Una figura vicina al popolo, che conduceva la guerra con trucchi, astuzie e inganni. Un uomo servo utile del progetto massonico, cui le logge riservarono sempre onore e protezione
Che storta e mito spesso procedano parallelamente e che la prima debba fare i conti con il secondo era cosa già nota alla storiografia antica, come dimostra la celebre affermazione con cui Tito Livio inizia la sua “Historia ad Urbe Condita”. Dinanzi alla necessità di prendere posizione rispetto ai miti che circondavano la fondazione di Roma, lo storico patavino appare diviso tra il rispetto dei miti tradizionali e le esigenze della storiografia razionale, ma risolve l’apparente contraddizione affermando che una città grande come Roma aveva bisogno di grandi miti che ne nobilitassero le origini umili. Livio esprimeva in termini letterari quella che era ed è la consapevolezza di sempre.
Non esiste fenomeno storico-politico che non cerchi in qualche modo di nobilitare le proprie origini attraverso dei miti che, spessissimo, la storia dimostra impietosamente privi di vero fondamento. Se a questa verità, già tanto evidente alla storiografia antica, si aggiunge quella icasticamente espressa da Hegel nel la sua definizione della storia «la storia la scrivono i vincitori» si è finalmente di fronte alla giusta prospettiva per rileggere il fenomeno “Giusppe Garibaldi” .
Garibaldi entra nella storta del cosiddetto Risorgimento italiano come mito e come mito resta nella. nostra storia. Dopo l'ammonimento di Carlo Cattaneo ai Milanesi in occasione delle Cinque Giornate di Milano a diffidare dell'aiuto sabaudo, la Lombardia non avrebbe accettato una guerra regia e piemontese allo stato puro.
Garibaldi rappresentava il correttivo democratico, la giusta dose di illusione per ammaliare un popolo da sempre amante della libertà. E chi meglio di Garibaldi poteva svolgere questo ruolo? Sanguigno nei suoi amori, popolano e persino grossolano nei modi, astuto come il corsaro che a lungo era stato, forse costretto a portare per tutta la vita i capelli lunghi per coprire l’ignominia dell’orecchio mozzato in Sudamerica, come s’usava per i ladri di cavalli, Garibaldi era predestinato o, più probabilmente, fu prescelto per il ruolo di icona popolare del Risorgimento, in luogo dell’improponibile Savoia.
Un uomo certamente audace, certamente astuto; un avventuriero fortunato, attento alle simbologie popolari (le camice rosse...), ma soprattutto un servo utile del progetto massonico, cui le logge riservarono sempre onore e protezione.
Quando, dopo l’11 luglio 1859, con l’armistizio di Villafranca, apparve chiaro che non si poteva più contare sull’appoggio francese, Garibaldi dal suo quartier generale di Lovere iniziò ad arruolare
un corpo di volontari per proseguire la guerra di popolo.
È evidente che una tale iniziativa non poteva essere presa se non con l’'appoggio della monarchia e della diplomazia sabauda, che, in tal modo, conseguiva due grandi scopi: la continuazione della guerra con altri metodi e l’azione di propaganda nel far passare se stessa come fattore di moderazione rispetto al pericolo democratico, se non anarchico.
Ai popoli che amano la libertà occorre dare almeno l’illusione della libertà.
C’era bisogno di una figura in qualche modo popolare, vicina al popolo non solo nei modi quotidiani, ma anche nella maniera di condurre la guerra, per mezzo di piccoli trucchi, astuzie e inganni. Per il resto, a garantire l’approdo dei Mille in Sicilia c’erano i soldi dei Savoia (ricavati dai beni rubati alla Chiesa con le secolarizzazioni), l’azione coordinata delle massonerie d’Italia e l’appoggio della flotta inglese nel Mediterraneo. I libri di storia - ormai solo quelli scolastici - parlano di uno sbarco a Marsala tra folle acclamanti e di una fulgente vittoria a Calatafimi.
In realtà a Marsala non ci fu alcuna calorosa accoglienza e, anzi, come ricorda lo stesso Ippolito Nievo, i marsalesi avevano già prudentemente provveduto a nascondere non solo i denari delle casse comunali, ma anche i beni di famiglia. A Calatafimi circa duemila garibaldini non si scontrarono con altrettanti borbonici, come vuole la Vulgata storiografica, per il semplice fatto che a questi ultimi, misteriosamente, fu ordinato di ritirarsi. E non sono pochi gli storici che parlano di tradimento da parte del generale borbonico Landi, indicando anche la somma, promessa ma mai elargita,di quattordicimila ducati. Il Regno delle Due Sicilie non fu conquistato, ma comprato, con fiumi di oro massonico nelle tasche di alcuni ufficiali borbonici.
Poco dopo, un Carlo Cattaneo che ancora osava sperare in un’evoluzione federalistica del processo di annessione delle regioni della penisola a opera della diplomazia sabauda si precipitò a Napoli per incontrarvi Garibaldi, ma se ne allontanò prestissimo. pesantemente deluso nelle sue aspettative.
Il “generale” appariva del tutto privo di una vera visione politica, già in balia del proprio gusto per l’autocompiacimento, insistentemente accarezzato da quella modestissima italietta che, al suo sorgere, aveva disperato bisogno di figure in qualche modo mitologiche da proporre all’ammirazione di un popolo che la sua classe dirigente, peraltro, disprezzava profondamente.
I “napoletani” (o l’un per cento di essi) votarono l’annessione, tra due ali di soldati schierati presso le urne, con le baionette innestate.
La democrazia, per lorsignori, era ed è votare, finche non si conferma quel che loro hanno già deciso nelle venerabili logge.
Repubblicano mazziniano convertito all’idea monarchica in nome - diceva lui - della necessità di fare l’Italia unita. Garibaldi non aveva alcuna considerazione per le identità e la storia dei popoli che incontrava. Per lui non si trattava altro che di masse, di materia informe, da plasmare o, meglio, da lasciar plasmare dalla “nuova”classe dirigente.
Il suo rispetto per il popolo e per la sua esigenza di giustizia - quella che gli portò vicino qualche povero illuso - era tanto e tale da comandare al suo vice Nino Bixio di andare a rimettere ordine tra i braccianti che a Bronte avevano di loro iniziativa espropriato i latifondi. Bixio e i suoi plotoni di esecuzione a Bronte non sono un incidente di percorso del Risorgimento. Ma il primo emergere di una costante, quella che porta Umberto I a decorare il generale Bava Beccaris per aver eroicamente massacrato a cannonate gli operai e i disoccupati di Milano, donne e bambini compresi.
La stessa che porta Cadorna a ordinare le decimazioni sulla linea del Piave, un soldato (italiano) ogni dieci fucilato per far capire che cos’è la disciplina.
Lo stesso cinismo che porta Mussolini nel 1914 ad abbandonare il socialismo e ad aderire all’interventismo filo francese e, nel 1940, a parlare della necessità di gettare sul tavolo delle trattative di pace qualche migliaio di morti, dichiarando guerra alla Francia.
Lo stesso cinismo, la stessa inettitudine, il grande generale, abilissimo nelle piccole astuzie, si dimostrò troppo spesso incompetente sul piano delle grandi strategie militari. Era capace di vincere delle piccole battaglie, ma non possedeva delle strategie a lungo termine.
La tanto esaltata vittoria di Bezzecca del 1866, l'unica vittoria italiana nella terza guerra di indipendenza (che in realtà non è, a sua volta, nient’altro che un episodio marginale della guerra austro-prussiana, del tutto assente sui libri di scuola europei) non ebbe alcuna incidenza strategica reale sull’esito di quella guerra e, se si considerano i dati numerici nella loro crudezza, è un classico esempio di vittoria di Pirro. Le perdite austriache ammontarono infatti a 25 uomini, tra soldati e ufficiali, mentre gli italiani ebbero circa 100 morti, 250 feriti e più di 1100 prigionieri.
Garibaldi, come ce l’hanno presentato, semplicemente non è mai esistito. È un’invenzione di questa povera italietta bisognosa di poveri miti. Un metro cubo di bugie e di illusioni.
Fonte: srs di Giuseppe Reguzzoni da la Padania di domenica 11 agosto; pag.20
(VR 29 dicembre 2009)
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