giovedì 31 marzo 2011

La Libia che in questi giorni non si legge sui giornali


Sono stato in Libia, da lavoratore, fino al 21 febbraio scorso quando, costretto dagli eventi, ho dovuto abbandonarla con l’ultimo volo di linea Alitalia.

Ho avuto modo di conoscere gran parte del Paese, da Tripoli a Bengasi, a Ras Lanuf a Marsa El Brega a Gadames, non frequentando gli ambienti dorati, ovattati e distaccati dei grandi alberghi, ma vivendo da lavoratore tra lavoratori e a quotidiano contatto con ambienti popolari, sempre riscontrando cordialità e sentimenti di amicizia per certi versi inaspettati e sorprendenti. Non era raro per strada sentirsi chiedere di poter fare assieme una fotografia da chi si accorgeva di stare incrociando degli italiani, peraltro numerosissimi anche per le tantissime imprese che vi operavano, dalle più grandi (ENI, Finmeccanica, Impregilo ecc.) alle più piccole (infissi, sanitari, rubinetterie, arredamenti ecc.), in un ambiente favorevolissimo, direi familiare…

Da quello che ho potuto constatare il tenore di vita libico era abbastanza soddisfacente: il pane veniva praticamente regalato, 10 uova costavano l’equivalente di 1 euro, 1 kg di pesce spada circa 5 euro, un litro di benzina circa 10 centesimi di euro; la corrente elettrica era di fatto gratuita; decine e decine di migliaia di alloggi già costruiti e ancora in costruzione per garantire una casa a tutti (150-200 m2 ad alloggio….); l’acqua potabile portata dal deserto già in quasi tutte le città con un’opera ciclopica, in via di completamento, chiamata “grande fiume”; era stata avviata la costruzione della ferrovia ad alta velocità e appaltato il primo lotto tra Bengasi e il confine egiziano della modernissima autostrada inserita nell’accordo con l’Italia; tutti erano dotati di cellulari, il costo delle chiamate era irrisorio, la televisione satellitare era presente sostanzialmente in ogni famiglia e nessun programma era soggetto a oscuramento, così come internet alla portata di tutti, con ogni sito accessibile, compreso i social network (Facebook e Twitter), Skype e la comunicazione a mezzo e-mail.

Dalla fine dell’embargo la situazione, anche “democratica”, era migliorata tantissimo e il trend era decisamente positivo: i libici erano liberi di andare all’estero e rientrare a proprio piacimento e un reddito era sostanzialmente garantito a tutti.

Quando sono scoppiati i primi disordini, la sensazione che tutti lì abbiamo avuto è stata quella che qualcuno stava fomentando rivalità mai sopite tra la regione di Bengasi e la Tripolitania, così come le notizie che rilanciavano le varie emittenti satellitari apparivano palesemente gonfiate quando non addirittura destituite da ogni fondamento: fosse comuni, bombardamenti di aerei sui dimostranti ecc.

Certamente dal punto di vista democratico i margini di miglioramento non saranno stati trascurabili, del resto come in tanti altri paesi come l’Arabia Saudita, la Cina, il Pakistan, la Siria, gli Emirati Arabi, il Sudan, lo Yemen, la Nigeria ecc. ecc… e forse anche un po’ da noi! Pertanto prima o poi qualcuno dovrà spiegare perché in questi Paesi non si interviene…
Sono triste e amareggiato al pensiero di come sarò considerato dagli amici libici che ho lasciato laggiù dopo questa scellerata decisione di stupidissimo interventismo!

Fonte: srs di Guido Nardo (ingegnere Gruppo ENI); da Appello al popolo,  commento letto su Conflittiestrategie de  28/marzo/2011


mercoledì 30 marzo 2011

I giornalisti sono talmente venduti che le prostitute sono esempi di castità


Molti anni fa, lavoravo in un giornale  veneto e,  in pausa caffè, si stava cazzeggiando  sulla moralità di alcune professioni, quando un vecchio giornalista  uscì con : “Se è per questo, i giornalisti sono talmente venduti che le prostitute  sono esempi di castità,  per loro è poco più di un’ attività fisica,  noi mercifichiamo il cervello”.
Senza aver l’esigenza  di ricordarsi delle parole di John Swinton,   mai come oggi,  e soprattutto  in questo momento con la  guerra alla Libia, si  ha la  sensazione   che questo paradosso  si avvicini alla realtà.

martedì 29 marzo 2011

Fu il clima a causare la Rivoluzione Francese.

Presa della Bastiglia

Forse non tutti sanno che alcuni degli elementi che hanno contributo allo scoppio della rivoluzione Francese vanno ricercati nelle condizioni meteorologiche degli anni che la precedettero. 
Una panoramica su come siccità, piogge torrenziali ed inverno rigido sono state concause nello scoppio della rivoluzione.

Alla fine del XVIII secolo  l’  80% della popolazione francese era composta principalmente da contadini.  In quei tempi la classe contadina versava in condizioni di povertà  ed  il loro sostentamento era legato sostanzialmente al  pane e ai cereali.

L’inverno  del 1785 e la primavera risultarono parecchio siccitose  e ridussero del 30% la produzione di cereali, con il risultato che il prezzo del pane  e dei cereali salì rapidamente mettendo a dura prova la popolazione

Fortunatamente, nei due anni successivi, le piogge ed i raccolti furono abbastanza  abbondanti ed il prezzo del pane scese, scongiurando il pericolo della fame.

Allora come adesso, l’agricoltura era fonte di  valuta e le eccedenze di grano non furono conservate, ma il governo le destinò all' esportazione.

La scelta si rilevò poco felice perché l’anno successivo nel, 1788, la siccità si ripresentò molto più forte rispetto al 1785,  se  si aggiunge poi che le  temperature della primavera 1788  furono molto elevate con punte superiori ai 32-34 gradi,  il risultato fu   che  mandarono praticamente  in fumo quasi tutto il raccolto di cereali.

Ma il destino è beffardo e crudele,  dopo la grande siccità, a metà luglio dello stesso anno, sulla Francia centrale, si abbatté un tempesta di pioggia e grandine che distrusse il raccolto dell'uva, allora come adesso,  fiore all’occhiello della agricoltura francese e di grande importanza per l'economia del paese.

Nell'estate del 1788, la carestia,  e  il continuo rialzo del prezzo del pane, portò allo scoppio di sommosse popolari: le famose "rivolte del pane".

Ma come spesso  capita, le disgrazie non arrivano mai da sole:  l'invero successivo si presentò come uno dei più freddi inverni d’ Europa; le temperature scesero sotto zero e Parigi toccò la temperatura record di -22 °C..
L'inverno fu così freddo che i  fiumi e i laghi si ghiacciarono  rendendo impossibile la navigazione e causarono la chiusura dei mulini  e dell’industria  legata alla forza motrice dell’acqua.   Fu l’inverno che in Italia gelò anche la laguna di Venezia.

Il risultato fu che la carestia dilagava e  il prezzo della farina  rimasta continuava a salire. 
Le sommosse del costo del pane  continuarono  ed  all'inizio del maggio del 1789, iniziarono ad assumere un tono ancor più politico,  capeggiato ora anche dalla borghesia che chiedeva l'abolizione dei privilegi della nobiltà.
Alla fine, nell'estate del 1789, una popolazione ridotta alla fame, e con la classe media in subbuglio e desiderosa di potere contro la nobiltà, portò, il 14 Luglio, alla presa della Bastiglia.


lunedì 28 marzo 2011

Napoleone Bonaparte, il più grande ladro del mondo! Depredando la Padania ha salvato la rivoluzione francese



Napoleone, figlio di Carlo noto capo rivoluzionario anti genovese,  quando  nel  1789 scoppiò la Rivoluzione era sottotenente d'artiglieria.  L'economia francese entrò in grave crisi negli anni successivi, dato che, nel cosiddetto “periodo del “terrore", l'unica macchina che lavorava era la ghigliottina! Tuttora non si sa quante teste siano cadute, ma il  risultato fu che Parigi rimase senza intellighentia e il  popolo rimase senza pane e lavoro!
Per far finire il "terrore", all'ultimo dovettero tagliare la testa anche a Robespierre!  Era inevitabile che l'economia francese  entrasse in crisi.

Per tamponare la situazione, la flotta militare fu messa in disarmo a Tolone, poiché mancavano i soldi per pagare gli equipaggi, l'esercito fu smobilitato e molti ufficiali mandati a casa.  Napoleone, trattenuto a Parigi, si salvo perché  aveva un santo protettore: il deputato corso Antoine Saliceti, il cui nome di battesimo era Cristoforo, amico e compagno di lotta del padre contro gli odiati genovesi.

Nell'inverno del 1795, Parigi era diventata una città allucinante, popolata solo da "miserabili", alla ricerca di un tozzo di pane con cui sfamarsi. Tanti morirono di fame e di freddo, e non se ne è mai saputo il numero preciso perché il Direttorio si guardò bene dal dirlo.  Lo  stesso Napoleone il 18 ottobre 1976 stroncò una sollevazione popolare a Parigi.  

Ormai  la rivoluzione francese aveva imboccato un vicolo cieco quando a Napoleone ed al Saliceti venne in mente, per salvare il Direttorio giacobino, di recuperare i "Luigi d'oro" dati dal Re, al Banco di San Giorgio, per la cessione "temporanea" della Corsica.
La proposta fu approvata dal governo rivoluzionario poiché ero l'ultima carta da giocare. Ai due corsi fu data perciò carta bianca!

Per intimorire il  Doge genovese, ci voleva un comandante di origine  corsa.  Il corso più alto in grado e fidato era Napoleone Bonaparte  che, avendo solo 27 anni, era appena capitano d'artiglieria.  Il Saliceti propose al Direttorio di fargli saltare i gradi intermedi, nominandolo subito generale di brigata!
Napoleone quindi  fu nominato comandante dell'armata d'Italia e mandato a Nizza, nel gennaio 1796, con solo 38.000 soldati, mentre a Genova fu mandato un certo Faypoult.

La Repubblica di Genova era uno degli stati più ricchi d’Europa, e possedeva il Banco di San Giorgio la più importante banca europea. L'organigramma della struttura diplomatica era imponente: aveva nel 1796, sei  ambasciate (Londra, Madrid, Roma, Vienna, Torino, Parigi) e ben 58 consolati in tutto il mondo!

Dopo due settimane, quando l'invasione di Nizza era nota a tutti, arrivò a Genova un strano personaggio:  era il  9 febbraio 1796 e prese alloggio in Piazza Fontane Marose, era il ministro delle Finanze Guillaume Faypoult,  ciò dimostra l'eccezionale importanza della missione del ministro  che doveva salvare dalla bancarotta il  governo francese.

A Parigi soldi non ce n'erano più. Non c'era lavoro, ma solo fame e miseria. La Rivoluzione stava finendo nella vergogna e nel ridicolo.  Compito estremo del Faypoult:  farsi “prestare” i soldi della Corsica “spontaneamente” dai genovesi stessi.  Poi, possibilmente, fare il colpo di stato e quindi nominare un capo fidato e servile alla Francia stessa.  Faypoult mica poteva stare in eterno a Genova.

Lo scaltro ministro prese contatto col comitato cittadino filo-giacobino, facendo spargere la voce che il generale "Corso" Napoleone era in attesa di suoi ordini per occupare la Liguria.
Quando si diffuse tale notizia, successe un vero pandemonio a Genova: i popolani, entusiasti, aspettavano Napoleone come i comunisti aspettavano Stalin nel dopoguerra! Per le strade i nobili venivano salutati col gesto delle ghigliottina! Anche il clero era intimidito!

La presenza dell'armata di Napoleone, a Nizza, serviva da deterrente nei colloqui tra Faypoult e il doge. Infatti il ministro francese assicurò il doge che la Francia avrebbe rispettato la sicurezza della nazione se, in cambio avesse ottenuto un prestito di circa 40 milioni di lire, necessari a risolvere la grave crisi economica seguita alla rivoluzione. 

Il doge riunì il Minor Consiglio, il quale decise di non concedere il prestito, anche perché i governi inglese ed austriaco supplicarono il Genova, il Piemonte e Venezia, di entrare a far parte di un’alleanza anti-francese. La proposta fu accettata dai Savoia, ma non dalle due Repubbliche Marinare che, con questo gravissimo errore, perderanno l'indipendenza. Esse preferirono proclamare la "neutralità disarmata",  trovata ridicola da Napoleone.

Informato dal doge sul voto negativo del Minor Consiglio, Faypoult chiese un prestito di almeno 6 milioni di lire, più i 4 dati dal re di Francia per l’acquisto della Corsica, ritenuti abusivi dal governo giacobino. In caso contrario l'armata napoleonica avrebbe invaso la Liguria.

In questo tira e  molla, Napoleone, con il famoso proclama di Nizza del 31 marzo del 1796,"Siete nudi e mal nutriti. Il governo ha con voi molti obblighi e nulla può fare per voi. La pazienza, il valore mostrato fra queste montagne sono mirabili, ma non vi procacciano gloria, né illustrano il vostro nome. Io vi condurrò nelle più fertili pianure del mondo; città grandi, doviziose province, verranno colà, in vostra mano; colà troverete onore, gloria, ricchezze ....”,  rompe gli indugi e  invade la riviera di ponente arrivando a Savona, trionfalmente accolto dalla popolazione, già avvisata dalla divulgazione di volantini, distribuiti dai massoni locali.

Siccome Napoleone aveva dato la parola d'ordine ai soldati: "C'est L'argent qui fait la guerre" , tutte le chiese, le case signorili e i municipi incontrati furono spogliati di tutti gli averi e le argenterie mandate alla zecca di Parigi, da sette anni inattiva ...

Se gli storici si fossero premurati di conoscere la situazione della zecca parigina, avrebbero scoperto ch'essa era chiusa da anni per mancanza di metalli pregiati. Le ultime monete coniate furono i «Luigi d'oro" del 1789.
La coniazione fu riattivata nel 1796, quando fu stampato un nuovo pezzo d'argento del peso di 5 grammi.

Questa strana coincidenza, tra le razzie francesi in Italia e la riattivazione della zecca parigina, dimostra in maniera lampante che l'idolatrato Napoleone aveva predisposto reparti speciali per impossessarsi delle argenterie nostrane che venivano spedite a Parigi per essere fuse in lingotti  e coniate in tanti sonanti franchi da 5 grammi! Perciò tutte le monete datate 1796 furono fatte con vasellame razziato in Italia!

Dal rendiconto emesso a fine anno 1796 dalla zecca parigina, risulta che furono coniate monete d'argento  per un valore di 51 milioni di lire oro  che salvarono il Direttorio dal baratro finale.

Napoleone, da Savona, andò in Val Padana  poiché fu avvertito che la Repubblica aveva spedito 6 milioni di lire in contanti a Parigi. Però i conti col doge rimasero aperti, dato che la cospirazione contro di lui continuava lo stesso. 

Contemporaneamente  un esercito alleato austro-piemontese si preparò a Cairo Montenotte per sbarrare la strada all'armata francese; però fu battuto facilmente dato che molti soldati, anziché combattere, si arrendevano, poiché anche loro sobillati da volantini contro i ricchi e i nobili dei loro paesi.

Nel frattempo il diabolico “commissaire Saliceti”  aveva preparato le insurrezioni di Milano, Brescia, Modena, Reggio Emilia, Bologna, Ferrara e la Romagna, tutte insorte per aspettare l'arrivo del liberatore dei popoli, dalla schiavitù dei ricchi  ma, al passaggio dell’esercito,  furono sequestrati nei cascinali:  cavalli, carri, bestiame, sacchi di grano, vettovaglie e persino i vestiti dei contadini, ai quali furono lasciati soltanto gli occhi per piangere  in cambio di semplici buoni di carta pagabili al più presto possibile. Cosa poi non avvenuta.
 Arrivato Napoleone,  quelle città furono depredate di tutto dalle soldataglie francesi  che spogliarono le casse comunali, musei, chiese, case agiate, etc ...
Ed il tutto mandato a Parigi, per attenuare la carestia della capitale, trasformata in una città di miserabili.

In tutte le città italiane liberate  si formarono governi liberi, in apparenza, ma in realtà nominati dalle logge massoniche, dipendenti dalla loggia madre di Parigi. Fu fondata la Repubblica Cisalpina, che servirà a procurare al Bonaparte tributi, soldati e vettovaglie gratis per le future campagne napoleoniche. In realtà i padani  diventeranno vassalli e servili alla politica imperiale francese.

Antoine Saliceti, insediatosi nella Prefettura di Milano, dove tirava i fili delle logge italiane, dichiarò che scopo della framassoneria era quello di fare un'Italia unita, ponendo fine allo Stato Pontificio ed alle Repubbliche di Genova e Venezia.

Circa l'entità delle somme estorte note troviamo: 30 milioni dal papato (per evitare l'invasione dello Stato Pontificio) 20 milioni a Milano, 10 a Modena, 6 a Genova e Venezia, 4 a Bologna e Ferrara, 2 a Parma; per non parlare dei saccheggi dei magazzini cittadini, dei negozi, delle argenterie delle chiese e case signorili.

Da un resoconto del commissario Garrau, l'esercito francese avrebbe rastrellato 45 milioni di lire più altri 12 in ori, argenti ed oggetti preziosi vari. La valle padana fu depredata da un esercito inesorabile di briganti.  E’  il tutto mandato a Parigi, per attenuare la carestia della capitale,  appena in tempo per evitare la controrivoluzione che avrebbe tagliato la testa ai massoni-giacobini.

Intanto a Genova, il neo presidente Corvetta, studiò il sistema per mandare a Parigi altri capitali.
Con decreto datato 12 febbraio 1798, varò una tassa incredibile: quella sulle "finestre" (erano esenti i liguri che avevano meno di 5 finestre),  che però diede un introito modesto di sole L. 350.000, cifra irrisoria per Napoleone che stava preparando la spedizione per conquistare l'Egitto.
Così Corvetto varò un'altra operazione assurda: «Date l'oro alla Patria ». Anche essa con scarsi risultati: pochi ingenui portarono l'argenteria di casa all'ammasso, situato a Palazzo Nazionale (così era stato ribattezzato Palazzo Ducale).

Visto il  fallimento dell'operazione “oro alla patria” e pressato dal Direttorio parigino (sempre in grave crisi finanziaria), il Direttorio giacobino genovese, nel mese di aprile 1798, promulga una clamorosa delibera: la requisizione di ori, argenti e gioie di tutte le chiese, monasteri, conventi, oratori, e opere pie della Liguria, per i bisogni dello Stato, lasciando solo gli oggetti sacri strettamente necessari a ciascuna chiesa.

Prima di dare inizio a questa incredibile rapina, era indispensabile impaurire il Cardinale Lercari.  Il  Cardinale fu convocato perentoriamente a Palazzo Nazionale, dove il  Corvetto  lo minacciò di far chiudere gli edifici religiosi  se i rettori non avessero ottemperato alle disposizioni governative. Il Cardinale dovette acconsentire, ordinando al clero ligure di obbedire ai "cittadini requisitori".

Come si sia svolta la raccolta degli oggetti sacri non è dato sapere.
E' ragionevole supporre che i comitati requisitori  abbiano fatto il giro delle chiese del loro entroterra portando il  tutto in prefettura.  Oltre all'argenteria furono asportate le campane di bronzo, che sarebbero state fuse in Francia per farne tanti cannoni ...
Ai parroci furono rilasciate generiche ricevute per un sollecito rimborso.  Evidente anche la presa in giro.
Risulta comunque che tanti parroci dell'entroterra  riuscirono a salvare oggetti e campane, nascondendoli nei campi circostanti.

Inoltre, con la scusa di false opposizioni, furono soppressi un centinaio di monasteri liguri, espellendo brutalmente frati e suore.  Una volta chiusi, essi furono completamente spogliati di ogni bene, compresi quadri di grande valore, finiti al Louvre di Parigi.

Ma i soldi da inviare a Parigi non bastavano mai: nel 1797 - sparisce anche il tesoro della repubblica . Era conservato nell' “Ufficio di Moneta” e serviva per pagare, oltre gli impiegati statali, anche tutte le grandi opere edili da Ventimiglia a Spezia. Mancando i fondi, tutte le imprese addette fallirono buttando sul lastrico migliaia di lavoratori.

Quanto ci fosse in cassa, Luigi Corvetto, presidente del governo, non lo ha mai dichiarato, però possiamo immaginare dove siano finiti quei soldi poiché, pochi mesi dopo, Napoleone si finanziò la famosa “Campagna d’Egitto”.

Incredibile a dirsi, a Parigi e in tutta la Francia non esisteva un istituto bancario, poiché il Tesoro del Regno era custodito nella reggia di Versailles.
Dopo il colpo di Stato del dicembre 1799, quando Napoleone diventò dittatore della Francia, egli si rese conto che, se voleva creare un impero superiore a quello inglese, doveva fondare nella capitale, una City come quella di Londra, per ottenere gli ingenti capitali occorrenti. E così il 18 gennaio 1800 fondò, a Parigi, la prima banca di Francia, come società per azioni.  I primi azionisti furono nove: gli otto tra fratelli e sorelle Bonaparte e l'onnipresente Antoine Saliceti! Essi speravano che tanti banchieri europei  trasferissero i loro capitali da Genova a Parigi, ma ciò ebbe poco successo.

Cosa vi era di meglio di mettere le  mani sul Banco di Genova?

1802 - COMINCIA LA RAPINA DEL BANCO SAN GIORGIO

È stata la più colossale rapina di tutti i tempi, senza che nessuno se ne sia accorto! Svanirono nel nulla migliaia di lingotti d'oro custoditi nella tesoreria del Banco San Giorgio, che godeva di extraterritorialità riconosciuta da tutti gli Stati europei.

La Repubblica Ligure, essendo aggregata alla francese perse il diritto a controllare il ricco Banco San Giorgio, obiettivo massimo del tandem Napoleone  Saliceti, sin dal l797. Intanto, sulla Gazzetta di Genova, cominciarono ad essere stampati articoli inquietanti sulla conduzione dell'istituto bancario, che definivano i 4 Protettori degli incapaci in materia economica!  
Ci voleva un grande economista del calibro di Luigi Corvetto per salvare il famoso Banco genovese ... E così un brutto giorno, il doge fantoccio, esautorò i 4 Protettori (dei quali mai si seppe il nome) e sostituì ad essi il Corvetto, nominato direttore unico e nello stesso tempo “giudice supremo del tribunale” .

Ad organizzare la rapina fu ovviamente l'ambasciatore Saliceti che fece arrivare, a più riprese, chiatte francesi attraccate in porto nottetempo e i lingotti prelevati dagli stessi fidati marinai, dopo che fu aperto loro il portone da chi ne possedeva la chiave: il direttore Luigi Corvetto! Le chiatte potevano risalire il Rodano fino a Digione, a soli 250 km da Parigi.

Una volta arrivati nella capitale, per smerciare i lingotti in Europa per ricavare valuta pregiata, occorreva un esperto e discreto banchiere che si chiamava James Rothschild, collegato con tre suoi fratelli che avevano sedi bancarie a Francoforte, Vienna e Londra.

Ad ogni modo, risulta che, nel corso del 1804, piano piano, tutte le settimane partivano carri militari da Palazzo San Giorgio pieni di pesanti bauli e dei "Cartulari" dell'istituto che comprendevano gli schedari di tutti i ricchi clienti europei, trasferiti alla neonata banca di Napoleone a Parigi ... Nessuno di costoro mai protestò, poiché trovò nella capitale francese i suoi capitali intatti ...
In data 28 dicembre 1804, il doge Gerolamo Durazzo, dichiarò fallito il Banco dopo cinque secoli ininterrotti di proficui guadagni.

Guarda caso, i fratelli Rothschild diventarono, di colpo, dopo la caduta del Banco genovese, la maggior potenza finanziaria del mondo e dopo, per 150 anni, la storia della celebre casata israelita è stata la storia segreta d'Europa!

Per averne un’idea, possiamo fare un paragone con il 1860, quando Garibaldi trovò nel Banco di Napoli il Tesoro del regno borbonico: 443 milioni di lire - oro, anche questi spariti per far bella Torino.  Siccome i due Tesori genovesi potevano avere una dotazione 10 volte superiore (come minimo),  possiamo stimare la somma di circa 4.500 milioni di lire - oro, sufficiente a costruire metà della Parigi di allora!

Delle malefatte di Napoleone i nostri libri parlano poco e gli italiani, non sanno ch'egli definì il popolo italico vile ed ipocrita, che doveva essere dominato con forza e durezza!

PS. Bisogna  sfatare un altro grosso falso storico ormai radicato, il quale dice che, mentre la Rivoluzione bolscevica fu proletaria, la Rivoluzione francese fu borghese.
In realtà, la Rivoluzione francese  fu solo  “demenziale e disperata",    era una rivoluzione  senza capo ne coda che, ormai fallita economicamente, fu salvata con i soldi genovesi e padani.
Bisogna invece dare merito, a quel genio di un ladro di Bonaparte, di aver inventato lui,  il primo governo borghese del mondo, che diventerà poi il modello per i paesi democratici occidentali.     

Fonte: liberamente tratto da srs di Vittorio Giunciuglio


domenica 27 marzo 2011

Porta Pia e la presa di Roma: il commento di Antonio Gramsci

I Bersaglieri alla presa di Porta Pia dipinta, nel 1871, da Michele Cammarano e conservata a Napoli, nel  Museo di Capodimonte .

Antonio Gramsci che  da grande studioso e del mondo che lo circondava, a proposito dei festeggiamenti del cinquantesimo anniversario della presa di Roma scrisse:

"Porta Pia non fu che un meschino episodio, militarmente e politicamente. Militarmente non fu che una grottesca scaramuccia. Fu veramente degna delle tradizioni militari italiane. Porta Pia rassomiglia – in piccolo- a Vittorio Veneto. Porta Pia fu la piccola , facile vittoria dell’aggressore enormemente superiore all’avversario inerme, come Vittorio Veneto fu facile vittoria contro un avversario che – militarmente- non esisteva più. Politicamente Porta Pia fu semplicemente l’ultimo episodio della costruzione violenta ed artificiale del Regno d’Italia. Tutto il resto è chincaglieria retorica. Le belle frasi Terza Roma sono completamente vuote di senso.
Roma è città imperiale e città papale: in ciò sta la sua grandezza universale. La “Terza Roma” non è che una sporca città di provincia, un sordido nido di travetti, di albergatori, di bagascie e di parassiti. Mentre le due fasi della storia di Roma, l’imperiale e la papale, hanno lasciato traccia immortale, la breve parentesi dell’occupazione sabauda lascia, unica traccia di sé, il Palazzo di Giustizia, statue di gesso e grottesche imitazioni decorative: nato tra lo scandalo dei fornitori ladri e dei deputati patrioti corrotti, esso è degno di albergare la decadenza giuridica della società contemporanea. Per questo la questione romana non è risolta. Non potevano risolverla le cannonate del re di Savoia. La violenza militarista non può risolvere i problemi internazionali. E la questione romana è un problema internazionale…”

Fonte: srs di Antonio Gramsci  da L’Ordine Nuovo, Rassegna Settimanale di Cultura Socialista, 2 Ottobre 1920 

sabato 26 marzo 2011

Verona, Piazza Corrubbio: Ma Flavio Tosi alzi la voce anche per San Zeno

Piazza Corrubio, chiesa di San Zeno   fondamenta dell'abside centrale 

È bastato che il sindaco Tosi facesse la voce grossa con le Ferrovie che stavano gigionando, come disea me pora mama, rimandando di giorno in giorno i lavori sul piazzale di Porta Nova» scrive la Olga «perché finalmente si mettessero in moto le ruspe.

Adesso, però, Tosi dovrebbe fare la voce grossa anche con la ditta che da agosto sta sventrando corso Milàn e che ha partorito finora solo una rotonda che fa angossa.

La Amelia, che abita da quelle parti, mi dice che i òmeni che stanno lavorando sono pochi e che si spónsano spesso. Suo marito, che prima di andare in pensione ha girato l'Europa col camion, dice che all'estero i lavori sulle strade si fanno ininterrottamente, giorno e notte e più di notte che di giorno per causare meno disagi possibili ai cittadini».

«Ricordo che la ditta che ha vinto l'appalto per corso Milàn, subito dopo essersi assicurata il lavoro ha mandato in ferie gli operai invece di cominciare subito. Ricordo anche che il ragionier Dolimàn aveva commentato che le ferie sono sacre come le vacche in India ma che l'assessor competente poteva scegliere una ditta che le ferie le avesse già fatte. Tosi dovrebbe alzare la voce anche per il cantiere che si è mangiato l'intera piazza corrubbio che, insieme a quella della Basilica, era fonte di vita per un quartiere, come quello de San Zen, che, fino al disastro, era l'unico della città a conservare ancora il proprio incanto de 'na olta, co' la so gente che si parlava di porta in porta e di finestra in finestra, co' le ciacole in piassa, el bicér de vin in man fora dall'ostarìa, le boteghéte vèce, i discorsi vèci, l'orgoglio di essere quasi un villaggio indipendente con i propri conclavi e le proprie autorità popolari».

«Proprio ieri un gruppo de bràe persone de San Zen hanno portato al bareto uno studio con fotografie dello storico Vandelli il quale dimostra che gli scavi per il parcheggio sotterraneo si stanno portando via non solo il primo cimitero paleo cristiano ma anche le fondamenta della prima chiesa de San Zen con le famose tre absidi.  Il Vandelli ha scritto perfino al Papa perché fermi i lavori. Nel suo studio, che il ragionier Dolimàn ha trovato convincente, cita anche re Pipino. Il quale credo che, come il Papa, ma a differenza di Tosi, non possa farci niente».

Fonte: Srs di  Silvino Gonzato, (posta della olga)da L’Arena di Verona  di   Sabato 19 Marzo 2011 CRONACA,  pagina  11

venerdì 25 marzo 2011

LUBECCA, COLONIA E DRESDA NELLA BUFERA DELLA GUERRA

Dresda

Dalla fine della seconda quella mondiale ai nostri giorni non è stata ricostruita con studi specifici ed analitici la devastazione e la distruzione della nazione tedesca ad opera dei bombardieri alleati, agli ordini del “Bomber Command” britannico. Le vittime furono circa 600.000 civili inermi.
Solo recentemente alcuni storici tedeschi hanno colmato questa lacuna con studi di alto valore scientifico.

La causa dell’inizio fu un errore di una formazione aerea tedesca, fuori rotta, che il 24 giugno sganciò sulla periferia di Londra un paio di bombe senza provocare gravi danni.
La risposta di Churchill fu immediata: 85 aerei bombardarono Berlino. Hitler in un violento discorso minacciò il Regno Unito: “ Se l’aviazione britannica duo o tre o quattromila chili di bombe, allora noi ne sganceremo in una notte 150.000, 180.000, 230.000,300.000, un milione di chili. Gli inglesi vogliono attaccare le nostre città in modo massiccio e noi raderemo al suolo le loro”.

Hitler fu di parola. Il 7 settembre 1940 una flotta di un migliaio di aerei, di cui 300 bombardieri, raggiunsero Londra con l’obbiettivo di colpire in un centro storico e gli approvvigionamenti di carburante. Nei giorni seguenti le città prese di mira furono quelle costiere, come Conventry. Da cui “ conventryzzare”, radere al suolo.
L’offensiva aerea non raggiunse gli scopi prefissi: minare il morale della popolazione inglese e indurre il governo britannico a scendere a trattative di resa separata.
In soccorso ai brinatici arrivò la decisione di Hitler di attaccare, nel giugno del 1941 , l’Unione Sovietica.

Mentre Hitler era impegnato nell’Unione Sovietica, gli alti comandi inglesi studiarono il modo di utilizzare l’aviazione, da arma di appoggio, delle forze di terra, uso “tattico” in arma strategica.

La nuova strategia prevedeva la distruzione con i bombardieri della capacità di offesa e della volontà di lotta dell’avversario, “ senza neppure scendere in campo”.
 A questo proposito, riesumarono una vecchia teoria del maresciallo dell’aria, H. Trenchard del 1928. Churchill sosteneva la necessità di minare il morale del popolo tedesco, facendo vacillare la sua fede nel regime nazista.  Sulla base di queste considerazioni, il “Bomber Command” modificò la strategia generale dei bombardamenti aerei: gli obbiettivi da colpire dovevano essere i civili inermi dei grandi centri storici. Era la strategia della “moral bombing”. Fu messa in esecuzione dal 21 febbraio 1942.

La prima vittima fu la città storica di Lubecca, priva di industria bellica e di difesa contraerea. 234 velivoli scaricarono sull’antico centro storico, costruito per lo più in legno, 400 tonnellate di bombe. Le vittime innocenti furono 320.

Il comandante del “Bomber Command”, A. Harris, presentò a Churchill il progetto dell’”Operazione Millenium”, che prevedeva la costruzione di 1000 bombardieri, 1350 bombe dirompenti, 46.000 bombe incendiarie e 6.500 avieri professionisti. Churchill, sia pure con qualche obiezione, concesse carta bianca al comandante Harris.

La prima città colpita fu Colonia, il 30 giugno 1942. Per distruggere il centro storico furono necessari più di 260 attacchi, con bombe dirompenti e incendiarie.

Il 28 agosto 1943 fu la volta di Amburgo. In una notte furono sganciate 10.000 tonnellate di bombe, che incenerirono la città. Le vittime furono 50.000.

Con il termine “conventryzzare” si sottolinea la distruzione tedesca di Conventry; con il termine “amburghizzare” si sottolinea l’incenerimento di Amburgo.
Nel 1944-45 i bombardamenti alleati raggiunsero il massimo d’intensità: decine di città rase al suolo. La media mensile delle vittime civili si poteva calcolare da 8.000 a 13.000.

I tedeschi tentarono una controffensiva con la V1 e la V2. Benché molto temute dagli inglesi, non riuscirono a competere con la forza micidiale delle tempeste di fuoco lanciate sulle città tedesche dagli alleati. Addirittura, dal gennaio al maggio 1945 venne l’ordine dal “Bomber Command” di “ distruggere di nuovo le città distrutte per annientare le industrie che vi erano risorte”.

Ancor oggi ci si chiede in sede storica, per quale motivo il 13 febbraio 1945 quando il destino finale della guerra era segnato, si decise di sganciare una duplice “ tempesta di fuoco”, sulla Firenze dell’Elba, Dresda: Un attacco a due ondate successive, a distanza di 90 minuti l’una dall’altra, con l’intenzione diabolica di colpire i civili usciti dai rifugi e rientrati a casa. Le vittime civili furono circa 100.000.

Secondo lo storico J. Friedrich, gli effetti dei bombardamenti sulle città tedesche, in alcuni casi, raggiunsero l’ordine di grandezza della bomba atomica.

Concludiamo con un interrogativo storicamente e politicamente doveroso. Perché gli aerei alleati non bombardarono le linee ferroviarie che conducevano ai campi di sterminio di Auschwitz- Birkenau?.   Le città si.   I campi della morte, no.

Fonte: da il Piave.it  del 22 gennaio 2007

giovedì 24 marzo 2011

E sulla Libia...facimm’ ammuina. Ma chi vuole la guerra e chi no?



Chilli che stann’a prora vann’a poppa, chilli che stann’a poppa vann’a prora, chili che stann’a dritta vann’a sinistra, chili che stann’a sinistra vann’a dritta. 


Chissà perché in questo periodo ci  viene in mente questo famoso falso storico del Regolamento marinaio del Regno delle due Sicilie. Che bene descrive la confusione che regna sotto i nostri cieli, solcati dai caccia che vanno verso la Libia.

 Questa guerra ha fatto saltare tutti i luoghi comuni: dunque quelli che erano contrari alla guerra in Iraq, ma erano favorevoli a quella del Kossovo, ora sono di nuovo a favore del conflitto.
Viceversa, quelli che le guerre finora le avevano appoggiate tutte, ora nicchiano, trovano distinguo, ci stanno ma con molti mal di pancia. E questo vale non solo in Italia.
Lucia Annunziata sulla Stampa oggi descrive la stessa situazione negli Stati Uniti, con Democratici e Repubblicani a scambiarsi i ruoli tra guerra di Obama e guerra di Bush.

Vale a dire non tutte le bombe sono cattive, non tutti i razzi sono buoni.
In Italia questa schizofrenia è esponenziale, tolto qualche coerente come Gino Strada, e ci viene il sospetto (ma è quasi una certezza) che tutto venga usato per piccole vendette del nostro misero cortile condominiale. Gheddafi è un sanguinario, e lo sappiamo tutti. Sono quarant’anni che umilia il suo popolo, è un dittatore, lo è sempre stato. Chi se ne accorge solo adesso sbaglia, chi non riesce ad ammetterlo neppure adesso sbaglia lo stesso. Il popolo libico sofferente non c’entra nulla, o c’entra poco.

Fonte:  srs di  Lella Confalonieri da TGCOM del 23 aprile 2011


Guerra Libia: solo guerra coloniale


Più che passa il tempo, più non riesco a trovare nel mio cervello un solo neurone che non sia convinto che quello chi si sta facendo in Libia  non è altro che una miserabile guerra  coloniale per appropriarsi dei beni e ricchezze altrui, per giunta sotto il  “patrocinio”  dell’ONU.
Non sono assolutamente convincenti, anzi fanno ridere per non dire piangere, affermando  che hanno scatenato questo casino, solo  perché “sensibili” ai “danni” alle persone  coinvolte in  una guerra “tribale”.   Chi  ha nella propria storia, circostanze, come il bombardamento su Dresda, o le guerre di rapina di napoleonica memoria, non riescono  proprio a sembrare  persuasivi nelle giustificazioni. E’ solo guerra.

mercoledì 23 marzo 2011

La nave dei veleni vent'anni dopo: la " Jolly Rosso" tra Calabria e inchieste


Tutta la storia della motonave sospettata di contenere “veleni”. Caso aperto e archiviato più volte, l’ultima nel 2009, per insufficienza di prove, ma la prossima riapertura (annunciata dal presidente della commissione parlamentare sulle ecomafie Gaetano Pecorella a gennaio 2011) dell’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi potrebbe creare un effetto domino. Centrale la figura del capitano Natale De Grazia. A confronto il memoriale difensivo della società proprietaria e l’opinione del movimento ambientalista.

Una regione senza memoria è una regione senza futuro: la Calabria è una terra bellissima ma allo stesso modo feudo della criminalità organizzata e crocevia di trame oscure. E a distanza di vent’anni c’è un caso eclatante che fa ancora discutere, un fantasma che continua ad aleggiare.
E’ il 14 dicembre 1990 quando la motonave “Rosso”, di proprietà della società Messina di Genova, si arena sulla spiaggia di Amantea, in provincia di Cosenza. Inizialmente battezzata “Jolly Rosso”, alla fine degli anni ‘80 aveva legalmente trasportato rifiuti tossici dal Libano all’Italia, su mandato del governo italiano. Ma il sospetto, alimentato da più inchieste della magistratura e dei mass media, è che la “Rosso” sia una delle “navi a perdere”, contenente materiale radioattivo, destinata inizialmente ad essere illegalmente affondata in alto mare, spiaggiata a causa di un imprevisto e privata di un contenuto “scomodo” nottetempo nascosto a pochi chilometri. 


La società Messina a proposito si sente infangata e nel 2004 produce un documento rilevante, un dettagliato memoriale difensivo che vi proponiamo integralmente, suddiviso in capitoli salienti, e al quale contrapponiamo la versione del movimento ambientalista tirrenico, rappresentato dal militante e giornalista Francesco Cirillo, uno dei massimi appassionati ed esperti del caso.



Cosa succede, secondo la versione ufficiale, il 14 dicembre 1990 sulla costa di Amantea?

Secondo la versione ufficiale la motonave Rosso subisce una falla all’interno della sua stiva a causa del maltempo che ha sganciato un piccolo elevatore. Il mayday avviene davanti la costa di Falerna, alla distanza di 15 chilometri alle ore 7,55.  I soccorsi partono subito dall’aeroporto di Lamezia Terme che invia due elicotteri a recuperare l’equipaggio. L’evacuazione dell’equipaggio della motonave avviene alle ore 10 ed un quarto. Ma succede un fatto abbastanza insolito: la nave non affonda, le correnti fortissime la spostano verso il nord della Calabria ed alle ore 14 la nave spiaggia ad Amantea in località Formiciche.

Quando, da parte di chi e come nascono i primi dubbi sulla natura del materiale trasportato dalla motonave?
Secondo un rapporto di Greenpeace nel  1989 sono quattro le navi che caricano rifiuti tossici per conto di aziende private o per conto del Governo italiano. Tenga bene a mente questi nomi: una era la Jolly Rosso, l'altra era la “Cunsky”, l’altra ancora la “Vorais Sporadis” e infine  la “Yvonne”. Quest’ultime tre sono le navi che il pentito di ‘ndrangheta Francesco Fonti poi dirà di aver affondato nei mari fra Maratea (Basilicata) e la Calabria. E’ quindi normale che quando questa motonave “Rosso” si arena sulla costa calabrese si crea un allarme nelle popolazioni.

Chi sale sulla motonave la mattina del 15 dicembre?
Molte persone vi salgono, ma non abbiamo potuto mai leggere i verbali e non sappiamo neanche se qualcuno abbia stilato verbali sulle visite sulla nave. Dagli interrogatori resi alla commissione sui rifiuti e dall'inchiesta fatta dal pm Francesco Greco, sappiamo che il comandante della capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina, Giuseppe Bellantone  sale su quella nave il giorno dopo lo spiaggiamento e dice di aver visto sulla plancia delle carte nautiche e dei fogli con strani simboli triangolari, come se fosse una “battaglia navale”, questo il termine usato da lui stesso .


Che fine fa la “Rosso” e che fine avrebbe fatto il suo presunto contenuto?
Il contenuto della nave resta un mistero. La società Messina dichiara che nelle stive della nave ci sono solo tabacchi e generi alimentari scaduti. Appena la nave spiaggia nessuno intervenne per isolarla. Le operazioni di controllo e sicurezza avvengono solo dalle ore 7 del mattino successivo. Nella “notte di Santa Lucia” sono parecchi i cittadini che sentono e vedono movimenti attorno alla nave. Ufficialmente il carico finisce in due discariche comunali nei pressi di Amantea. Scarichi che avvengono immediatamente senza alcun controllo diretto da parte delle autorità giudiziarie che si limitano subito a sminuire la portata dell’evento. Difatti a distanza di qualche mese, il Gip Fiordalisi chiude l’inchiesta e dà l’autorizzazione per lo smantellamento, nel giugno 1991, della motonave senza disporre controlli radioattivi su campioni del materiale interno alla nave, senza conservare i pezzi della nave con la presunta falla, senza analizzare per bene tutti i cosiddetti alimenti scaduti all’interno dei vari container. 


Quali nuovi indizi e testimonianze emergono negli anni? Quali sarebbero gli effetti sulla popolazione? 

Nel 2005 viene aperta una seconda inchiesta dal pm Francesco Greco e anche questa è archiviata nel 2009 e convalidata dal gip Carpino. Ma i fascicoli restano secretati e non sono visibili al pubblico. Faccio personalmente richiesta alla Procura di Paola di poter visionare la prima inchiesta, aperta nel 1990, esattamente 21 anni fa e mi viene rifiutato nonostante la legge dica che gli atti dopo l’archiviazione siano consultabili. Cosa si vuole nascondere allora ? Gli effetti sulla popolazione sono abbastanza rilevanti. Si registrano casi di tumore che superano la media nazionale, in un luogo dove non esiste una sola fabbrica inquinante. Il 18 aprile del 2007 la capitaneria di porto di Cetraro emette un ordinanza che vieta la pesca in luoghi del mare, coincidenti con quelli segnalati dal pentito Fonti, dove da indagini fatte dall’Arpacal risulta un eccesso nei sedimenti marini di arsenico, cobalto e alluminio. Questa presenza di metalli pesanti la dice lunga su quanto possa esserci nei fondali del nostro mare.

Chi è Natale De Grazia e perché il suo nome è legato alla "Rosso"? 

Natale de Grazia è un capitano di corvetta che lavora in pool con la Procura di Reggio Calabria, e indaga sulle “navi dei veleni”. Muore improvvisamente il 12 dicembre del 1995 mentre sta andando a la Spezia ed a Genova proprio per seguire il tour fatto dalla motonave "Rosso" e visionare documenti doganali su carico e scarico del lo stesso mezzo. Nella macchina con lui ci sono due carabinieri. Si ferma a mangiare in un autogrill di Campagna a pochi chilometri da Eboli (Salerno) e subito dopo aver intrapreso il viaggio si accascia in auto, ufficialmente colpito da infarto. In suo nome è nato il “Comitato civico De Grazia”, attivissimo nel denunciare le contraddizioni del caso. 


Chi preferisce il silenzio sulla vicenda? 

C’è un partito che si è formato subito dopo le dichiarazioni del pentito Fonti. Un partito trasversale fatto da sindaci, amministratori vari, partiti politici, associazioni: il partito dei “rassicuratori”. Sono quelli che mettono avanti il commercio, il turismo, gli investimenti edili nelle coste calabresi. Per loro è tutto falso, è tutto un complotto contro la Calabria. Nessuno ci ha mai spiegato come fa il pentito Fonti a sapere che in quei punti vi erano delle navi affondate.

Ad oggi qual è la vostra unica certezza e quali sono i margini di riapertura del caso?
Oggi a distanza di tanti anni l’unico dato certo che abbiamo e che il procuratore di Paola, Bruno Giordano, ha più volte evidenziato, è che nella valle dell’Oliva, dove la “Rosso” spiaggia, sono seppelliti 100mila metri cubi di materiale tossico e nocivo. L’unica concreta speranza di riagganciare il caso “Rosso” potrebbe essere la riapertura, possibile, dell’inchiesta su Ilaria Alpi. A gennaio 2011 il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie, l’onorevole Gaetano Pecorella, dichiara di essere intenzionato a riaprire il caso della morte della giornalista dopo aver ascoltato il maresciallo Scimone, collega di De Grazia. Il maresciallo Scimone, ora in pensione, riferisce a Pecorella che doveva andare lui al posto di De Grazia a la Spezia, che invece doveva recarsi a Crotone sempre per la “Rosso”. E Pecorella ascolta anche il cognato di De Grazia. Aspettiamo l’evolversi degli eventi e gridiamo verità. 


Fomte: srs di Armando Acri dal TGCOM del 24 febbraio 2011

martedì 22 marzo 2011

Milano. Le cinque giornate: Basta balle, i milanesi esultarono al ritorno di Radetzki!

La cacciata degli Austriaci a Porta Tosa (Tempera di C. Bossoli - Stampa dell'epoca)

Milano, si celebrano le 5 Giornate: sono la festa del  “sem minga stà nunch

Milàn – Dal 18 al 22 marzo, in imbarazzante sincronia con la kermesse del 150° dell’unità d’Italia, il Comune di Milano festeggia le 5 Giornate. Un evento che rende omaggio solo a una parte, mentre viene oscurata ancora e sempre la memoria dei tanti milanesi fedeli alla loro patria, il Regno Lombardo Veneto, e all’Impero d’Austria. L’insurrezione milanese, avvenuta sull’onda di analoghi episodi fomentati dalla massoneria in diverse nazioni, riguardò, infatti, una minoranza e fu motivata dalla difesa di precisi interessi delle classi agiate.

RADETZKI. All’alta borghesia e alla nobiltà parassitaria milanese era inviso il governatore del Lombardo Veneto, Josef Radetzki, che aveva abolito la tassa personale (che penalizzava soprattutto i contadini), ridotto il prezzo del sale, soppresso la crudele gabella sulla farina e introdotto imposte proporzionali che colpivano i grandi redditi e gli immobili di notevoli dimensione, come le ville signorili.

I  SCIURI. La borghesia, che cavalcava gli ideali massonici come strumento di potere, preparò la rivolta fomentando il popolo. Radetzki amava sinceramente Milano (aveva sposato una milanese e scelse di concludere la sua vita nella capitale del Lombardo Veneto dove morì in età avanzata) rinunciò ad ogni violenta ritorsione quando, conclusa la penosa parentesi “italiana” seguita alle 5 Giornate, fece ritorno nella sua Milano. Il popolo lo acclamò con grandi manifestazioni di festa, e un solo grido venne ripetuto da migliaia di bocche: “Sem minga stà nunch, sun stà i sciuri” (“Non siamo stati noi, sono stati i ricchi”).
La sana gente del lombardoveneto non aveva condiviso i piani della massoneria e chi si fece infatuare ebbe modo di disilludersi molto presto, invocando poi il ritorno del buon governo austriaco.

CONTRO IL TRICOLORE.  La storia falsata dai vincitori, ci racconta di un popolo “italiano” che prendeva le armi contro la soldataglia austriaca. Peccato che in quelle divise austriache ci fossero molte migliaia di lombardoveneti, milanesi compresi, convinti di servire la loro nazione: costituivano circa il 35% dell’intero esercito imperiale. E si coprirono di valore combattendo contro il tricolore nelle più terribili battaglie della cosiddetta guerra d’indipendenza (solo a Solferino ben 112 soldati lombardo veneti vennero decorati al valore per episodi di eroismo). Oggi, celebrare le 5 Giornate di Milano significa perpetuare una fuorviante retorica italiota, nonché oscurare il sacrificio e i veri sentimenti della gran parte dei lombardi e veneti di quell’epoca. E’ questo che i veri milanesi si aspettano dalla giunta della loro città? (ilpadano.com)



Fonte: da Infosannio.com del marzo 2011


lunedì 21 marzo 2011

Bossi: "Il maggior coraggio è a volte la cautela"


ERBA (COMO) – La linea di Umberto Bossi è racchiusa in queste parole: ”Il maggior coraggio è a volte la cautela”. Nel dirlo Bossi di cautela ne ha usata poca sabato 19 sera a un convegno sul federalismo a Erba.
Bossi ha subito ribadito : ”Penso che la posizione più equilibrata sia quella della Germania: era meglio essere piu’ cauti”. Cioè, ha detto Bossi, di fare quello che  aveva deciso il consiglio dei ministri, ”la non partecipazione diretta ai raid”.  “Ma poi ci sono ministri che credono di essere di più del presidente del Consiglio e parlano a vanvera e mettono a disposizione degli alleati ben più delle sole basi. “Con i bombardamenti alla Libia Ci porteranno via petrolio e gas, e verranno in Italia milioni di immigrati”. “Il  mondo è pieno di abilissimi democratici che sanno fare i loro interessi, mentre noi siamo abilissimi a prenderla in quel posto”. Espressione che ha fatto scattare l’applauso. Ha infine espresso  i  rischi  del terrorismo islamico,  che il ministro   vede profilarsi dietro la crisi libica.   Prima o poi la gente inizierà a chiedersi ”Se siamo in Afghanistan a combattere Al Qaeda, come mai Al Qaeda arriva qua da noi?”

domenica 20 marzo 2011

Inno d'Italia di Goffredo Mameli, testo originale





INNO D’ITALIA  (testo originale)

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta, 
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa. 
Dov'è la Vittoria? 
Le porga la chioma, 
che schiava di Roma 
Iddio la creò. 
Stringiamci a coorte, 
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò. 
Stringiamci a coorte, 
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò, sì! 

Noi fummo da secoli 
calpesti, derisi, 
perché non siam popoli, 
perché siam divisi. 
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme: 
di fonderci insieme 
già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte, 
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò, sì! 

Uniamoci, uniamoci, 
l'unione e l'amore 
rivelano ai popoli 
le vie del Signore. 
Giuriamo far libero 
il suolo natio: 
uniti, per Dio, 
chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte, 
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò, sì! 

Dall'Alpe a Sicilia, 
Dovunque è Legnano; 
Ogn'uom di Ferruccio 
Ha il core e la mano; 
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla; 
Il suon d'ogni squilla 
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte, 
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò, sì! 

Son giunchi che piegano 
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte, 
siam pronti alla morte. 
Siam pronti alla morte, 
l'Italia chiamò, sì! 

La Sagra Di Giarabub - Giarabub English Lyrics-

L’Italia compie 150 anni e per festeggiare: attacco alla Libia


L’Italia compie 150 anni e gli italiani  esaltati  per l’avvenimento, per chiudere i festeggiamenti, non trovano niente di meglio che essere trascinati in una   guerra contro la Libia; naturalmente dopo aver precedentemente firmato,  nella pura tradizione diplomatica italiana, un accordo di non aggressione con il raìs Gheddafi. 

Libia sotto attacco


Libia sotto attacco.
Più che una missione "umanitaria" a difesa della popolazione libica, traspare da tutti i pori, che è la solita guerra coloniale,  dei  soliti "ignoti”.

sabato 19 marzo 2011

Quando lo Stato si fa chiamare Patria si prepara ad uccidere qualcuno


Saluti dalla Libia

Quando lo Stato si fa chiamare Patria si prepara ad uccidere qualcuno

Moto anarchico

I VERONESI NELL’ESERCITO ASBURGICO

Peschiera del Garda: militari di servizio al Forte III


Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, è il titolo significativo di un’opera recente di Angela Pellicciari.

In effetti a 150 anni dai moti del 1848-49 e a quasi 140 dalla proclamazione del Regno d’Italia, è compito impellente dello storico narrare spassionatamente e obbiettivamente quello che fu veramente il Risorgimento italiano. Un dato di partenza ormai accertato riguarda l’impopolarità del movimento di unificazione. Il Risorgimento non fu per nulla popolare. Questo fatto inequivocabile è stato a lungo sottaciuto o ammesso, diremo così, en passant dagli studiosi, senza che ne traessero le debite conseguenze.

Impopolarità del Risorgimento

Leggendo i testi di autori che scrivono a ridosso di quegli anni e quelli di numerosi epigoni contemporanei si possono trovare spesso espressioni del tipo: il popolo di Milano o il popolo di Venezia insorsero nel 1848. Sotto questo ambiguo termine però che cosa effettivamente si comprendeva? La massa della popolazione cittadina o non forse un’agguerrita minoranza ideologicamente orientata? Furono queste minoranze, infatti, numericamente poco rilevanti, ma decise ideologicamente e appartenenti alle classi elevate della società di allora, a guidare il movimento risorgimentale, nell’indifferenza, se non addirittura nell’ostilità, dei ceti popolari, soprattutto delle campagne.

Recitava una canzone del 1949

Viva Radetzky e viva Metternich
La forca ai sciori e viva i povaritt (1)

Rivoluzione incompiuta, ma Rivoluzione

Quest’aspetto minoritario del Risorgimento suscitò a suo tempo la critica della storiografia marxista, che parlò allora di Rivoluzione incompiuta, di Rivoluzione conservatrice, per la svolta ‘moderata’ che prese il moto rivoluzionario proprio nel ’48, con l’alleanza tra una sua parte e Casa Savoia.

Si trattò tuttavia sempre di una Rivoluzione, figlia del moto politico del 1789, cui si ricollega nello spirito e negli effetti. Il nazionalismo, parto anch’esso della Grand Revolution dell’89, fu certo uno dei capisaldi dell’ideologia quarantottesca, una sorta di religione laica, con i suoi sacrari e i suoi martiri, ma in generale erano i princìpi liberali e anticattolici (incarnati soprattutto da sette segrete come la massoneria, la carboneria o il movimento mazziniano) che ne costituirono l’altra nota dominante.

Il ’48 da questo punto di vista è davvero importante. Vede, infatti, il fallimento sul nascere del tentativo cattolico-liberale neoguelfo, cui il Papa Pio IX aveva quasi dato la benedizione durante i primi anni di pontificato, e che venne però troncato con la celebre Allocuzione del 29 aprile 1848, quando la guerra all’Austria era già stata dichiarata da Carlo Alberto.  In quel pronunciamento Pio IX separava la cosiddetta causa ‘nazionale’ dalla religione cattolica e dal Papato e intimava al generale Durando, comandante le truppe pontificie sul Po, di non invadere il Lombardo-Veneto e quindi di non aggredire l’Austria.

Il ’48 inoltre, a fronte di questa sconfitta, segna anche un decisivo progresso, dal punto di vista rivoluzionario, nella sua tattica aggressiva. Quello che, infatti, perse in purezza ideologica, accantonando per un momento sia il terrorismo di stampo carbonaro che l’insurrezionalismo mazziniano, entrambi falliti proprio a causa dell’ostilità della maggioranza degli italiani, guadagnò in efficacia assicurandosi l’appoggio del Re di Sardegna che, concedendo la costituzione (Statuto Albertino, 4 marzo 1848) adottando il tricolore, sopprimendo l’ordine della Compagnia di Gesù nell’agosto, si mise alla testa della fazione moderata. L’Austria rappresentava doppiamente il nemico. Era lo straniero che conculcava il territorio nazionale irredento, e soprattutto il garante armato del sistema politico uscito dal Congresso di Vienna fondato sul principio dell’alleanza fra Trono e Altare, tra principio di legittimità e religione cattolica.

Una guerra ideologica

La guerra del ‘48 fu quindi una guerra ideologica, combattuta non meno con le armi della propaganda che con quelle reali. Alla guerra vera se n’aggiunse un’altra parallela, non meno efficace, quella psicologica, fatta di libelli, intimidazioni, in perfetto stile giacobino. Questo fu certamente l’apporto più importante che quella minoranza diede a Carlo Alberto, più ancora forse dei numerosi volontari che si affiancarono all’esercito piemontese nel corso della campagna. Il superamento della fase mazziniana non fu però sufficiente per garantirne il successo.

Fu, infatti, determinante, come dimostrarono le campagne del 1859 e del 1866 l’intervento delle potenze estere, in primis la Francia di Napoleone III e l’Inghilterra. La conclusione paradossale cui si giunge è la seguente: il Risorgimento appare un fenomeno rivoluzionario guidato da una minoranza, incapace da sola di attuare il suo progetto di costituzione di uno stato nazional-liberale, senza l’aiuto interessato di un’antica e prestigiosa dinastia (i Savoia) e di potenti alleati esteri.

La monomania storiografica filo-risorgimentale ha voluto dimenticare o, peggio, ha denigrato, bollandolo come traditore o rinnegato, chi, per un motivo o per l’altro, non avesse aderito a quello schema ideologico. Noi conosciamo tutto o quasi sui protagonisti rivoluzionari del 1848-49. Abbiamo i loro nomi, ne conosciamo le azioni, possediamo anche i loro cimeli, in istituzioni sorte appunto per mantenerne viva la memoria come i Musei del Risorgimento (quello di Vicenza, per esempio, custodisce un paio di mutande di Garibaldi!).

La damnatio memoriae invece è scesa, come un velo, sui nomi, le azioni e i pensieri di chi militava dall’altra parte della barricata, ingenerosamente condannati al silenzio. Tra questi figurano certamente e in prima linea quegli italiani e soprattutto quei veronesi che militarono tra le file imperiali durante quei tragici anni.

Gli italiani nell’esercito imperiale alla vigilia del 1848

Quando nel 1814 la Casa d’Austria riprese possesso della Lombardia e delle Venezie, abrogò uno dei provvedimenti legislativi più impopolari dell’epoca napoleonica: la coscrizione obbligatoria. Quest’istituto, introdotto la prima volta dalla Rivoluzione francese e poi diffuso in tutti i territori conquistati da Napoleone, suscitò ovunque un’inestinguibile ripugnanza, causando, tra i ceti meno abbienti, che ne erano la vittima principale, uno stato endemico di rivolta – si pensi, per stare al caso di Verona, alle rivolte contadine del 1809 – con un’elevatissima percentuale, nonostante ogni sforzo in contrario, di renitenti alla leva, che andavano a rimpolpare le file dei briganti di strada e degli oppositori del regime.

L’Austria non volle seguire l’esempio di Napoleone, per due buone ragioni. Innanzitutto, il sistema era troppo costoso e impopolare, stante la naturale riluttanza delle popolazioni. In secondo luogo, cosa più importante, contrastava con i princìpi stessi della monarchia. La coscrizione obbligatoria presuppone infatti l’idea del cittadino-soldato e della nazione armata. Tutto lo Stato, in ogni sua classe, si arma contro il possibile nemico, con il coinvolgimento ideologico delle masse sempre più grande, chiamate anch’esse a partecipare in prima persona ai destini della nazione, o più prosaicamente come l’intendeva Bonaparte come  ‘carne da cannone’  in gran quantità e a basso costo.

L’Austria non poteva che rifiutare quest’impostazione della questione militare. Il soldato nella prospettiva imperiale era unito al Sovrano da un vincolo di fedeltà personale, fondato sul principio della legittimità sacrale della Sua autorità. Di qui il carattere sovranazionale dell’esercito asburgico.  Chiunque, italiano, tedesco, francese che fosse, il quale avesse giurato fedeltà all’Imperatore, poteva farne parte. Il sistema di coscrizione quindi rispettava questi criteri.

Nel Lombardo-Veneto consisteva nel sorteggio. I coscritti delle classi di leva venivano estratti a sorte, restando la possibilità per i più abbienti d’essere sostituiti, dietro pagamento, ecc. Di solito erano i contadini più poveri e soprattutto gli indesiderati che entravano a far parte dell’esercito.

Dati successivi agli anni 1848-49 indicano che la renitenza alla leva tra i veneti al soldo imperiale era bassissima. Nel 1863, mentre nell’esercito italiano da poco costituito le diserzioni si aggiravano sul 20%, tra i coscritti veneti si segnalavano 17 refrattari su 7.008 reclute, l’anno successivo 22 su 6907. (2)
Il servizio militare sulla carta durava 10 anni, 8 di servizio attivo più 2 di riserva. Tuttavia, per motivi d’economia, si preferiva ridurlo a tre anni effettivi, per i corpi non specializzati, come la fanteria.(3)

Questa modalità di reclutamento non gravava eccessivamente sulle popolazioni, almeno in Alta Italia, se il Lombardo-Veneto nel 1846 forniva per ogni milione d’abitanti 6.333 uomini, contro gli 11.715 dell’Austria o i 16.774 del Regno di Boemia. Le regioni italiane erano tenute a formare 8 Reggimenti di fanteria, 1 di cavalleria leggera (il n. 6) e 2 battaglioni di Cacciatori a piedi (Jäger), l’8° e l’11°. I Reggimenti di fanteria venivano reclutati su base territoriale e costituivano quindi dei reparti omogenei ed in particolare:

Reggimento n. 13 Wimpfen, con distretto d’arruolamento Padova e Venezia.
Regg.to n. 16 Conte Zannini, Vicenza e Treviso.
Regg.to n. 26 Ferdinando d’Este, Udine.
Regg.to n. 38 Haugwitz, misto di bresciani, mantovani e veronesi.
Regg.to n. 45 Arciduca Sigismondo, formato da reclute veronesi e rodigine.
Regg.to n. 23 Ceccopieri.
Regg.to n. 43 Geppert, Como.
Regg.to n. 44 Arciduca Alberto, Milano(4).

S’è asserito che politica consueta dell’Austria fosse quella di dislocare i vari reparti il più possibile lontani dai luoghi di reclutamento, per meglio garantirsi della loro fedeltà e sfruttare il naturale antagonismo e la diversa nazionalità tra le truppe e le popolazioni dei paesi di guarnigione per meglio controllare entrambi. Questa tesi in verità appare poco fondata.

Il Feldmaresciallo Radetzky, comandante in Capo dell’esercito imperiale in Italia, alla vigilia della guerra del 1848, disponeva, infatti, di circa 70-75.000 uomini, suddivisi in 61 battaglioni di fanteria, 36 squadroni di cavalleria e 108 batterie. Gli italiani formavano 24 battaglioni di fanteria, ed erano il più numeroso contingente nazionale del suo esercito, pari al 33% del totale, ossia un soldato su tre delle truppe di Radetzky era italiano.

Considerando gli anni precedenti al ’48, i documenti dimostrano che la dislocazione dei reggimenti era guidata esclusivamente da esigenze pratiche, e che, quand’era possibile, si preferiva porli di guarnigione nelle terre d’origine. Così, negli anni che vanno dal 1830 al 1847, il Reggimento Haugwitz n. 38, composto da veronesi, mantovani e bresciani, è di guarnigione nelle seguenti piazze, tutte, eccetto due, in Italia: Brescia, Ancona-Cremona, Brescia, Cremona, Mantova, Verona, Cremona, Ragusa, Fiume, Udine, Vicenza-Padova, Mantova-Legnago. Allo stesso modo il n. 45 Arciduca Sigismondo, anch’esso composto di veronesi, nei medesimi anni è di stanza a Fiume, Zara, Udine-Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Verona, e nel 1848 si trova parte a Bergamo, parte a Verona. È stato anche sostenuto che gli italiani delle classi abbienti, i nobili soprattutto, fossero assai restii, proprio per considerazioni ideologiche, ad entrare nel corpo-ufficiali, dominato dall’elemento tedesco. In verità anche in questo caso le cifre smentiscono l’assunto. Nel Reggimento italiano di fanteria n. 45 sono 42 gli ufficiali dal cognome italiano su 115, pari al 36,5 %, mentre nell’altro Reggimento, formato in parte da veronesi, il 38° Haugwitz, gli ufficiali italiani sono quasi la metà, il 42%.(5)

Nella bufera

Nel gennaio 1848, quando a Milano lo ‘sciopero del tabacco’ sta raggiungendo il suo culmine, l’alto comando militare austriaco in Italia non dubita affatto della lealtà dei soldati italiani(6), e nonostante siano giunte avvisaglie, nei mesi precedenti, di una forte attività di propaganda per spingere alla disubbidienza e alla diserzione i reparti d’ogni nazionalità, ed in particolare i lombardo- veneti, Radetzky non crede di dover intervenire e li giudica casi isolati(7). Il Generale imperiale von Schönhals anzi, nelle sue Memorie, ricorda con compiacimento come a Milano il 5 gennaio “...i soldati uscirono dalla caserma col cigarro in bocca, non però come l’altre volte isolatamente. I granatieri italiani in ispecie avevano un cigarro ai due lati della bocca, e se ne andarono allegramente, mandando fuori nugoli di fumo.”(8)

Poi arrivò la catastrofe. Mano a mano infatti che si diffondevano le notizie sulle varie insurrezioni nelle capitali italiane e all’estero, il fermento rivoluzionario si fece sempre più forte in tutto il Regno e soprattutto a Milano e Venezia. Scoppiò quindi la rivoluzione anche a Vienna e l’Imperatore Ferdinando I il 15 marzo concesse la Costituzione.

La ripercussione nel Regno Lombardo-Veneto fu violentissima. I rivoluzionari uscirono allo scoperto, chiedendo in ogni città la formazione della Guardia Civica, una maggiore libertà di stampa e l’introduzione del sistema parlamentare, e a poco a poco, a seconda dell’energia dei loro interlocutori, fossero militari o civili, finirono col sostituirvisi. L’apparato di governo asburgico si sciolse come neve al sole, incapace di fronteggiare quell’insolita situazione e spiazzato dai fatti viennesi. Anche i militari erano in difficoltà.

L’esercito infatti non era concentrato, ma disseminato in numerose piazze e quindi l’apparato militare giunse sull’orlo del collasso, mentre i rivoluzionari si armavano, tagliavano le vie di comunicazione e prendevano piede in quasi tutte le città-capoluogo, eccetto le importantissime piazzeforti del Quadrilatero, Verona e Mantova, dove troviamo di guarnigione reparti italiani, ovvero nella prima 2 battaglioni, per un totale di 12 compagnie, del 45° Regg.to Arciduca Sigismondo (fanti veronesi e rodigini) appartenenti alla divisione di Riserva Taxis(9), e, nella seconda, due battaglioni del n. 38 Haugwitz, (bresciani, mantovani e veronesi) che, sebbene spinti alla diserzione dai rivoluzionari locali, rimangono fedeli(10).

Laddove le autorità imperiali non erano sufficientemente risolute, i primi a farne le spese erano proprio i soldati italiani, come ad esempio a Venezia, dove il Tenente Generale Conte Zichy, che aveva assunto i pieni poteri, finì collo stipulare, il 22 marzo, una capitolazione di resa con il Governo provvisorio rivoluzionario presieduto da Daniele Manin, nella quale si contemplava tra l’altro il passaggio delle numerose truppe italiane del 1° battaglione Regg.to n. 13 Wimpfen (reclutate nel padovano e veneziano) e del 5° battaglione di guarnigione, anch’esso formato da italiani, sotto le nuove autorità rivoluzionarie. Il che, buon grado o malgrado, furono costretti a fare(11).

In Lombardia, mentre a Milano i rivoluzionari erano insorti (18-22 marzo), le comunicazioni sembravano interrotte. Radetzky, nel tentativo estremo di soffocare la ribellione, aveva dato ordine a tutte le guarnigioni e reparti della Lombardia di convergere sulla capitale, ma, stando alle Memorie di Von Schönhals, l’ordine fu quasi completamente disatteso, poiché quasi nessuna ordinanza riuscì a giungere destinazione.

Soltanto da Bergamo giunsero delle truppe. “In conseguenza di quest’ordine, da Bergamo si mise in marcia un battaglione del Reggimento Arciduca Sigismondo, ma per uscire da quella città avea dovuto aprirsi il varco pugnando, ed il suo comandante, Tenente Colonnello Barone Schneider, cadeva ucciso dal cavallo. Questo battaglione giunse non pertanto felicemente a Milano, come ché fra continue pugne, guidato dal valoroso Colonnello Heinzel. Esso era composto di Italiani.”(12) Più precisamente di veronesi e rodigini.

Lo stesso reparto viene ancora citato dall’ufficiale austriaco, mentre narra di uno scontro avvenuto durante le Cinque giornate nei pressi di Porta Ticinese. “In uno di questi attacchi si segnalò il battaglione di fanti Sigismondo venuto da Bergamo, il quale corse colla baionetta addosso agli assalitori e acconciò i suoi compatrioti pel dì delle feste.”(13)

Disertori

Il numero delle diserzioni, se non esattamente quantificabile, fu comunque alto(14). Ancora von Schönhals ricorda che se un battaglione del Regg.to Geppert n. 43 (di comaschi) che era di stanza a Monza, riuscì, pur combattendo e perdendo tutti i bagagli, a ricongiungersi con il grosso dell’esercito sotto Milano15, altri reparti si dissolsero.

A Brescia si ha la defezione di una compagnia e 1⁄2 del 3° battaglione Haugwitz, che addirittura fa prigioniero il comandante; a Cremona 2 battaglioni del Regg.to n. 44 Arciduca Alberto, formato da milanesi ed 1° battaglione del Regg.to n. 23 Ceccopieri, anch’esso formato da lombardi, diserta con gli ufficiali, evidentemente italiani; e lo stesso accade anche a Udine e Palmanova (3° battaglione Regg.to Arciduca Ferdinando n. 26 di friulani) a Treviso (3° battaglione del Regg.to Zanini N. 16, di vicentini e trevigiani).(16)

Perché queste truppe disertarono? Certamente la pressione psicologica, la propaganda, le minacce, le voci infondate diffuse artatamente sul loro destino, i tentativi di corruzione, esercitarono un ruolo fondamentale.

Come si diceva la guerra del ‘48-49, sull’esempio di quelle scatenate dai rivoluzionari francesi, era una guerra ideologica. Narra ad esempio nel suo rapporto, il Cap. Von Aichelberg, costretto ad attraversare il Veneto in rivolta con le truppe italiane al suo comando, appartenenti ad un battaglione del Regg.to Arciduca Ferdinando d’Este n. 26 (fanti friulani):
Tutti i simboli dell’autorità imperiale erano stati distrutti e al loro posto sventolava il tricolore italiano; ovunque gli uomini del trasporto [cioè del reparto] venivano accolti con grida di gioia e di ‘Evviva gl’italiani, evviva l’Italia, l’indipendenza, evviva Pio IX ecc.’ [...] Ai soldati venivano ovunque offerti pane e vino e c’erano pure taverne dove essi potevano rifocillarsi senza pagare nulla. Voci, totalmente infondate e artatamente messe in circolazione per esaltare il popolo e per infondere entusiasmo, circolavano di bocca in bocca, agenti seguivano il trasporto tentando con ogni sorta di ragionamento e anche con del denaro di minare lo spirito delle truppe.”
A Bassano “i capi della guardia civica, preti ed emissari vennero alle due caserme dove gli uomini erano acquartierati, lessero loro gli ultimi giornali milanesi e veneziani, oltre a scritti sediziosi, poemetti, ecc.; fu tenuta una messa e venne distribuito del denaro. I civili facevano capannello con dieci o più militari per volta allo scopo di coinvolgerli tramite la discussione. Chiedevano ai soldati di fermarsi a Bassano, dove sarebbero stati trattati benissimo. Furono fatti tentativi per terrorizzarli dicendo loro che sarebbero stati inviati in Germania come ostaggi, che sarebbe stato loro raddoppiato il tempo di ferma, che sarebbero stati uccisi per vendicare le truppe tedesche cadute in Italia. Fu loro detto che l’Italia aveva bisogno di loro per la propria difesa ecc.”(17)

Altro strumento di propaganda era il cosiddetto ‘catechismo’ rivoluzionario, esemplato sui modelli dell’89, una versione blasfema dei catechismi a domanda e risposta allora impiegati per l’istruzione religiosa. Come ha giustamente osservato Alan Sked, che pure non nutre particolari simpatie per l’Austria: “Il catechismo era essenzialmente un documento d’odio” (18). Oltre a sostenere con tono declamatorio e demagogico il più acceso nazionalismo, fomentava l’avversione per le altre nazionalità e soprattutto per quella tedesca.

Eccone qualche brano. “Cosa distingue esteriormente l’italiano? L’odio per il tiranno tedesco, odio che deve essere manifestato sempre e comunque, nelle parole e nelle azioni.” e ancora, “Quando potremo dirci benedetti nella nostra nazionalità? Quando berremo il sangue dei tedeschi nei crani di Metternich e Radetzky”(19).

Non manca ovviamente la parte dedicata ai ‘collaborazionisti’ come appunto i soldati italiani presenti nelle file imperiali, che vengono bollati come Caini e che saranno puniti da Dio con la morte. Chi invece non crede al catechismo, è tacciato di pseudoitaliano, destinato, come il fico sterile di evangelica memoria, ad essere sradicato e gettato nel fuoco (20). Sono utilizzate infine al medesimo scopo, sempre imitate da modelli che rimontano all’epoca giacobina, delle versioni blasfeme di preghiere della liturgia cattolica, come Le Litanie dei pellegrini lombardi(21) o il Padrenostro dei lombardi, ove si prega Dio di liberare dal male e dai Tedeschi(22).

Se tuttavia la pars destruens, per così dire, della propaganda rivoluzionaria si dimostrò efficace nell’allontanare parte delle truppe italiane dalle proprie bandiere, questi disertori, non abbracciarono affatto la causa nazionalista.  Essi semplicemente se ne ritornarono alle loro case, e, sebbene si cercasse, in un primo tempo, di utilizzarne una parte contro l’esercito imperiale, tuttavia, era tale l’indisciplina e la riottosità al combattimento, che non furono mai impiegate in prima linea(23).

Le truppe fedeli

Tuttavia, se vi furono numerose diserzioni, molti (circa 10.000) rimasero fedeli al loro giuramento, con la maggioranza dei loro ufficiali. In particolare le storie reggimentali indicano che nella guerra del 1848-49 si distinsero i tre Reggimenti 38° Haugwitz (veronesi, mantovani e bresciani), il 45° Arciduca Sigismondo (ancora veronesi e rodigini) e il 43° Geppert di Como(24), nonché vari altri reparti di minor entità, come un battaglione (il 3°) del Regg.to n. 44 Arciduca Alberto, composto di milanesi(25). È un fatto che tra queste truppe fedeli all’Impero, due Regg.ti, il 45° e il 38°, erano composti dai soldati reclutati nel territorio veronese. Questi reparti, assieme ad altri meno consistenti formati da coscritti lombardo-veneti, hanno partecipato a tutte o quasi le battaglie più cruente della  prima  guerra d’Indipendenza. Vorrei ricordare brevemente alcuni significativi episodi, che si caricano anche di uno speciale significato simbolico, e gettano una luce poco usuale sui fatti risorgi- mentali.

Il 38° Reggimento di fanteria Haugwitz.  La battaglia di Sorio (8 aprile 1848)

Il 38° Haugwitz (bresciani-veronesi-mantovani), alcuni reparti del quale, abbiamo visto, presidiano Mantova, alla vigilia della Rivoluzione, è impegnato in alcuni notevoli combattimenti nel corso dell’aprile 1848.

Radetzky il 6 aprile è giunto finalmente a Verona, dopo aver abbandonato Milano e la Lombardia. Sono rimaste in suo possesso solo le fortezze del Quadrilatero. Il Piemonte ha dichiarato la guerra all’Austria il 23 marzo ed ha attraversato il Ticino. Accanto all’esercito sardo, che è il meglio armato e più numeroso, si affiancano una schiera di truppe eterogenee, spesso improvvisate, che provengono da tutte le parti d’Italia.

La posizione dell’esercito austriaco è quella di una fortezza circondata su tre lati. L’unica via di comunicazione col resto della Monarchia è a Nord attraverso la valle dell’Adige. Nel Veneto si sono costituiti dei bizzarri corpi franchi che si fanno chiamare i Crociati. Portano come contrassegno una croce rossa sulla divisa, quando l’hanno; sono entusiasti della guerra all’Austria, provengono da tutte le città venete, e sono formati in gran parte di studenti. In generale sono male armati e non avvezzi alla disciplina militare.

Ai primi d’aprile 1848, queste truppe di volontari cominciarono a disporsi pochi chilometri ad ovest di Vicenza nei pressi di Montebello, nel punto in cui le ultime propaggini dei monti Lessini quasi toccano i colli Berici. Radetzky a quanto sembra, appena arrivato a Verona, inviò una colonna piuttosto nutrita, forte di una quindicina di compagnie di fanti, 4 squadroni di cavalleria, 6 cannoni da 12 e una compagnia zappatori verso Vicenza, per verificare in quale stato fossero le strade e se le comunicazioni erano aperte.

Il comando era stato affidato al maggiore generale principe Federico di Liechtenstein, che divise le sue truppe in due colonne, affidando il comando della seconda al maggiore Martini (evidentemente un italiano). La fanteria imperiale era formata da reparti del 43° Geppert (comaschi) e del 38° Haugwitz (veronesi-bresciani-mantovani).

Il 7 aprile le truppe austriache entrarono in contatto con la linea nemica. Il giorno successivo le due colonne attaccarono con decisione. Quella di Martini si frazionò a sua volta. Alcune compagnie attaccarono le posizioni dei rivoluzionari verso sud-est a Meledo, le rimanenti invece affiancarono sulla destra le truppe della colonna Liechtenstein, che aggiravano Sorio, sulle colline a nord di Montebello. Ancora più a nord altre truppe chiudevano la tenaglia, costringendo i ‘crociati’ a ritirarsi su tutta la linea fino a Vicenza. L’esito paradossale della battaglia di Sorio (7-8 aprile 1848), definita la prima battaglia del Risorgimento nel Veneto, si risolse in uno scontro tra italiani, Vicentini, Padovani, Trevigiani da una parte, veronesi e lombardi dall’altra(26)

38° Haugwitz a Castelnuovo (11 aprile 1848)

Il secondo episodio, davvero tragico, in cui vediamo impegnati reparti del 38°, è a Castel- nuovo del Garda, il 12 aprile 1848. Carlo Alberto, intenzionato a porre l’assedio a Peschiera, chiede alle truppe irregolari di attuare una diversione che appoggi l’attacco alla piazzaforte. Così un battaglione di genovesi, milanesi e svizzeri, al comando del colonnello Manara, sbarca a Bardolino, proveniente da Salò.

A Castelnuovo vi è la polveriera che serve la fortezza in tempo di pace, guardata da pochi soldati imperiali. Anziché limitarsi a svuotare il magazzino, una parte, la più numerosa, delle truppe di Manara, decide di asserragliarsi a Castelnuovo, convincendo la popolazione, forse spinta dal parroco, a cooperare alla difesa, con la costruzione di barricate. Piano giudicato da un autore risorgimentale un’“idea temeraria e folle”, e “generosa e audace imprudenza” (27).

La via tra Peschiera e Verona è quindi interrotta. Dalla città si dà ordine ad una colonna, comandata dal Generale principe Gugliemo Thurn und Taxis, di far sloggiare il nemico. Fanno parte della colonna anche due compagnie del 38°, comandate dal Cap. Maurer; aiutante di campo del principe è il veronese nob. Guglielmo Salerno. Il resto è noto. L’attacco alla baionetta dei fanti imperiali, i combattimenti, il saccheggio, l’incendio. Se quattro soltanto sono i morti e feriti austriaci, i rivoluzionari ne lasciano sul terreno 43, cui si aggiungono 53 abitanti del paese(28). Il 38° ebbe modo di segnalarsi inoltre alla riconquista di Vicenza il 10 giugno, con il 3° battaglione aggregato alla Brigata Simbschen(29), infine nella prima giornata di Custoza, il 23 luglio, nell’assalto delle posizioni piemontesi presso l’Osteria di Bosco, vicino a Sona(30).

Regg.to 45° Arciduca Sigismondo

Si è menzionato sopra come reparti del 45°, dopo essersi aperta la strada da Bergamo, si siano distinti a Milano, durante le Cinque giornate. Ripiegati poi a Verona, li ritroviamo nel Veneto mentre combattono, sempre sotto il comando del Colonnello Heinzel, contro i “Cacciatori del Reno”, comandati dal Colonnello conte Livio Zambeccari (31). Altri battaglioni del medesimo sono di stanza a Verona in quel fatale marzo e rimangono al loro posto.

Dove tuttavia si distinse particolarmente il 45° fu a S. Lucia, il 6 maggio 1848. In particolare, il 3° battaglione, aggregato alla Brigata Strassoldo, fu schierato sull’estrema sinistra del fronte austriaco tra S. Lucia e la località Colombara, sostenuto da 4 compagnie di granatieri D’Anthon anch’essi italiani(32). In questo punto, come è noto, si esercitò il massimo sforzo offensivo dei piemontesi, che però non riuscirono a penetrare profondamente nello schieramento imperiale, e vennero ben presto ricacciati. Ancor’oggi, un monumento funebre eretto nel decimo anniversario della battaglia, ricorda i nome dei caduti imperiali del 45°: il tenente nobile Carlo Baravalle di Blakenburg, il caporale Antonio Sandroni, il sotto caporale, Bortolo Vettore, il gregario, Giuseppe Boldrini, Teodoro Pietropan, Guglielmo Bonfanti, Antonio Lavin, Angelo Boesso, Biagio Terrini, Giovanni Bruschetta, Antonio Bolesani, Lorenzo Orlando, Antonio, Polastri, Giacomo Antonini, Sperandio Gambirasio(33).



Note

(1- Sked A., Radetzky e le armate imperiali, Bologna, Il Mulino,1983, p. 340.2)
2) A. Kozlovic, La battaglia di Sorio. 8 aprile 1848, Vicenza, Editrice Veneta, 1998, p. 56.
3) A. Kozlovic, La battaglia di Sorio..., p. 56.
4) A. Kozlovic, La battaglia di Sorio..., p. 52.
5 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 105.
6 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 112-113.
7 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 88-92.
8 Memorie della guerra d’Italia degli anni 1848-1849 di un veterano austriaco, 2 voll., Milano, Tip. Gugliemini, 1852, I, p. 80.
9 Polver G., Radetzky a Verona nel 1848, Verona, Cabianca, 1913. 65 e 81.
10 Memorie della guerra..., I, 149.
11 Memorie della guerra..., I, 157 e 165.
12 Memorie della guerra..., I, 126.
13 Memorie della guerra..., I, 129.
14 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 111-113.
15 Memorie della guerra..., I, 134.
16 Memorie della guerra..., I, 148-149 e 167. Sked, 391-392.
17 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 398-399.
18 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 121.
19 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 406-408.
20 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 408.
21 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 419-420.
22 Sked A., Radetzky e le armate..., p. 421-422.
23 Memorie della guerra..., I, 103-104. Fabris C.,
24Sked A., Radetzky e le armate..., p.113.
25Fabris C., Gli avvenimenti militari del 1848-49, 3 voll., Torino, Roux Frassati, 1898, II, 393-396.
26Memorie della guerra..., I, 197-198. 2
7Polver G., Radetzky a Verona, p. 226.
28Polver G., Radetzky a Verona..., p. 224. Memorie della guerra..., I, 198-200.
29 Fabris C., Gli avvenimenti militari..., III, p. 106.
30 Fabris, C., Gli avvenimenti militari..., II, p. 273.
31 Memorie della guerra..., I, pp.212-213.
32 Fabris C., Gli avvenimenti militari..., II, p.220.
33 B. Brusini, Melotti, F. Gastaldelli, I. Mengalli, L. Orso, B. Pericolosi, R. Zantedeschi, Un borgo, una storia: S. Lucia nel Risorgimento tra ‘700 e ‘800, 3 vol., Verona, Associazione Festeggiamenti Santa Lucia, 1992, p. 88, n. 59.



Fonte: srs di di Nicola Cavedini;  estratto  Conferenza  tenuta al Convegno storico internazionale  “Il 1848 nel Veneto e in Europa”  Verona, 21-22-23 ottobre 1999