domenica 31 maggio 2015

STORIA VENETA: 36 - LA VITTORIA DI GIOVANNI MICHIELI. DOPO AVER BATTUTO I PERICOLOSI BULGARI



Dal testo di Francesco Zanotto


" ... Giovanni Micheli podestà di Costantinopoli, per la Repubblica Veneziana, e piombato subitamente sul nemico, tale ne fece orrida strage, che la più parte de' legni bulgari e greci vennero traforati, spezzati, colati a fondo, e li due principi costretti a prendere ignominiosissima fuga.  Alcuni storici dicono che l'esempio del Michieli trasse a seguirlo i Genovesi ed i Pisani con quanti navigli aveano essi in quel porto; ma la gloria fu principalmente del Michieli il quale predò dieci navi nemiche, siccome racconta il cronacista Martino da Canale. Il quale aggiunge che con grandissima festa ritornava il Michieli a Costantinopoli ... "


ANNO 1238


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


La superiorità navale dei veneziani ha la meglio sul tentativo militare dei bulgari e dei bizantini e dallo scontro Venezia emerge sempre trionfante ponendosi come garante dell'esistenza stessa dell'Impero Latino, una costruzione per'altro effimera e provvisoria ...
(Nella illustrazione di Giuseppe Gatteri il podestà di Costantinopoli, il veneziano Giovanni Michieli, dopo la vittoria sui Bulgari e sui Bizantini di Nicea viene accolto dalla popolazione latina festante)


36 - LA SCHEDA STORICA


Sin dal primo periodo che seguì la conquista di Costantinopoli nel 1204, i nuovi "padroni" dell'Impero Bizantino si scontrarono con difficoltà di ogni sorta.
Sul trono del nuovo Impero Latino d'Oriente era stato collocato Baldovino conte di Fiandra, uno dei capi della stessa crociata che molto presto realizzò, pagando con la vita, quanto difficile se non addirittura impossibile fosse la gestione ed il controllo di un territorio costantemente minacciato all'esterno e minato al suo interno.
Se dentro i confini dell'Impero, infatti, i latini dovevano fare quotidianamente i conti con la crescente ostilità dei greci, all'esterno la resistenza bizantina si andava a poco a poco organizzando attorno agli imperatori esuli a Nicea. Non solo. Una minaccia ancor più grave pesava infatti sul già precario e fragile impero crociato, quella dei bulgari.
Tra il X ed XI secolo il regno bulgaro era pressoché scomparso venendo assorbito nell'impero bizantino finché alla fine del 1100 Pietro e Giovanni di Asen riuscirono a liberare il loro popolo dalla dominazione imperiale e a dar vita al secondo regno di Bulgaria (1187-1396).
Quando i latini conquistarono Costantinopoli estendendo il dominio sulle terre appartenute all'impero bizantino, il re bulgaro Kalojan non doveva essere granché entusiasta all'idea di dover convivere con dei nuovi, estranei vicini. E così tra il marzo e l'aprile del 1205 le orde dello zar bulgaro dilagarono nel territorio dell'antica Tracia - all'incirca l'attuale Bulgaria -, sterminando e sconfiggendo i soldati franchi sotto le mura di Adrianopoli. L'imperatore Baldovino sceso personalmente in campo venne catturato e finì i suoi giorni in una prigione bulgara.


Anche il doge perde la vita a causa dell'Impero


 Ma perdere la vita nella disastrosa e tragica circostanza non fu solo lo sfortunato imperatore Latino  d'Oriente, ma anche lo stesso doge Enrico Dandolo ormai ultranovantenne.  Il doge infatti guidava il comando della retroguardia dell'esercito durante la ritirata da Adrianopoli a Rodosto sul Mar di Marmara. L'età, la fatica della marcia forzata ed il caldo ormai estivo, costarono la vita al doge veneziano che spirò infatti lungo il tragitto il 10 giugno del 1205.
Quella coi Bulgari, del resto, doveva rivelarsi una guerra lunga e carica di incertezze alternate a lunghe pause, violente riprese e paci violate.
Gli imperatori bizantini al contrario, individuarono ben presto nel bellicoso popolo bulgaro un possibile alleato per riuscire a cacciare finalmente i latini dal trono di Costantinopoli.
La città stessa, così, venne ripetutamente minacciata ed assediata dai bulgari in ben tre occasioni fra il 1222 ed il 1238. A guidarli un valoroso re soldato, Giovanni Asen II con il quale i domini bulgari si erano spinti fino alla Grecia settentrionale.  Costantinopoli tuttavia, resisteva ma la continua minaccia spinse infine i veneziani allo scontro diretto con i bulgari alle cui truppe si univano a poco a poco anche quelle dell'imperatore greco in esilio.
Durante l'ultimo assedio alla capitale da parte delle truppe congiunte dello zar Asen II e dell'imperatore bizantino Vatace, i  comandanti  veneziani Leonardo Querini e Marco Gussoni pare con sole 25 galee, riuscirono a rompere l'assedio sconfiggendo la flotta nemica forte di ben 300 navi.  
Alla sconfitta subita dai bulgari e dai greci questi risposero l'anno successivo (1238) con un nuovo attacco che chiamò nuovamente i veneziani allo scontro.  Durante l'inverno intanto, il re bulgaro e l'imperatore greco avevano avuto tutto il tempo di prepararsi alla nuova battaglia rinforzando l'imperatore le proprie navi e Asen II facendo costruire la prima flotta che mai l'esercito bulgaro aveva avuto in precedenza.


Per il momento l'Impero Latino è salvo


Così, nella primavera del 1238 i due eserciti - terrestre e marittimo -, mossero alla volta di Costantinopoli  per darvi l'assalto. Era soprattutto sulla flotta che i due principi bulgaro e greco contavano per la buona riuscita dell'impresa. All'esercito Latino, invece, si unirono le navi di Goffredo de Villerdouin con sei vascelli da guerra che trasportavano 1000 cavalieri, 300 balestrieri e 500 cavalieri.
Furono le sue navi, per prime, a scontrarsi con quelle nemiche.  Lo scontro durò giusto il tempo per consentire a quelle veneziane di prendere il largo alla guida di Giovanni Micheli, Podestà di Costantinopoli per conto del governo veneziano. L'arrivo e l'intervento della flotta ducale fu come quasi sempre era accaduto, determinante. Lo scontro fu durissimo ed alla fine l'imperatore Vatace e lo zar Asen II furono costretti a cercar scampo nella fuga. Non è escluso l'intervento anche di navi pisane e genovesi accanto, eccezionalmente, a quelle veneziane, ma resta che il rischio e con esso il merito maggiori furono dei veneziani e del loro comandante Giovanni Micheli.
La città ancora una volta era stata faticosamente salvata e con essa il fragile  Impero Latino d'Oriente il cui imperatore accolse con onore e grande soddisfazione l'intrepido ed abile podestà veneziano che aveva condotto alla vittoria i suoi uomini.
Era il 1238 ed ancora nessuno, nel breve istante della gioia per l'insperata vittoria, poteva già immaginare che al dominio latino in Oriente restavano in realtà ancora poco più di 20 anni Per il momento, appunto, prevaleva ancora tra i latini la soddisfazione ed il sollievo per lo scampato pericolo.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI




venerdì 29 maggio 2015

STORIA VENETA: 35 - L'INCIDENTE D'AMORE DEL CASTELLO. UNA PICCOLA GUERRA PER FUTILI MOTIVI 35



Dal testo di Francesco Zanotto


"Gli assalitori del castello erano giovani delle vicine città e della stessa Trivigi (... ) Le armi scambievoli con cui combattevano gli assalitori e le difenditrici erano fiori, aranci, poma, confetture e acque odorose ( ... ). Gli assalitori erano divisi in tre schiere: Padovani, Trivigiani e Veneziani, e ognuna aveva per segnale il vessillo delle proprie città ( ... ) quando tutto ad un tratto accadde un tale disordine, avvegnachè mentre i giovani Veneziani da un lato valorosamente combattendo, presa una porta, erano per piantare in breve nel castello il loro stendardo ... ( ... ) i Padovani fecero insulto all'alfiere veneziano ... "


 ANNO 1214



Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Anche un gioco, quale quello svoltosi in piazza a Treviso, fra dame e cavalieri, si può risolvere in battaglia quando sullo sfondo ci stanno vecchi risentimenti. Così il castello d'amore si rivelò un segnale per la guerra anche se la cosa poi si risolse in una mezza burla ...


35 - LA SCHEDA STORICA


 Alla notizia della morte del vecchio doge Enrico Dandolo giunta a Venezia solo dopo cinquanta giorni, si radunò immediatamente l'Assemblea per l'elezione del nuovo doge che venne scelto nella persona di Pietro Ziani figlio del precedente doge Sebastiano e come il padre abile commerciante e speculatore.
Una volta conquistata l'isola di Creta, fu proprio Ziani a mandarvi Jacopo Tiepolo col titolo di "duca" di Candia per tentare di affermare una volta per tutte l'organizzazione e l'autorità politica veneziane, cosa che seppur con una certa fatica infine si realizzò.
Ma durante il dogato dello Ziani si incominciò soprattutto a raccogliere i frutti dell'egemonia commerciale che Venezia si era assicurata con la conquista di Costantinopoli e del suo impero.
Da Negroponte e dal Peloponneso potevano ora prendere la via grossi carichi di frumento, legname e seta, mentre dal Bosforo era ormai facile raggiungere i porti ed i mercati del Mar Nero e della Crimea in particolare.
Questa condizione privilegiata si traduceva per la città in un costante incremento dei commerci e di conseguenza delle attività e della ricchezza locali. Le concerie di pelli, specie concentrate alla Giudecca, le tessiture di lana, le vetrerie, così numerose queste ultime già alla fine del Duecento che il governo ducale si vide costretto a trasferirle in massa nell'isola di Murano, ed infine l'importante industria delle costruzioni navali attiva soprattutto all'Arsenale di Stato conobbero nei primi decenni del secolo un vero e proprio boom.
Accanto alla produzione di grandi navi da guerra o di mercantili, Venezia produceva inoltre un gran numero di piccole e medie imbarcazioni adatte alla navigazione fluviale che pur manteneva ancora la sua importanza. Attraverso le arterie fluviali infatti (Brenta, Adige e Bacchiglione), Venezia entrava in contatto commerciale con l'immediato entroterra veneto e con i suoi Comuni e tra questi, in particolare, con quello padovano e trevigiano.


Un contrasto destinato ad accrescersi


Fino agli inizi del Duecento i rapporti con le due città si erano informati a dei buoni rapporti di vicinato. Certo, Padova nel secolo precedente con il tentativo maldestro di dirottare le acque del Brenta aveva avuto modo di scontrarsi brevemente con i veneziani, ma la cosa non aveva prodotto grosse conseguenze.
Fu nel 1214 che padovani e veneziani giunsero nuovamente alle armi, ma  questa volta il pretesto e le circostanze che scatenarono la guerra erano di ben altra natura. L'incidente, tuttavia, mise in luce tutta la fragilità dei rapporti del ducato veneziano, compresso ormai negli angusti confini lagunari, con i comuni cittadini limitrofi.
Questi i fatti.  In occasione della Pasqua di quell'anno il Comune di Treviso aveva bandito una festa alla quale erano stati invitati alcuni tra i più importanti comuni della Venezia-Giulia e tra questi non poteva certo mancare Venezia.
Il culmine della festa era rappresentato da un singolare gioco che veniva  chiamato "Castel d'Amore". Si trattava di un castello costruito con il legno e ricoperto di stoffe preziose dove prendevano posto delle giovani spose e delle ragazze. Queste, riccamente ingioiellate ed ornate, dovevano difendere il castello dall'assalto di giovani divisi in varie compagnie ciascuna sotto l'insegna del proprio Comune. Quali armi di difesa per le donzelle e di attacco per i giovani, solo rose, garofani, gigli, ma anche, a quanto pare, noci, datteri e altra frutta ancora e altri fiori pregiati.  La guerra simulata era poi accompagnata da un sottofondo sonoro che accentuava e completava il clima di giocosa cortesia che caratterizzava la festa. Un clima, tuttavia, che in occasione della festa di quell' anno venne presto violentemente interrotto.
Il gruppo dei giovani veneziani era sul punto di conquistare il castello - e le dame - quando i giovani padovani, forse invidiosi, forse volutamente canzonati, strapparono all'improvviso dalle mani dei probabili vincitori lo stendardo di S. Marco e lo gettarono a terra calpestandolo e facendolo a pezzi. La reazione dei veneziani di fronte a tanto strazio del loro amato simbolo cittadino, non si fece naturalmente attendere e così dalla festa e da una guerra simulata, si arrivò presto alle mani e ad una vera e propria guerra armata.
Sedati temporaneamente gli animi dei turbolenti giovani ed interrotta la festa, le ostilità infatti si spostarono e ripresero in ben altro campo. I padovani, appoggiati dai trevigiani - entrambe le città non guardavano certo con entusiasmo alla crescente potenza di Venezia -, minacciarono la città di Chioggia e saccheggiarono il territorio veneziano limitrofo. Infine tentarono un assalto ad un castello, ma questa volta ad una castello vero, quello delle Bebbe, collocato quale avamposto difensivo dei veneziani verso Padova, Adria e Ferrara ..
I padovani dallo scontro coi veneziani, aiutati in questa occasione dai chioggiotti, ne uscirono anche questa volta drammaticamente sconfitti, complice, pare, un'improvvisa inondazione d'acqua marina che presto allagò l'intera area dove si erano accampati. In questa inaspettata situazione i padovani si trovarono così circondati improvvisamente dall'acqua e dagli acquitrini diventando facili prede per i veneziani che infatti riuscirono a catturarne svariate centinaia senza colpo ferire.
La pace tra Padova e Venezia si concluse il 9 aprile del 1216 alla condizione che Padova consegnasse ai veneziani almeno 25 di quei giovani principalmente responsabili dei disordini scoppiati a Treviso e all'origine della guerra che ne seguì. Il Comune di Padova acconsentì e consegnò i giovani al governo veneziano che tuttavia, avuta la soddisfazione di vedere la sottomissione di Padova, dopo una breve prigionia rispedì i giovani sani e salvi alle loro case.
Si chiudeva così, finalmente, un'ingloriosa parentesi, presagio di ben più dure e cruente battaglie tra le due città.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI



giovedì 28 maggio 2015

STORIA VENETA: 34 - DANDOLO OFFRE DENARO ALLA PATRIA. PER MANTENERE LE GUARNIGIONI DI CRETA



Dal testo di Francesco Zanotto


" ... e siccome prevalea l'opinione di smantellare le mura (. .. ) Rainieri Dandolo con tutta la forza di sua maschia eloquenza si oppose (. .. ). Queste ragioni parvero suadere il Senato.  Se non che vedendo il Dandolo tentennare le opinioni a motivo che grave ostacolo era la economia ristretta dell'erario; sorse ad un tratto, e spinto dall'amor  di patria, magnanimamente s'offerse di mantenere coll'oro suo proprio i castelli e le piazze; munir queste di guarnigioni e ripararne le mura. Fu laudata, non accettata l'offerta; chè  non volle saggiamente il Senato ... "


ANNO 1207


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Per permettere il pagamento del soldo alle guarnigioni dell'isola di Creta e i lavori di restauro delle mura e delle fortificazioni Ranieri Dandolo giunge ad offrire il suo denaro allo Stato veneziano affinchè possa garantire la difesa dell'importante baluardo ...


34 - LA SCHEDA STORICA


Con la strage e con uno dei più brutali saccheggi che la storia ricordi, i veneziani e l'esercito franco-crociato erano riusciti dunque a conquistare Costantinopoli.
Si apriva ora l'ardua e difficile impresa di organizzare il nuovo Impero Latino d'Oriente nato quale immediata conseguenza della conquista della città. Questa portò infatti con sé anche i vasti territori un tempo appartenuti all'Impero bizantino.  Le varie spettanze erano già state stabilite prima della conquista vera e propria, nel mese di marzo del 1204 con la sottoscrizione da parte dei partecipanti all'impresa, di un patto. Le varie discordie scoppiate in Terra Santa dopo la sua conquista fra i crociati avevano dimostrato tutta l'utilità e la convenienza di chiarire preventivamente l'eventuale spartizione territoriale.
La "Partitio Romaniae", in poche parole la spartizione dell'Impero Romano d'Oriente, assegnava così al nuovo imperatore di Costantinopoli un quarto di tutti i territori, la capitale ed il suo entroterra con in più le coste della Turchia e le grandi i sole dell'Egeo.
Al marchese Bonifacio di Monferrato andavano invece il regno di Tessalonica, Atene, l'Attica, la Beozia e l'Argolide (penisola greca).
Ai baroni crociati, infine, la Tessaglia, parte della Macedonia e la Tracia.
E i veneziani? I veneziani, naturalmente, non mancarono di far pesare la loro decisiva presenza nell'impresa ispirata e voluta primariamente dal loro doge Enrico Dandolo. Senza le sue navi e la sua determinazione, la conquista di Costantinopoli sarebbe rimasta infatti un mero sogno. E così, forti della loro posizione e del loro peso, i Veneziani nei patti di marzo riuscirono a garantirsi le più importanti basi e città costiere nel tragitto da Venezia a Costantinopoli ed oltre, assicurandosi un tragitto esclusivo e preferenziale nei traffici commerciali da e per la capitale. L'Epiro, le isole Ionie, l'Etolia, gran parte del Peloponneso, le isole di Egina e Salamina dirimpetto ad Atene, le isole Cicladi, la penisola di Gallipoli con Lampasco ai Dardanelli e per finire la provincia di Adrianopoli fino al Mar di Marmara.
A tutto questo si aggiunsero le importanti isole di Durazzo e Corfù oltre a Creta con i due porti di Modone e Corone, gli "occhi della Serenissima" nella Morea. Data la loro particolare importanza dovuta ad una posizione strategica, questi ultimi resteranno gli unici possedimenti posti sotto la diretta autorità del governo veneziano e del suo doge, che si poteva ora fregiare del curioso titolo di "podestà e despota dell'Impero di Romania e dominatore della quarta parte e mezza dell'Impero".
Conclusa e successivamente realizzata la spartizione, restava ai veneziani ed ai crociati la difficile impresa di gestire ed amministrare questi vasti territori geograficamente lontani dalla madre patria ed amministrativamente precari e malsicuri data la naturale diffidenza, quando non si trattava di un vero e proprio odio, delle popolazioni locali.
Ma a minacciare la riuscita dell'operazione non c'erano soltanto questi fattori. I nemici si annidavano infatti anche in Occidente e si chiamavano Genova e Pisa. Le due città avevano avuto fino al fatidico 1204 importanti mercati e quartieri a Costantinopoli dove gli attriti con i veneziani non erano mai mancati.
Le due città marinare non potevano certo sopportare ora, che la loro storica concorrente mettesse le mani sulla città diventandone l'unica padrona. Timori più che legittimi dato che dopo la conquista tanto i pisani quanto i genovesi si videro esclusi dal commercio dell'area mediorientale ora monopolio dei veneziani. Per Pisa e Genova era veramente una situazione insostenibile ed inaccettabile che ben presto sarebbe infatti esplosa emblematicamente in una delle isole più strategicamente importanti: Creta.
L'isola non rientrava fra i territori spettanti a Venezia sulla base dei patti del marzo del 1204. Creta invece venne letteralmente acquistata a suon di quattrini dai veneziani il 12 agosto di quello stesso anno. In quell'occasione il governo veneziano versò 1000 marche d'argento al marchese Bonifacio di Monferrato che a sua volta aveva ricevuto l'isola dall'imperatore Alessio IV quale compenso per il sostegno fornitogli nel recupero del trono.
Benché nominalmente dei veneziani tuttavia, ben più difficili si presentavano la conquista e la gestione dell'isola nella realtà. Nel 1206 infatti, un corsaro genovese, tal Enrico Pescatore dopo essersi autonominato conte di Malta, era sbarcato a Creta riuscendo ad occuparvi numerose roccaforti lungo le coste.
Installatosi nel centro e nella parte orientale dell'isola, il conte genovese riuscì a respingere una prima spedizione dei veneziani che tentavano di affermare anche concretamente il proprio diritto nominale sull'isola. Una seconda spedizione guidata da Ranieri Dandolo, figlio dell'ormai mitico doge Enrico, riuscì a recuperare le due importanti roccaforti di Corone e Morone senza tuttavia riuscire a piegare completamente la resistenza del Pescatore appoggiato dalle stesse popolazioni locali.
A Venezia intanto si discuteva come risolvere definitivamente la questione con una prevalenza tra i membri del Senato, di chi voleva abbattere tutte le difese e smantellare le mura dell'isola in modo da togliere ai ribelli ogni possibilità di resistenza. A questa proposta si oppose invece energicamente Ranieri, nel frattempo rientrato da Creta. Lasciare l'isola sguarnita di difese, voleva dire offrire una facile preda ai nemici esterni. Se le spese, poi, per sostenere le difese e le guarnigioni erano troppo pesanti da sostenere per l'erario della repubblica, le avrebbe sostenute lui stesso pagandole di tasca propria.
Pur riconoscendo la generosità del gesto e l'opportunità di non sguarnire l'isola delle sue difese, il Senato si dimostrò tuttavia riluttante ad accettare che una sola persona riunisse nelle proprie mani e dietro pagamento, tanto potere sulla strategica isola.
In segno di fiducia allora, pur rifiutando l'offerta del Ranieri, il Senato veneziano gli conferì il comando di una nuova flotta che salpò verso l'isola nel 1207. Nell'agosto di quello stesso anno Ranieri con le sue navi riuscì a conquistare la fortezza dell'isola salvo tuttavia, riperderla poco dopo.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI





mercoledì 27 maggio 2015

STORIA VENETA: 33 - UN'ORA BUIA PER Il MONDO. LO SCEMPIO DI COSTANTINOPOLI FU VERGOGNOSO



Dal testo di Francesco Zanotto


"Rammenta egli adunque, come allorquando i Latini irruppero nella città di Costantinopoli, e che ogni cosa ponevano a sacco, o ruinavano, ed ogni vita spegnevano; egli, il Niceta, e la sua famiglia, erano in grave pericolo. La pietà di un Mercatante Veneziano; del quale tacque il nome la storia, si destò a favore di lui; di lui, che nella fuga di Alessio, avea salvata la vita dello stesso Mercatante. La gratitudine accendendo la pietà nel cuore del Veneziano, che in quella guerra avea assunto le assise e il carico di soldato,  fe' sì che accorresse sollecito in aiuto ... "


ANNO 1024


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Assediata e sconfitta dalla coalizione crociata, grazie anche all'apporto dei Veneziani la capitale dell'Impero d'Oriente viene saccheggiata. Ma succede anche l'incredibile: un soldato veneziano salva la vita allo storico Niceta ostacolando i suoi compagni di saccheggio e permettendogli la fuga dalla città in fiamme ...


33 -  LA SCHEDA STORICA


Tra il 9 ed il 12 aprile del 1204 un'ondata devastatrice si riversò sull'antica capitale dell'Impero d'Oriente razziando tutto quello che c'era da razziare, devastando case, palazzi e facendo strage di una popolazione atterrita ed inerme.
Non erano dei 'barbari" gli artefici di tanto orrore o, per lo meno, tali non si ritenevano, ma cristiani.
Cristiani che avevano giurato sulla croce che ora portavano simbolicamente sul petto di non impugnare armi contro altri cristiani, ma solamente per combattere gli infedeli.
La brutale presa di Costantinopoli rappresentò in questo senso il tragico e definitivo tradimento dell'originario proposito, ideale e spirituale della crociata. Tradimento che ora si disvelava tragicamente agli occhi della storia.
Le responsabilità dei veneziani nella strage e nel saccheggio della città, non sono ancora del tutto chiare. Certo anch'essi depredarono e arraffarono quanto fu possibile, ma probabilmente le maggiori distruzioni in termini materiali, oltre che umani, sono da imputare all'esercito franco-crociato.
I veneziani quello che riuscirono ad asportare lo inviarono prontamente a Venezia, a cominciare dai quattro cavalli di bronzo che sin dai tempi di Costantino si trovavano nell'Ippodromo cittadino e che successivamente vennero posti sopra la porta principale di S. Marco.  La stessa Basilica Marciana venne inoltre decorata con sculture e bassorilievi ugualmente spediti da Costantinopoli mentre nel transetto nord trovò posto la Madonna Nicopeia - apportatrice di vittoria - che gli imperatori bizantini usavano portare davanti a sè in battaglia.
Se i franchi distrussero ed incendiarono, i veneziani, depositari di una diversa cultura storica ed artistica, arraffarono quanto possibile per poter arricchire, oltre che sè stessi, anche la propria città.
Intanto la strage e gli atti di vandalismo non si contavano più nella città devastata.
"I franchi - si apprende da una delle numerose cronache di quei giorni - invasero S. Sofia e, strappate le porte, distrussero il coro dei sacerdoti ornato d'argento e di dodici colonne pure d'argento; nel muro ruppero poi quattro pannelli ricoperti di icone e dodici croci che si trovavano sull'altare tra le quali ne spiccavano alcune cesellate come alberi e più alte di un uomo. Rubarono anche una magnifica tavola con pietre preziose e una grande gemma. Poi s'impadronirono di quaranta calici ... " ed il triste elenco potrebbe ancora continuare.
Intanto Bonifacio, marchese di Monferrato e uno dei capi della crociata occupava il grande Palazzo delle Blacheme. Era questo l'antico palazzo degli imperatori d'Oriente dove aveva regnato il grande Giustiniano e dove c'erano pare, ben 500 stanze tutte ricoperte di mosaici e 30 cappelle dove, in una di queste detta Cappella Santa si custodivano tra marmi, pietre preziose ed argenti, due grossi frammenti della croce di Cristo e altre reliquie, presto trafugate dai crociati.
Fra gli impotenti ed atterriti testimoni di tanto scempio e crudeltà, c'era anche il cronista e storico greco Niceta Coniate, autore di una "Historia Costantinopolitana". Il suo racconto resta una delle più alte e commoventi descrizioni di quei terribili giorni.
"Io non so come mettere ordine nel mio racconto - esordisce Niceta -, come cominciare o finire. Essi - i franchi -, fracassavano le sante immagini, scagliavano le sacre reliquie dei martiri in posti che io mi vergogno di menzionare ... La loro profanazione della grande chiesa di S. Sofia non può essere ricordata senza orrore. Distrussero l'altar Maggiore e introdussero nella chiesa cavalli e muli per portar via meglio i santi vasi e l'argento inciso e l'oro che avevano strappato dal trono e dal pulpito e dalle porte ... Nelle strade, case e chiese si potevano udire soltanto grida e lamenti".

Nell'orrore un gesto di pace

Neppure il sepolcro di Giustiniano venne risparmiato mentre anche una nota statua di Giunone eretta nel Foro con altre statue dell' Ippodromo venivano fuse e così per sempre perdute.
" Più di 10.000 templi bruciarono e gli altri furono ridotti a stalle di cavalli ... violarono vergini e monache, donne sposate; vendettero fanciulli perfino ai musulmani ... Fecero ingiuria a chi non la fece loro mentre essi stessi professavano il Cristianesimo ... " così un'altra fonte.
Fu certamente l'ora più buia di Costantinopoli, travolta dal terrore e dalla distruzione.
Eppure in quei giorni di sangue e terrore, trovò posto un episodio di umana solidarietà che vide come protagonista proprio Niceta Coniate ed un mercante veneziano del quale lo stesso Niceta che racconta l'episodio, tace il nome.
Durante la furia devastatrice dei Latini, anche la famiglia di Niceta era in grave pericolo. Il greco aveva tuttavia salvato un giorno la vita al mercante facendolo suo ospite. Ora, nei giorni di maggior furore, il mercante veneziano, più o meno costretto ad indossare la pesante corazza del soldato, si precipitò a casa di Niceta.  Lo trovò mentre stava radunando le sue poche cose ed i membri della sua famiglia, dato che i servi si erano dati prontamente alla fuga. Arrivato, il mercante-soldato veneziano si pose davanti alla porta della casa respingendo i suoi commilitoni e chiunque vi tentasse di entrare con la forza. Aiutò poi Niceta nella triste fuga da Costantinopoli verso Selimbra, un centro a pochi chilometri dalla capitale. Niceta partiva con la moglie, in attesa del secondo figlio e con la prima figlia. Durante il faticoso viaggio tuttavia, la moglie morì e fu allora che Niceta sposò la figlia di un senatore che aveva salvato dalla strage che si stava ancora consumando in città.
Grazie all'aiuto di quell'anonimo veneziano, destinato a restare per noi uno sconosciuto, Niceta poté così ritirarsi infine nella città di Nicea e raccontare la sua disperata esperienza e testimonianza.  Morirà nel 1216 lontano dalla sua amata città che infatti mai più ebbe modo di rivedere.



Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  2, SCRIPTA EDIZIONI