La via Augusta, corrispondente all’attuale via Mameli, conduceva a Nord, verso Trento. La via Postumia che da est ad ovest entrava in città attraverso un ponte che non esiste più (tra ponte Pietra e ponte Nuovo) e diventata Decumano Massimo nella sponda interna dell’Adige, correva lungo l’attuale corso Porta Borsari, corso Cavour e corso Porta Palio, portando in direzione di Genova; infine, la via Gallica, che arrivando dall’attuale corso Milano incrociava la via Postumia a San Zeno, in piazza Corrubio.

PIAZZA SANTI APOSTOLI.



Lo scavo in piazza Santi Apostoli

I reperti antichi ritrovati in piazza Santi Apostoli, potrebbero appartenere a strutture abitative o sepolcrali di epoca romana o longobarda. Si tratta di uno dei primi luoghi dove, nell’Alto Medioevo (VIII-XII secolo dopo Cristo), si costruì fuori dalle mura cittadine.
«Questa zona era divisa in quattro piccole contrade: Fratta, Ferraboi, Falsorgo e San Michele alla Porta. Proprio in prossimità di piazza Santi Apostoli, si ergeva la chiesa Sacello delle Sante Teuteria e Tosca, edificata dai Longobardi nell’VIII secolo dopo Cristo», spiega Bertocchi.
Il passaggio della via Postumia lungo l’attuale corso Cavour, è testimoniato anche dai ritrovamenti de un’antica pavimentazione romana in occasione del rifacimento del corso nel 1999. Senza considerare il ritrovamento di una villa romana perfettamente conservata in occasione dei lavori all’ex cinema Astra di via Oberdan. Questa villa faceva parte di un’immensa necropoli che si spingeva fino a viale Colonnello Gallieno: «A riguardo si ricordino i ritrovamenti nei primi anni Novanta in occasione della realizzazione dei due sottopassi».

PORTA SAN GIORGIO.


Porta San Giorgio

Gli antichi romani erano soliti costruire le loro necropoli al di fuori delle mura cittadine, proprio ai lati delle vie consolari principali.  Per questo è più che ipotizzabile l’esistenza di un’ampia necropoli ai lati di via Mameli, dove un tempo correva via Claudia Augusta.
«Ne è una prova il rinvenimento di una villa romana in via Nino Bixio, in occasione dei lavori per la realizzazione di una palazzina ancora nel 1926, sempre in coincidenza con via Mameli, scorre l’acquedotto romano che portava l’acqua in città tramite tubi di piombo dalla Valpolicella», continua Bertocchi.  L’acquedotto entrava in città tramite ponte Pietra versando l’acqua direttamente nel Foro Romano (l’attuale piazza Delle Erbe).
Inoltre, proprio in prossimità di porta San Giorgio, si dovrebbe trovare la chiesa di San Barnaba, di epoca romanica (XII e XIII secolo dopo Cristo).

LUNGADIGE CAPULETI.



Muro a fiume

Quello portato alla luce in lungadige Capuleti è il  «muro a fiume» della cittadella viscontea della fine del 1300. «Si trattava di un muro di cinta del piccolo forno militare che Giangaleazzo Visconti fece erigere per proteggere la città dall’estero ma anche dall’interno, cioè da eventuali sommosse popolari. Le altre facciate del quadrilatero (corso Porta Nuova e Circonvallazione Maroncelli) sono andati distrutti durante la dominazione austriaca».
Il muro scoperto recentemente durante gli scavi, costituisce l’unica traccia superstite di quella fortezza e dovrebbe essere lungo circa 100 metri.
«La sua locazione si vede benissimo dalla mappa disegnata nel 1648 dal Frambotti, illustre cartografo del XVII secolo».

PIAZZA ARDITI.


Scavo di Piazza  Arditi

I ritrovamenti di piazza Arditi appartengono al cimitero della chiesa romanica di San Silvestro, dipendente dall’omonima chiesa di Nonantola in provincia di Modena.

PIAZZA CORRUBIO.

Piazza «Corrubio», dal latino quadrivium, vale a dire «incrocio». Il nome stesso della piazza rivela che proprio alla sua altezza, in età romana, c’era un incrocio tra due grandi strade: la via Consolare Gallica e, molto probabilmente, la via Postumia.
«All’epoca, gli antichi romani erano soliti costruire le loro necropoli al di fuori delle mura cittadine, proprio ai lati delle vie consolari. I ritrovamenti di molti resti avvenuti in occasione di lavori ai sottoservizi in piazza Corrubio non fa che avvalorare questa tesi. Inoltre, il vano sotterraneo recentemente ripristinato all’interno della pasticceria San Zeno corrisponde alla superstite cripta della primitiva chiesa di San Luca, costruita probabilmente nel XII secolo, lungo l’antica via Mantovana (l’odierna via Scarsellini), che conduceva un tempo alla Porta di San Massimo».

Questa Porta faceva parte della cinta muraria scaligera, poi ricostruita in età veneziana e successivamente dagli austriaci. Solo successivamente l’Ordine Crocifero costruì un ospizio con annesso luogo di culto dedicato a San Luca evangelista nei pressi dei portoni di piazza Bra.


Fonte: srs di Alessio Pisanò da  L’Arena di Verona di domenica 02 marzo 2008;  cronaca pag. 16

(VR 30 dicembre 2009)

martedì 29 dicembre 2009

VERONA-SANT’ANNA D’ALFAEDO: 74 selci preistoriche tutte finte. Il museo di Sant’Anna dedica una mostra agli artigiani falsari di fine Ottocento




Selci false


Ben 74 selci preistoriche. Ma sono tutte finte. A forma di croce o di pettine se le inventarono per fame.
«Gli artigiani della Lessinia: sfida alla preistoria. La provocazione delle selci strane».  Questo è il tema della mostra che sarà inaugurata nella sala di preistoria del museo quest’oggi alle 18.

 È un ritorno a casa, essendo Sant’Anna d’Alfaedo, con Breonio, le località dove sono stati prodotti e poi fatti ritrovare in siti preistorici dei materiali silicei, dalle forme particolari, inusitate, enigmatiche, che hanno messo in subbuglio gli uomini di scienza. Il caso delle selci strane scoppia alla fine dell’Ottocento e si trascina, con alterne vicende, per decenni, prima di essere smascherato.

Sono Angelo Viviani di Sant’Anna, detto Pippo e Giobatta Marconi, detto Titon, da Cona, i principali artefici dei falsi, a far trovare a Stefano De Stefani, pioniere della ricerca preistorica nel Veronese, questi strani oggetti in selce fabbricati durante l’inverno. Avevano anche trovato la maniera di «invecchiarli», prima di sotterrarli, facendoli bollire nel brodo di cottura delle castagne. Va precisato che non era nelle loro intenzioni gabbare gli scienziati, ma agivano esclusivamente per un bisogno di sopravvivenza, per non essere costretti ad emigrare, come hanno dovuto fare altri concittadini in quel periodo. «Non sono quindi dei falsi preistorici quello che loro realizzano», spiega Alberto Castagna, archeologo sperimentale, che collabora col Museo civico di storia naturale di Verona e con l’università di Ferrara, «ma semplicemente strane copie dalle forme abbastanza anormali di oggetti di uso quotidiano: croci, forche, pettini, curapipe...».

Dei ritrovamenti silicei dalle forme strane, oltre al De Stefani, il più convinto della loro autenticità, si sono interessati altri studiosi, ma a smorzare gli entusiasmi ci pensarono i francesi Gabriel De Mortillet, direttore del Museo preistorico di Saint Germain en Laye, e il figlio Adrien, che scoprì il Titon ad introdurre alcune selci strane in un sito archeologico.

Verso gli anni Trenta del secolo scorso Raffaello Battaglia, professore di antropologia all’università di Padova, accompagnato da Giobatta Pedrini, detto Canonier e da Serafino Fiorini, detto Speri, già operai del De Stefani, si recò nei siti dove erano state rinvenute le selci strane, senza trovarne più. Evidentemente con la morte dei «falsari», erano scomparse anche le selci strane.

La conferma definitiva che erano che dei falsi venne da Marcello Viviani, figlio del Pippo, che, nell’agosto del 1933, sottoscrisse una dichiarazione ammettendo, fra l’altro, di aver raccolto e venduto ad un dottore, dopo la morte di suo padre, selci lavorate (folende) autentiche: scalpelli, punte di freccia e di lancia, coltellini. «Altre specie di folende come quelle in forma di pettine, di croce e di àncora non sono autentiche, ma venivano fabbricate in apposito locale, immerse per lungo tempo nell’acqua bollente, sporcate di terra e poi consegnate al De Stefani quando questi veniva a Sant’Anna oppure portate a lui a Verona. Talvolta le selci venivano sotterrate in anticipo nel luogo dove poi si doveva fare lo scavo. In tal modo continuarono i lavori per anni».

Questa in breve la storia delle selci strane, 74 delle quali, ordinate in due teche di vetro, sono oggi esposte al museo grazie alla mostra curata da Alberto Castagna, coadiuvato da Barbara Bussola, Elisa Marchesini e Marco Marogna.

«L’idea di aver qui nel luogo di produzione delle selci strane», confessa Nida Peretti, presidente della cooperativa «La Fonte», che si è assunta l’impegno di tener aperto il museo, «per poter raccontare l’utilizzo della pietra, mi era venuta sin da quando, nel 2000, era stata inaugurata la sala di preistoria, al cui centro era rimasto uno spazio vuoto».

Le 74 selci strane arrivano dalla raccolta del Museo civico di storia naturale di Verona, mentre il materiale iconografico è stato concesso a titolo gratuito dal Centro di documentazione per la storia della Valpolicella, diretto dallo storico Pierpaolo Brugnoli, che, sull’argomento, ha riservato molto spazio sugli Annuari storici.

Il museo geopaleontologico e preistorico, che ha anche una ricca raccolta di fossili, è visitabile dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 18 ed è chiuso il lunedì.
Per informazioni telefonare al numero 045.7532656 o scrivere a museo.santanna@gmail.com.


Fonte: srs di Lino Benedetti da  L’Arena di Verona diVenerdì 25 Luglio 2008; PROVINCIA, pag. 24

(VR 28 dicembre 2009)

Garibaldi una invenzione per unire italia






Una figura  vicina al popolo, che  conduceva  la guerra con trucchi,  astuzie  e inganni. Un uomo servo utile del progetto massonico, cui le logge riservarono  sempre onore e protezione

 Che storta e mito spesso procedano parallelamente e che la prima debba fare i conti con il secondo era cosa già nota alla storiografia  antica, come dimostra la celebre affermazione con cui Tito Livio inizia la sua “Historia ad Urbe Condita”. Dinanzi alla necessità di  prendere posizione rispetto ai miti  che circondavano la fondazione di Roma, lo storico patavino appare diviso tra il rispetto dei miti tradizionali e le esigenze della storiografia  razionale, ma risolve l’apparente contraddizione affermando che  una città grande come Roma aveva bisogno di grandi miti che ne nobilitassero le origini umili. Livio esprimeva in termini letterari quella che era ed è la consapevolezza di sempre.

Non esiste fenomeno storico-politico che non cerchi in qualche modo di nobilitare le proprie origini attraverso dei miti che, spessissimo, la storia dimostra impietosamente privi di vero fondamento. Se a questa verità, già tanto evidente alla storiografia antica, si aggiunge quella icasticamente espressa da Hegel nel la sua definizione della storia «la storia la scrivono i vincitori» si è finalmente di fronte alla giusta prospettiva per rileggere il fenomeno “Giusppe Garibaldi” .

Garibaldi entra nella storta del cosiddetto Risorgimento italiano come mito e come mito resta nella. nostra storia. Dopo l'ammonimento di Carlo Cattaneo ai Milanesi in occasione delle Cinque Giornate di Milano a diffidare dell'aiuto sabaudo, la Lombardia non avrebbe accettato una guerra regia e piemontese allo stato puro.
Garibaldi rappresentava il correttivo democratico, la giusta dose di illusione per ammaliare un popolo da sempre amante della libertà.  E chi meglio di Garibaldi poteva svolgere questo ruolo? Sanguigno nei suoi amori, popolano e persino grossolano nei modi, astuto come il corsaro che a lungo era stato, forse costretto a portare per tutta la vita i capelli lunghi per coprire l’ignominia dell’orecchio mozzato in Sudamerica, come s’usava per i ladri di cavalli, Garibaldi era predestinato o, più probabilmente, fu prescelto per il ruolo di icona popolare del Risorgimento, in luogo dell’improponibile Savoia.

Un uomo certamente audace, certamente astuto; un avventuriero fortunato, attento alle simbologie popolari  (le camice rosse...), ma soprattutto un servo utile del progetto massonico, cui le logge riservarono sempre onore e protezione.

Quando, dopo l’11 luglio 1859, con l’armistizio di Villafranca, apparve chiaro che non si poteva più contare sull’appoggio francese, Garibaldi dal suo quartier generale di Lovere iniziò ad arruolare
un corpo di volontari per proseguire la guerra di popolo.
È evidente che una tale iniziativa non poteva essere presa se non con l’'appoggio della monarchia e della diplomazia sabauda, che, in tal modo, conseguiva due grandi scopi: la continuazione della guerra con altri metodi e l’azione di propaganda nel far passare se stessa come fattore di moderazione rispetto al pericolo democratico, se non anarchico.
Ai popoli che amano la libertà occorre dare almeno l’illusione della libertà.

C’era bisogno di una figura in qualche modo popolare, vicina al popolo non solo nei modi quotidiani, ma anche nella maniera di condurre la guerra, per mezzo di piccoli trucchi, astuzie e inganni. Per il resto, a garantire l’approdo dei Mille in Sicilia c’erano i soldi dei Savoia (ricavati dai beni rubati alla Chiesa con le secolarizzazioni),  l’azione coordinata delle massonerie d’Italia e l’appoggio della flotta inglese nel Mediterraneo. I libri di storia - ormai solo quelli scolastici - parlano di uno sbarco a Marsala tra folle acclamanti e di una fulgente vittoria a Calatafimi.

In realtà a Marsala non ci  fu alcuna calorosa accoglienza e, anzi, come ricorda lo stesso Ippolito Nievo, i marsalesi avevano già prudentemente provveduto a nascondere non solo i denari delle casse comunali, ma anche i beni di famiglia. A Calatafimi circa duemila garibaldini non si scontrarono con altrettanti borbonici, come vuole la Vulgata storiografica, per il semplice fatto che a questi ultimi, misteriosamente, fu ordinato di ritirarsi. E non sono pochi gli storici che parlano di tradimento da parte del generale borbonico Landi, indicando anche la somma, promessa ma mai elargita,di quattordicimila  ducati.  Il Regno delle Due Sicilie non fu conquistato, ma comprato, con fiumi di oro massonico nelle tasche di alcuni ufficiali borbonici.

Poco dopo, un Carlo Cattaneo che ancora osava sperare in un’evoluzione federalistica del processo di annessione delle regioni della penisola a opera della diplomazia sabauda si precipitò a Napoli per incontrarvi Garibaldi, ma se ne allontanò prestissimo. pesantemente deluso nelle sue aspettative.
Il  “generale” appariva del tutto privo di una vera visione politica,  già in balia del proprio gusto per l’autocompiacimento, insistentemente accarezzato da quella modestissima italietta che, al suo sorgere, aveva disperato bisogno di figure in qualche modo mitologiche da proporre all’ammirazione di un popolo che la sua classe dirigente, peraltro, disprezzava profondamente.

I “napoletani” (o l’un per cento di essi) votarono l’annessione,  tra due ali di soldati schierati presso le urne, con le baionette innestate.
La democrazia, per lorsignori,  era ed è votare,  finche non si conferma quel che loro hanno già deciso nelle venerabili logge.

Repubblicano mazziniano convertito all’idea monarchica in nome - diceva lui - della necessità di fare l’Italia unita. Garibaldi non aveva alcuna considerazione per le identità e la storia dei popoli che incontrava. Per lui non si trattava altro che di masse, di materia informe, da plasmare o, meglio, da lasciar plasmare dalla “nuova”classe dirigente.
Il suo rispetto per il popolo e per la sua esigenza di giustizia - quella che gli portò vicino qualche povero illuso - era tanto e tale da comandare al suo vice Nino Bixio di andare a rimettere ordine tra i braccianti che a Bronte avevano di loro iniziativa espropriato i latifondi.  Bixio e i suoi plotoni di esecuzione a Bronte non sono un incidente di percorso del Risorgimento. Ma il primo emergere di una costante, quella che porta Umberto I a decorare il generale Bava Beccaris per aver eroicamente massacrato a cannonate gli operai e i disoccupati di Milano, donne e bambini compresi.
La stessa che porta Cadorna a ordinare le decimazioni sulla linea del Piave, un soldato (italiano) ogni dieci fucilato per far capire che cos’è la disciplina.
Lo stesso cinismo che porta Mussolini nel 1914 ad abbandonare il socialismo e ad aderire all’interventismo filo francese e, nel 1940, a parlare della necessità di gettare sul tavolo delle trattative di pace qualche migliaio di morti, dichiarando guerra alla Francia.

Lo stesso cinismo, la stessa inettitudine, il grande generale, abilissimo nelle piccole astuzie, si dimostrò troppo spesso incompetente sul piano delle grandi strategie militari. Era capace di vincere delle piccole battaglie,  ma non possedeva delle strategie a lungo termine.
La tanto esaltata vittoria di Bezzecca del 1866, l'unica vittoria italiana nella terza guerra di indipendenza (che in realtà non è, a sua volta, nient’altro che un episodio marginale della guerra austro-prussiana, del tutto assente sui libri di scuola europei) non ebbe alcuna incidenza strategica reale sull’esito di quella guerra e,  se si considerano i dati numerici nella loro crudezza, è un classico esempio di vittoria di Pirro. Le perdite austriache ammontarono infatti a 25 uomini, tra soldati e ufficiali, mentre gli italiani ebbero circa 100 morti, 250 feriti e più di 1100 prigionieri.

Garibaldi, come ce l’hanno presentato, semplicemente non è  mai esistito. È un’invenzione di questa povera italietta bisognosa di poveri miti.   Un metro cubo di bugie e di illusioni.

Fonte: srs di Giuseppe Reguzzoni da la Padania di domenica 11 agosto; pag.20

(VR  29 dicembre 2009)

lunedì 28 dicembre 2009

Astor: un navigatore a quattro zampe quasi satellitare




 Io sono Astor

A Natale   mia figlia mi ha regalato uno di quegli “aggeggi” elettronici con i quali  la tecnologia moderna riempie la nostra vita: il navigatore satellitare. «Sai papi, hai una certa età  e  …così sai sempre dove ti trovi, e poi… basta che schiacci l’icona della casetta e lui ti porta sempre a  casa….». Benedetta gioventù!!!

E’  stato un  regalo che  metterà  in pensione,  causa  anche  la sua età,  il mio affezionato   e  devoto vecchio “navigatore”,  che, da quasi dieci anni,  mi accompagna nelle mie scorribande turistiche: Astor, modello Pomerania.
E  sì, proprio lui,  lo Spliz della Pomerania  che, una decina di anni fa,  la figlia “si è  regalata” e lui, memore di essere stato per secoli il  “cane dei carrettieri”  di mezza Europa, ha subito adottato l’auto   come  il  principale mezzo di locomozione.


Sulla plancia di comando

Il suo posto non è nel bagagliaio dentro una gabbia e,  malgrado ne abbia  cambiato vari  modelli,  riesce  solo a sentirla  come un devastante  mezzo di tortura, così, in barba a tutte le normative stradali, tassativamente si accomoda nei posti anteriori, anzi, se è possibile, sulla plancia di comando,  sempre in eterna competizione con gli invadenti intrusi che vogliono  sedersi  “a tutti i costi”  sul sedile anteriore.

I viaggi con lui sono stati  sempre sereni e  rilassanti; ad Astor non piace correre, ama i percorsi  tranquilli, effettuati ad una velocità che gli permette di osservare il paesaggio e, naturalmente, ogni oretta una pausa per  far pipì, per sgranchirsi le zampe ed “annusare il panorama”.

Certo, per programmarlo è un po’ laborioso, deve  memorizzarsi il percorso facendo  un viaggio  ma,  una volta visto, basta dirgli il nome della località dove si deve andare  e lui  diventa un “navigatore” infallibile o quasi.

Beh….qualche volta è andato in standby


Astor...scollegato

Ogni tanto ha perso  il segnale.


Dove sono...

Ma poi, arrivato all’incrocio, basta andare  dove punta il naso, ed è fatta.



Dritto...Dritto

Naturalmente, a un chilometro  dall’ arrivo,  inizia  un abbaio  che parte piano, ma termina alla meta con un’ intensità da far impallidire un Pavarotti.

I nuovi navigatori GPS saranno perfetti, affidabili, si esprimono nella tua stessa lingua, si aggiornano quando vuoi,  ma non hanno l’anima;  il   piacere e la tranquillità che mi dà viaggiare   con il mio vecchio Astor   rimangono  sempre  irraggiungibili e impagabili.


Astor in pensione

Adesso, che è vecchio,  e la vista non è più quella di una volta, il suo posto  se l’è trovato lì, incastrato tra i due sedili, non più ad osservare il paesaggio, ma a  dimostrami che resta sempre il mio migliore compagno di viaggio.

(VR 28 dicembre  2009)

domenica 27 dicembre 2009

Salviamo l’acqua








Si tratta della definitiva consegna al mercato di un diritto umano universale

IMPEDIAMOLO !




Con un decreto del 10 settembre scorso il Governo regala l’acqua ai privati: sottrae ai cittadini l’acqua potabile, il bene più prezioso, per consegnarlo, a partire dal 2011, agli interessi delle grandi multinazionali e farne un nuovo business per i privati.




Oltre 400.000 cittadini hanno sottoscritto una legge d’iniziativa popolare per l’acqua pubblica, che riconosce il diritto all’acqua ma la proposta giace da due anni nei cassetti delle commissioni parlamentari.




Si tratta della definitiva mercificazione di un bene essenziale alla vita

Si tratta di un provvedimento inaccettabile!


Pertanto, noi firmatari del presente Appello chiediamo:


- A tutti i Parlamentari il ritiro delle nuove norme che privatizzano l'acqua e di escludere il servizio idrico dai servizi pubblici locali di rilevanza economica riconoscendo l’autonomia di scelta dei modelli di affidamento da parte degli ATO ed Enti locali.


- Alle forze politiche di sostenere le proposte del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua e in particolare la rapida approvazione della legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico.


- Ai Presidenti delle Regioni di presentare ricorso di costituzionalità contro l’Art.15 del D.L. 135/09 a tutela della autonomia degli Enti Locali sulla base del principio di sussidiarietà riconosciuto dalla Costituzione. 


- Agli Eletti nei Consigli Comunali di prendere posizione contro l’Art.15 del D.L 135/09 e di assumere l’impegno ad inserire nello Statuto Comunale il riconoscimento dell’acqua come bene comune e diritto umano universale e dichiarando il servizio idrico privo di rilevanza economica.


- Ai Cittadini di protestare contro questo Decreto del Governo facendo pressioni sui parlamentari e raccogliendo adesioni a sostegno del presente impegno. 

Il presente Appello con le firme raccolte sarà inviato anche al Presidente della Repubblica 
e ai Presidenti delle due Camere 


L’acqua è un diritto umano universale e un bene comune da conservare per le future generazioni.

Il servizio idrico deve essere gestito da enti di diritto pubblico con la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori.

Salvare l’acqua è una questione di democrazia

Ottobre 2009


– Appello a cura 
Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua 




Segreteria Operativa Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
e-mail: segreteria@acquabenecomune.org
Sito web: http://www.acquabenecomune.org

Verona - Località Arano di Cellore di Illasi: Una necropoli della preistoria scoperta in un cantiere. Si cerca il villaggio neolitico




Arano lo scavo


ARCHEOLOGIA. Illasi: Una necropoli del Neolitico, risalente probabilmente al IV millennio prima di Cristo, è stata scoperta in località Arano, nella frazione Cellore, sui terreni destinati a una nuova lottizzazione. Fatico a non definire eccezionale la scoperta, commenta Salzani, perché da oltre 50 anni non si trovavano reperti del genere nel Veronese.

I sondaggi effettuati da archeologi diretti dalla Soprintendenza ai beni archeologici del Veneto, nucleo operativo di Verona, hanno messo in luce una decina di sepolture, ma l’ampia area compresa fra l’argine del torrente Prognolo e la strada della Levà, che collega la frazione con l’antica località di Arano, potrebbe riservare altre sorprese.
La scoperta ha richiesto non poca fatica da parte del direttore archeologo Luciano Salzani per contenere le presenze e impedire danni alle cose e alle persone. Ora tutta l’area è stata recintata e i ritrovamenti nuovamente ricoperti con terra: non ci sono tesori come pentole d’oro da trafugare, ma l’improvvisazione e la curiosità possono creare danni irreparabili alla miniera di informazioni che il ritrovamento può dare agli studiosi.


«Fatico a non definire eccezionale la scoperta», commenta Salzani, «perché da oltre 50 anni non si trovavano reperti del genere nel Veronese. L’ultimo fu a Quinzano, ma si trattava di un’unica sepoltura, fra l’altro rovinata dal cantiere di una cava di ghiaia. Qui invece siamo in presenza di un’intera necropoli che ha messo in luce finora una decina di sepolture, ma ce ne potrebbero essere altre e soprattutto in un’area adiacente pare ci siano tracce di un villaggio preistorico», anticipa il direttore.

Le tumulazioni sono di corpi in posizione fetale, con braccia e ginocchia vicine al petto, circondati da un recinto di ciottoli di fiume e di massi più grandi che stavano sopra le tombe, tutte a una profondità di appena 70 centimetri, probabilmente per colpa del vicino torrente che in quel tratto, appena a ridosso della collina, ha ancora un andamento erosivo. Al momento non sono stati trovati oggetti funerari, né vasi, né selci lavorate, né collane di conchiglie, che di solito sono il corredo delle sepolture di quel periodo.
Anche la datazione è necessariamente approssimativa, fatta risalire al IV millennio avanti Cristo, antenati dei Celloresi di ben 5-6 mila anni fa.

Si tratta delle prime popolazioni stanziali dedite all’agricoltura ma migranti. «Per questo non sono generalmente nuclei molto numerosi, e non si trovano necropoli di centinaia di individui come succede per l’età del Bronzo. Quando per il Neolitico si arriva a una trentina di sepolture è già un evento eccezionale», rivela Salzani, che confida di trovare altre tracce di queste presenze sul posto.

«Sapevamo di tombe romane e longobarde trovate a fine Ottocento in paese e nei dintorni e per questo abbiamo posto la clausola del rischio archeologico al cantiere previsto e invitato l’amministrazione comunale a considerare la possibilità di un sondaggio preventivo. Devo dar merito alla sensibilità anche dei proprietari del terreno che hanno accettato di buon grado, pur non essendo obbligati, perché la zona non era vincolata, “di eseguire a spese loro i sondaggi archeologici”».


La zona di Arano interessata agli scavi

I proprietari avrebbero infatti potuto avviare subito la lottizzazione e fermarsi solo al ritrovamento dei reperti, ma in quel caso la Soprintendenza sarebbe probabilmente arrivata a disastro già combinato.
«Ho spedito a Comune e proprietari una notifica del ritrovamento e la dichiarazione che si tratta di una scoperta di alto interesse», fa sapere Salzani.

«Ora tocca ai proprietari decidere cosa intendano fare: l’alternativa è procedere con lo scavo, prelevando tutto il materiale possibile e poi a terreno rimasto sgombro avviare la lottizzazione, oppure non scavare, ma accettare sull’area un vincolo archeologico, con l’impossibilità però di costruire alcunché».

Se si dovesse scavare, Salzani ha già anticipato che in pochi mesi, prima dell’estate, verrebbe rilevata tutta l’area e catalogato tutto il materiale possibile, prelevato per essere studiato e sistemato nei musei. «Ho già preso contatto con un antropologo dell’Università di Pisa per un intervento di recupero delle ossa trovate: sono fragilissime e meritano la massima cura. Poi, considerata l’eccezionalità e rarità del ritrovamento, non escludo che alcune sepolture possano essere prelevate in blocco tagliando il terreno tutto attorno per essere esposte in un museo così come si trovano al naturale», conclude Salzani.


Fonte: srs di Vittorio Zambaldo da L’Arena di Verona di sabato 31 marzo 2007 provincia pag. 27



Verona:  Arano di Cellore di Illasi   -  La  gente del triangolo misterioso



Archeologo sullo scavo



ARCHEOLOGIA. In autunno una grande mostra esibirà i reperti dei recenti scavi nella necropoli preistorica emersa presso Cellore

C’erano conferme che Cellore fosse zona abitata fin dall’antichità, grazie ai monumenti romani delle sepolture dei Sertori, venuti alla luce in località Cisolino dopo una piena del Progno nel 1789 e oggi al museo Maffeiano, e grazie al cippo di Salvia custode del tempio, collocato dal suo compagno Sisto.
A Sorcè di Sotto negli anni Trenta si trovarono sepolture con un’olla di terracotta e 80 monete di bronzo del tardo Impero.
Tombe longobarde sono state rinvenute nello scavo delle fondamenta per la costruzione della parrocchiale e parte del corredo è ora al museo di Castelvecchio.
Ma nessuno immaginava che i primi abitanti del paese potessero essere di oltre 2.000 anni prima di Cristo.


Sono infatti riferibili tra le fine dell’Età del Rame (seconda metà del terzo millennio) e l’Antica Età del Bronzo (fino al 1900 avanti Cristo) le sepolture trovate nella necropoli di Arano. «Fino agli anni Novanta sul territorio di Illasi erano conosciuti non più di cinque o sei siti archeologici.  Negli ultimi tre anni la mappa archeologica si è arricchita», spiega Luciano Salzani, direttore archeologo del Nucleo operativo di Verona della Soprintendenza ai beni archeologici del Veneto, citando gli scavi sul castello e le scoperte nell’oratorio di San Rocco e nell’abbazia di San Zeno minore a Cellore.
«Le scoperte non sono capitate per caso, ma sono il risultato di una accresciuta sensibilità».


Ed ecco allora un ritratto dei volti di questi primi illasiani, come risulta dallo scavo della necropoli di Arano, un sito sul quale gli specialisti sono potuti intervenire prima che venisse manomesso.
Sono 68 le tombe cosiddette «a fossa strutturata» venute alla luce nella necropoli, più una, con il corpo di un bambino, che è esterna al perimetro delle sepolture e la cui posizione deve essere ancora interpretata.


In tutto sono venuti alla luce 73 scheletri: 53 tombe avevano al loro interno un solo individuo; quattro ne contenevano quattro ciascuna, una ne aveva tre, sei erano senza corpi sepolti e per una esistono ancora dei dubbi.
«La collocazione cronologica indica l’Antica età del Bronzo (2100-1900 a. C.), ma i dati raccolti sono ancora in fase di studio e potrebbero dare indicazioni più precise», aggiunge Salzani.
 Non si tratta di tumuli, ma di fosse scavate nel terreno le cui pareti sono foderate di ciottoli; il corpo, deposto in posizione fetale, era coperto da un assito a sua volta ricoperto con grossi ciottoli. Alcuni corpi hanno il capo a Nord, altri a Sud, ma quasi tutti rivolto a occidente.


Solo in 14 tombe è stato trovato un corredo, in ogni caso minimo: perline di pietra e di ceramica, un bicchiere di ceramica con dei denti, un pomolo di corno di un pugnale, un filo di rame o di bronzo e la punta metallica di un pugnale. Quattro sepolture sono più antiche, forse dell’Età del Rame, che nella zona alpina ha preceduto di circa mille anni quella del Bronzo.


Intanto la scoperta più sensazionale è una struttura triangolare al margine nordest della necropoli su un livello più profondo di circa 50 centimetri, e quindi più antico, costituita da un acciottolato a forma di triangolo isoscele con la base a Est di 18 metri e i lati di 25 metri e tre sepolture sulla linea di base, prive di corredo.
Analoghe strutture, definite megalitiche, si trovano solo a Sionne (Svizzera) a Saint Martin de Corléans, nei pressi di Aosta, a Velturno/Feldthurns in Alto Adige e per alcuni elementi a Sovizzo (Vicenza).
La forma triangolare potrebbe simboleggiare un pugnale, arma del potere — i tre sepolti alla base sarebbero allora i personaggi di rango della comunità — oppure potrebbe rappresentare la prua di una nave che traghetta i defunti verso occidente, direzione del tramonto del sole, identificata con il regno dei morti.


In autunno una grande mostra al Museo civico di storia naturale di Verona fornirà il quadro completo dello scavo e i risultati delle prime analisi. La stessa mostra sarà al termine trasferita a Illasi.


Fonte: srs di Vittorio Zambaldo da L’Arena di Verona di martedì 10 giugno 2008 altro pag. 31


Arano di Illasi:  Accordo salva necropoli, si lottizza un’altra area


Manifestazione per salvare la necropoli


ILLASI. Trovata una soluzione per la salvaguardia del tesoro archeologico di Arano: la polemica adesso è chiusa

Resterà a disposizione del Comune l’area archeologica di Arano.
Modificato il piano di lottizzazione, che ora attende l’ok della Soprintendenza.
E’ dunque avviata a conclusione la trattativa fra amministrazione comunale e ditta lottizzante sulla questione della zona nella quale è venuta alla luce, nello scorso febbraio, una necropoli preistorica.

L’area di maggior interesse, che avrebbe dovuto comprendere quattro nuovi lotti edificabili, è stata bonificata dagli interventi degli archeologi e verrebbe ceduta al Comune come zona verde da destinare ad ecomuseo.

È un rettangolo posto nel cuore della lottizzazione per tre lati, mentre con il quarto si apre su strada della Levà, uno dei collegamenti esistenti fra la località Arano e il centro storico della frazione Cellore.

«In quest’area sarà possibile conservare i tre calchi realizzati su altrettante tombe scoperte, nonché prevedere una struttura chiusa dove collocare alcuni degli scheletri restaurati, i pochi oggetti di corredo rinvenuti e pannelli illustrativi che spieghino la conformazione della necropoli e del villaggio», spiega il sindaco Giuseppe Trabucchi.

In cambio i lottizzanti ricevono la possibilità di edificare sulla zona F, attualmente a vigneto, che doveva essere sgombra da costruzioni, mentre resterebbero a verde pubblico i 1500 metri quadrati più vicini alla storica fontana di Arano, che i lottizzanti si impegnano a restaurare.
«La modifica della collocazione dei lotti rimane entro i parametri della lottizzazione approvata in precedenza», precisa il sindaco.
«Le altezze degli edifici si riducono da 7,50 a 6,20 metri, differenza che viene compensata da un aumento del rapporto di copertura dal 30 al 34,5 per cento». In pratica aumenta la superficie che si può coprire con le case, ma diminuisce l’altezza degli edificati.

I lottizzanti si impegnano inoltre a realizzare un parco giochi attrezzato nel triangolo di verde rimasto libero a sud fra la strada della Levà e il torrente Prognolo, vicino a via Borgo, proprio perché i nuovi lotti porteranno fra le 80 e le 100 unità abitative, con circa 290 nuovi abitanti.

Un’altra novità, per la cui realizzazione si sono verificati feroci scontri in consiglio comunale, è la possibilità di mettere direttamente in comunicazione la nuova lottizzazione con la parte più vecchia del paese attraverso via Brigate Alpine e la costruzione di un ponte sul Prognolo.
Ipotesi scartata in un primo momento dalla maggioranza, perché si voleva impedire il traffico di transito nella lottizzazione.

Il problema è stato risolto disegnando la nuova strada, ma con accesso riservato ai residenti muniti di scheda magnetica, mentre per tutti gli altri si potrà accedere da via Borgo e da via Italia Nuova, con ingresso da via della Levà.

Per questo nuovo accesso alla lottizzazione e per quello del parco giochi è previsto anche un passaggio pedonale e ciclabile in Via Brigate Alpine e in piazza Samiz.
Secondo il sindaco i lottizzanti si sono impegnati inoltre a presentare in via preventiva progetti architettonici di qualità elevata, che siano anche di esempio per ogni successiva edificazione nel paese.

Adesso manca il via libera della Soprintendenza per le modifiche al piano e si dovrà ancora andare a trattativa fra Comune e lottizzanti per l’accordo economico in merito ai lavori da eseguire sull’area archeologica.

Quanto ai ritrovamenti, Luciano Salzani, direttore archeologo del Nucleo operativo di Verona della Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto, ha comunicato che entro fine mese sarà completata la campagna di scavo nell’area finora scoperta.

E che a vendemmia conclusa si potranno fare dei sondaggi anche nel vigneto vicino alla fontana di Arano, che dai nuovi accordi sarà destinato ad entrare nella lottizzazione come area edificabile.

Fonte: srs di Vittorio Zambaldo da L’Arena di Verona di  lunedì 15 ottobre 2007 provincia pag. 21




Verona: I tesori archeologici di Arano di Cellore di Illasi  sbarcano in città



Calco di una tomba esposto al museo

Verona: Oggi l’inaugurazione nelle sale di Palazzo Pompei a Verona

Sono storie sepolte quelle venute alla luce ad Arano, località di Cellore d’Illasi destinata a una lottizzazione non ancora avviata, ma i cui sondaggi preliminari, predisposti dalla Soprintendenza ai beni archeologici del Veneto, hanno permesso la scoperta di una necropoli del Bronzo antico, databile fra il 2200 e il 1600 avanti Cristo.
«Storie sepolte», perché sono ancora tante le informazioni che può dare questo eccezionale ritrovamento scavato tra febbraio e ottobre dell’anno scorso, è anche il titolo scelto dal Museo civico di storia naturale di Verona per la mostra, voluta dall’assessorato alla cultura e che per la prima volta espone il corredo trovato ad Arano, assieme ad altri luoghi e ad altri riti coevi del Veronese.


Sarà inaugurata oggi 21 ottobre, alle 17, con la professoressa associata di metodologia della ricerca archeologica Daniela Cocchi Genick, che spiegherà la vita spirituale di quegli antichi abitatori della fascia pedemontana, con il direttore del progetto scientifico Luciano Salzani, con Angelo Brugnoli e Paola Salzani a illustrarne i contenuti.
La mostra sarà visitabile a Palazzo Pompei, in lungadige Vittoria da sabato 25 ottobre al 30 giugno 2009, con un’aula didattica a disposizione delle scuole da mercoledì 29.
Grandi pannelli con testi brevi e chiari, accompagnati da foto e cartine che documentano l’area di scavo e le fasi dell’intervento, introducono il visitatore alla comprensione dell’eccezionalità del ritrovamento.


Le vetrine mettono in mostra gli oggetti recuperati, un corredo poverissimo, com’è spiegato in un pannello e che rappresenta un altro dei misteri: le ossa di alcune sepolture non risultano nella posizione originaria, tipica del periodo, con i corpi rannicchiati, le mani sul volto, gambe e braccia raccolte vicino al busto, ma «sconvolte» in un disordine che può essere stato determinato da infiltrazioni d’acqua, di piccoli animali, ma anche dall’intrusione di predatori di tombe che abbiamo cercato oggetti di valore.

Sono 14 su 62 le tombe che hanno restituito del corredo, rappresentato per lo più da collane di conchiglie o pietre, pendagli, oggetti di metallo.
Il reperto più elaborato è la lama di un pugnale in bronzo «tornato dalle analisi archeometallurgiche che ne hanno determinato l’appartenenza al periodo del Bronzo antico», rivela Luciano Salzani, direttore archeologo del Nucleo di Verona della Soprintendenza.


Elemento di richiamo e di mistero è la piattaforma megalitica triangolare, più antica rispetto alla maggior parte delle sepolture, risalente probabilmente alla fine dell’età del Rame (2.500-2.200 avanti Cristo), presentata con foto aree e un’ipotesi ricostruttiva, realizzata al tratto da Franco Tempesta.
Saranno d’effetto anche i calchi fatti realizzare dall’amministrazione di Illasi, che rendono al visitare l’idea di come sono stati trovati i corpi.

«Da 30 anni il Museo lavora in sinergia con la Soprintendenza», sottolinea Alessandra Aspes, direttrice del Museo civico, «e il nostro compito precipuo è divulgare la conoscenza anche nei pochi spazi che abbiamo a disposizione». (V.Z.)



Fonte: L’Arena di Verona martedì 21 ottobre 2008 provincia pag. 31

sabato 26 dicembre 2009

Cocollo di Tregnago di Verona (07 luglio 1955): scoperte dal Prof. Giovanni Solinas importanti Reliquie preistoriche; la leggenda del lago scomparso

Reliquie preistoriche a Cocollo di Tregnago. Importante scoperta del Prof. Giovanni Solinas. Rimasto, ospite per qualche giorno nel noto artista del ferro battuto Berto da Cogollo, il paletnologo prof. Giovanni Solinas ha scoperto nella zona di Cogollo di Tregnago un vasto ed importante abitato preistorico che risalirebbe almeno al paleolitico superiore.

Come il prof. Solinas sia giunto a tale scoperta è presto detto:

« Seguendo le tracce di una antica leggenda tregnaghese che narra esistere presso Cogollo un lago,  un lago misteriosamente scomparso nei secoli - ci racconta il paletnologo - potei accertare che  effettivamente ed esattamente ad est: della contrada « Lago» esiste un ampio pianoro arginato tutt’intorno e disseminato di innumerevoli  manufatti litici.  Tale pianoro, doveva, senza dubbio alcuno essere abitato decine di millenni or sono e racchiudere probabilmente un villaggio palafitticolo sommerso nel corso dei secoli da una delle moltissime piene del Progno. Scavi  sistematici sul posto non potranno che dare risultati positivi ».

« Aggiungerò, inoltre - ha proseguito il prof. Solinas -   che il villaggio in parola non era il solo abitato nella zona, - poiché tutto l’ampio anfiteatro collinare che racchiude e  difende dai venti del Nord le  due contrade di Cogollo lungo la strada Tregnago-Badia Calavena è formato dal monte, “ I Comuni “ ed il colle del “ Castel” scende tutto a terrazzature antichissime che hanno dato anch’esse innumerevoli, oggetti preistorici ».

« Sul monte  “I Comuni”, dove abbondano gli arnioni silicei ed è oggi ricoperto da un bosco di castani secolari, esistevano le « officine» delle genti paleolitiche e di ciò fanno fede i cumuli di selci scheggiate  che vi si possono rinvenire»

« Sopra l’abitato di Cogollo inoltre, nella località  «Castel », palesissime sono le  tracce di un « castelliere »  protostorico. Molte costruzioni vennero sfortunatamente  distrutte da lavori fatti sul posto, compresa, la base di  una torre circolare che si trovava sul culmine del colle rimasto fortificato anche  in  tempi romani. Assai giustamente  quindi il prof. Dante Olivieri sui suoi, “ Studi di  toponomastica  Veneta” vede l’origine del nome Cogollo  da Cucullus - culmine, fatto a cappuccio».

«Su tale “Castel” io raccolsi - continua il paletnologo prof. Solinas - numeroso  materiale  preistorico comprendente frammenti di vasi, ossa lavorate, cuspidi, raschiatoi di selce ed identificai l’antichissima strada oggi abbandonata (che dal “Castel” conduceva ai “Comuni”) sempre seguendo la, dorsale collinare e quindi al Monte Fajardàn, pure esso importante per le reliquie preistoriche ivi rinvenute».

« Ma per concludere – ci dice ancora il prof. Solinas, con un improvviso sorriso - la notizia della scoperta con una suggestiva nota di folklore locale: eccovi una leggenda riportata dal parroco del paese don Domenico Nordera nel suo volume « La parrocchia di San  Biagio di Cogollo»:

«Presso il paese di Cogollo - racconta il sacerdote – nell’amena valle di Tregnago, c’era anticamente un piccolo lago placido ed azzurro che ora non c'è più.
Viveva in questa valle un re, che aveva, un unico figliolo bellissimo e buono il  quale in cocente giorno di  luglio si tuffò nel laghetto per rinfrescarsi  e nuotare. E, mentre nuotava e scherzava con l’acqua ghiacciata e trasparente il  fondo del laghetto ad un tratto si inabissò e formò un vortice così violento, che il povero principino ne fu miseramente inghiottito.
Il re e la regina, pazzi dal dolore per questa perdita inaspettata ed acerba, vollero punire il lago che aveva rapito il loro tesoro più  caro e, per consiglio di una maga, gettarono nell’acqua tutto l’argento vivo che poterono trova re nel loro regno.
Ed ecco che, conforme appunto alla predizione della maga, il metallo ebbe il potere di distruggere il lago, che a suo tempo scomparve. Ma  del  principino non si trovarono nemmeno le ossa»

Concludendo - ci ha detto  il prof. Solinas - possiamo dire che qui; la leggenda è diventata una realtà.


Fonte: srs di  GIROLAMO TEZZI  da Paese Sera del 07 luglio 1955



(VR 26 dicembre 2009)