sabato 17 ottobre 2020

QUANTO L’ITALIA VOLEVA INVADERE LA SVIZZERA

 "ECCO LE CARTE SEGRETE DEGLI ITALIANI PER INVADERE LA SVIZZERA NEUTRALE"


 

Un soldato svizzero di guardia durante la Seconda guerra nella regione del Gran San Bernardo.


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Forse qualcuno si sorprenderà scoprendo che, a dispetto di rapporti diplomatici relativamente stabili e sereni, Svizzera e Italia, fin dalla nascita di quest’ultima come Stato unitario nel 1861, hanno sempre ipotizzato e congetturato di doversi affrontare militarmente. La storia di questi piani di guerra d’invasione viene ora svelata attraverso un imponente lavoro di documentazione dallo storico Leonardo Malatesta in un pregevole saggio edito da Dadò. Il Corriere del Ticino ha intervistato l'autore.

 

Dottor Malatesta, come mai tanta attenzione da parte sua per la Svizzera e per la storia militare dei complicati confini della regione insubrica? Quali sono le caratteristiche più interessanti del nostro territorio e della frontiera sud del nostro Paese dal punto di vista dello studioso e dell’appassionato?

Leonardo Malatesta: L’interesse che nutro per il territorio elvetico, proviene dai miei studi in storia militare, iniziati per il conseguimento della laurea in storia presso l’Università di Venezia. Nel corso della mia tesi, riguardante le fortificazioni italiane ed austriache nella zona tra l’altipiano di Asiago e quelli trentini di Folgaria, Lavarone e Luserna sentii parlare della frontiera con la Svizzera e delle fortificazioni che l’Italia costruì nel primo decennio del Novecento, in Valtellina per difendersi da un eventuale attacco proveniente dalla Confederazione Elvetica. In Italia e anche in Svizzera, ho notato che c’erano delle notizie su questi piani di fortificazione e non solo, ma c’era ancora tanto da approfondire.

 

Il suo libro è una miniera di documenti, spesso sorprendenti: quali sono state le sue fonti e come mai fino ad oggi a nessuno era venuto in mente di raccoglierle e commentarle in modo sistematico?

La fonte principale del mio libro, sono stati i documenti presenti presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma. In tre faldoni, sono raccolti molti documenti che riguardano l’Esigenza S, il famoso Piano Vercellino. Fino ad oggi, ci sono stati alcuni libri e articoli che hanno trattato del tema, ma mai in modo specifico ed approfondito. Vedendo, questa mancanza, da storico, ho pensato di studiare compiutamente il tema, per la maggior parte inedito, focalizzando l’attenzione sul Piano Vercellino, ma cominciando la mia analisi dal 1861 e dai rapporti militari che ci furono tra le due nazioni, sia nei periodi di pace che anche durante la Prima guerra mondiale.

 

Se i preparativi di invasione da parte dell’Italia fascista o i piani offensivo-difensivi elvetici del colonnello Keller sono argomento piuttosto noto al grande pubblico, leggendo il suo libro si ha l’impressione che, a dispetto di relazioni diplomatiche in apparenza sempre tranquille, fin dagli albori dell’unità gli ambienti militari del Regno congetturavano fantomatiche conquiste almeno dei cantoni meridionali della Confederazione: fu davvero così?

L’Italia ebbe sempre un occhio vigile verso la Svizzera, soprattutto verso i territori, come il Ticino dove c’era una comunità italiana. Dall’unità in poi lo Stato maggiore tenne sotto controllo i confini con la Confederazione ed un primo esempio tangibile fu la fortificazione della Valtellina, con le opere di Montecchio Nord a Colico, allo sbocco della Val Chiavenna, Canali a Tirano allo sbocco della Val Poschiavo e Dossaccio di Oga allo sbocco della zona di Livigno e del Cantone dei Grigioni. Non erano solo piani sulla carta ma anche preparativi sul terreno.

 

Fulcro della sua ricerca rimane comunque il famigerato "Piano Vercellino": di che cosa si tratta e quali erano le sue linee operative essenziali?

L’Esigenza S, divenne Piano Vercellino, dal nome del generale Mario Vercellino, il comandante dell’Armata del Po, che secondo i dettami del piano, doveva effettuare l’attacco principale per l’invasione della Svizzera. Il piano operativo, molto dettagliato, che partiva da una attenta analisi della geografia di confine e della dislocazione delle forze elvetiche, prevedeva l’invasione del Ticino, tenendo conto anche delle fortificazioni che esistevano in Ticino e che rappresentavano un ostacolo per l’avanzata delle fanterie.

Fu però l’unico piano d’attacco elaborato dall’Italia, perché fino ad allora, verso la Svizzera, i vari progetti ed anche le fortificazioni costruite avevano un compito esclusivamente difensivo. Nel periodo fra le due guerre, con l’ascesa al potere del regime fascista, l’ipotesi Svizzera non era fra le primarie, perché i pericoli potevano arrivare da altre zone, come al confine con la Francia, dove l’Italia, rafforzò i confini con le fortificazioni del Vallo Alpino del Littorio, mentre nulla venne mutato al confine con la Confederazione.

Furono importanti per l’elaborazione del progetto operativo, le informazioni raccolte dal Servizio Informazioni Militari, lo spionaggio italiano nel corso del ventennio. Nel piano era previsto che l’attacco fosse dapprima terrestre, con una netta superiorità italiana rispetto alle forze militari del Ticino che avrebbe schierato truppe da montagna. In un secondo momento, ci sarebbe stato l’appoggio decisivo dell’aeronautica.

 

Alla fine però (e per fortuna, aggiungerei) non se ne fece niente: per quali ragioni e quanto, secondo lei, andammo davvero vicino tra il 1940 e il 1943 ad un cruento bagno di sangue sul territorio ticinese, vallesano e grigionese tra invasori italiani e patrioti svizzeri?

Il Piano Vercellino non fu mai applicato perché la Svizzera non rappresentò durante la Seconda guerra mondiale un obiettivo concreto e perché neutrale. Basti pensare che l’Armata del Po, che avrebbe avuto il compito principale di attaccare la Confederazione già nel febbraio del 1941 venne trasferita al sud Italia, segno che gli interessi dello Stato Maggiore italiano verso la Confederazione erano presto scemati.

Comunque di certo da storico militare posso dire che per gli italiani non sarebbe stata una passeggiata. Non si andò mai davvero vicino ad uno scontro tra italiani ed elvetici, mentre negli ultimi giorni dell’aprile 1945, si sfiorò il bombardamento di Chiasso da parte dei tedeschi ammassati vicino al confine che volevano entrare in Svizzera. Solamente grazie all’intervento del colonnello Mario Martinoni non accadde nulla.

 

 

Fonte: srs di Di Matteo Airaghi, Corriere del Ticino;   TV Svizzera del 10 settembre 2020

Link: https://www.tvsvizzera.it/tvs/storia_-ecco-le-carte-segrete-degli-italiani-per-invadere-la-svizzera-neutrale-/46018788?utm_content=o&utm_campaign=own-posts&utm_source=facebook&utm_medium=socialflow&fbclid=IwAR34hVVeUmSleJHt9OKXz3i8rWJDEm2bVHwMzV3HDEAZPmdhuTElObBJSGA

 

lunedì 12 ottobre 2020

IL SACRIFICIO UMANO NEL CULTO DEI CELTI

 

L'uomo di vimini


DI  MILLO BOZZOLAN · 

 

Il sacrificio umano fu praticato anche dai paleo Veneti, ma in misura molto ridotta. Conosciamo solo una tomba in cui fu rinvenuto un cavallo sacrificato col suo stalliere, nella periferia di Padova, mentre presso i Celti era pratica comune.  Ecco le testimonianze storiche:

Per dare un’ idea, ora, della crudezza della pratica sacrifica presso i Celti, rifacciamoci a tre autori romani. Nell’ ordine, Cesare, Strabone e Diodoro Siculo.


Cesare, nel De Bello Gallico (VI,16), scrive:


<<I Galli sono molto dediti alle pratiche religiose, perciò quelli che sono gravemente ammalati o si trovano in guerra o in pericolo, fanno sacrifici umani o fanno voto di immolarne e si servono dei druidi come esecutori di questi sacrifici: essi credono infatti che gli dei immortali non possono essere soddisfatti se non si dà loro, in cambio della vita di un uomo, la vita di un altro uomo; fanno perciò anche sacrifici ufficiali di questo genere. Certe popolazioni costruiscono statue enormi, fatte di vimini intrecciati, che riempiono di uomini vivi ed incendiano, facendoli morire
tra e fiamme. Credono che cosa più gradita agli dei sia il sacrificio di coloro che sono sorpresi a rubare, rapinare o commettere qualche altro delitto; ma quando mancano costoro, sacrificano anche degli innocenti>>.

 

Strabone (Geogr. IV, 5), scrive:

 

<<I Romani posero fine a queste usanze, nonché ai sacrifici e alle pratiche divinatorie contrastanti con le nostre istituzioni. Così un uomo era stato consacrato agli dei, lo si colpiva alla spalla con una spada da combattimento e si divinava il futuro a seconda delle convulsioni dell’agonizzante. Non si praticavano mai sacrifici senza l’assistenza dei druidi: così talora uccidevano le vittime a colpi di frecce, o le crocifiggevano neiloro templi o, ancora, fabbricavano un colosso di fieno e di legno, vi introducevano animali domestici e selvatici di ogni tipo assieme a degliuomini e vi appiccavano fuoco>>.

 

Ed ecco, infine, cosa dice Diodoro Siculo:

 

<<Essi sono -è una conseguenza della loro natura selvaggia- di un’ empietà mostruosa nei loro sacrifici. Così, tengono imprigionati i malfattori per un periodo di cinque anni e poi, in onore ai loro dei, li impalano e ne vanno degli olocausti, aggiungendo ad essi molte altre offerte, su immense pire appositamente preparate. Trasformano anche i prigionieri di guerra in vittime per onorare i loro dei. Alcuni usano allo stesso modo anche gli animali catturati in guerra. Li uccidono unitamente agli uomini o li bruciano, o li fanno perire con altri supplizi>>.

 

 

Il seguente schema può essere utile per classificare i vari tipi di sacrificio rituale in uso presso i Celti:

 

-INCRUENTO, ovvero a livello sacerdotale usando per uccidere gli elementi della natura, senza uso di armi. Abbiamo così le impiccagioni, le crocefissioni, le immersioni, le cremazioni e le inumazioni.
-CRUENTO, ovvero uccisione con la spada, la lancia o qualsiasi altra arma.
-LIQUIDO O VEGETALE, tramite oblazione o libagione fino a far scoppiare lo stomaco.

 

Fonte:  srs di Millo Bozzolan  da Vento Storia del 28 giugno 2016

Link: https://www.venetostoria.com/?p=12761&fbclid=IwAR2XTgU5RdaxpbuluMnEQZbzOQ3XxOdrQsfz8HVWJmJgSu1Dz2e_cj2ri58

 

 


UNA RISPOSTA


Ne dite di cazzate, eh!

 

8 ottobre 2020

 

Io francamente ancora non mi spiego un simile accanimento con un popolo antico come i celti, che fanno anch’essi parte della nostra eredità, della nostra storia e DELLA NOSTRA ASCENDENZA; ma intanto si spendono fiumi e fiumi di paroline dolci, lacrimevoli e melense per razze come quella negroide o semitica, da sempre avvezze alle peggio turpitudini (indole MAI estinta, vorrei ricordare).


In oltre quegli scritti sono estremamente enfaciti, contradittori (la crocifissione come pratica era sconosciuta presso i celti, e i romani la appresero da cartaginesi ed ebrei; fate un pò i vostri conti), atti solo a far sembrare i celti come mostri sanguinari e unicamente violenti. 

L’unico più attendibile è proprio il De Bello Gallico di Cesare, ma anche qui i suoi racconti vanno presi con le pinze: dice il vero che i “sacrificati”, erano per lo più criminali ed individui abbietti; ciò porterebbe a ritenere i “sacrifici” nient’altro che esecuzioni sacralizzate (dopotutto i Druidi, oltre che sacerdoti, svolgevano anche le funzioni di medici, filosofi e pure giudici). In oltre è assai improbabile che Cesare avesse mai assistito in prima persona ad una delle loro cerimonie; si ritiene infatti (con logica, aggiungo io) che la storia dell’uomo di vimini (anch’essa esagerata fino all’eccesso, e ben poco credibile) non fosse altro che un antico retaggio oramai caduto in disuso presso le popolazioni cisalpine e transalpine (probabilmente qualcosa era sopravvissuto solo in certe regioni di Scozia e Irlanda del Nord), e quindi tramandato unicamente tramite racconti e leggende orali (e si sa, anche in questo caso, le si spara sempre più grosse) che cesare avrà udito da oratori e bardi er riportate come rito effettivo nei suoi scritti.


Il metodo più comune per i “sacrifici” era certamente l’impiccagione, poichè essendo gli alberi un vicolo spirituale e divino (vedi il grande albero della vita), l’anima del condannato andava direttamente al regno dei morti tramite i suoi rami. A seguire ci era l’inumazione e l’annegamento, ma TUTTE le vittime erano sempre criminali incalliti, dei peggiori.


L’uccisione con le armi invece era prevista per traditori e disertori, ma pure a Roma vigeva la stessa legge presso l’esercito.


Non sono realmente pervenute, come la crocifissione, l’oblazione o l’impalamento; queste ultime usate dai cristiani come metodo di tortura e dagli islamici come condanna..

 

sabato 10 ottobre 2020

COME SI LEGGEVA L’ORA NELLA SERENISSIMA DEL XVIII° SECOLO


Orologio della Torre di Piazza San Marco

di Alessandro Marzo Magno

 


Noi oggi usiamo l'ora Francese: quadrante dell'orologio diviso in 12 ore e due lancette, una corta che indica le ore e una lunga per i minuti. Fino a metà Settecento andava per la maggiore l'ora Italiana: quadrante diviso in 24 ore (il 24 stava a destra, dove ora noi abbiamo le 3) e una sola lancetta.


Il sole tramontava alle 23 e mezzo e dopo mezz'ora scoccavano le 24 e il nuovo giorno, fino alle 24 successive. Il problema era che le ore variavano con il mutare della lunghezza delle giornate, così il mezzogiorno, ovvero la metà tra l'alba e il tramonto, corrispondeva più o meno alle diciannove in inverno e alle sedici in estate. Le due corrispondevano a due ore dopo il tramonto, cioè alle nostre sette di sera d'inverno e alle nostre dieci di sera d'estate (circa).


Esistono ancora numerosi orologi mai aggiornati, ovvero con una sola lancetta e il quadrante diviso in 24 ore: la torre dell'orologio a Venezia, quelle di Brescia e di Padova, nonché l'orologio del duomo di Firenze, con il quadrante affrescato da Paolo Uccello.


Il primo stato Italiano ad adottare l'ora Francese fu il Granducato di Toscana, nel 1749, il secondo il ducato di Parma, nel 1755, gli ultimi i territori della Serenissima, dopo l'invasione Francese del 1797.


A noi l'ora Italiana sembra un sistema molto astruso per calcolare le ore, ma non così appariva nel Settecento. Giacomo Casanova, giunto a Parma poco dopo l'adozione dell'ora Francese, annota nel suo "Storia della mia vita" il dialogo con un oste Parmense.


«Da tre mesi a Parma siamo nella confusione più totale, tanto che ormai nessuno sa più che ore sono».
«Hanno distrutto gli orologi?»
«No di certo! Ma da quando dio ha creato il mondo, il sole è sempre tramontato alle ventitré e mezzo, e mezz'ora dopo si è suonato l'angelus: tutti sapevano che quello era il momento di accendere le candele. Ora viviamo nella confusione più totale, tanto che il Sole tramonta ogni giorno ad un'ora diversa. I contadini non sanno più a che ora andare al mercato. Dicono che ora hanno sistemato ogni cosa, e sapete perché? Perché finalmente tutti sanno che si pranza alle ore dodici. Bella scoperta, dico io! Al tempo dei Farnese si mangiava quando si aveva fame, ed era molto meglio».


Mai contenti. 



 

 Torre dell' Orologio di Padova in Piazza dei Signori . 


 

La costruzione risale alla prima metà del Trecento, quando fungeva da ingresso fortificato di levante della Reggia Carrarese ma il suo aspetto attuale si deve ai lavori promossi a partire dal 1426 dal Capitanio Bartolomeo Morosini conclusi con l'inaugurazione dell'orologio nella festa di Sant'Antonio del 1437.


 

Fonte. srs di  Alessandro Marzo Magno, da Facebook  Verona Presidio Storico  del 3 settembre 2020

Link: https://www.facebook.com/groups/449078418487051/

 

 

 

LE ORE AI TEMPI DI CASANOVA: UN METODO TUTTO VENEZIANO DI CALCOLARE IL TEMPO.

 

Quadrante dell'orologio.  Chiesa di San Zeno a Verona


 

Basta leggere attentamente l’autobiografia di Giacomo Casanova per scoprire usanze diverse da quelle attuali, ed alcune anche molto simili, (la descrizione del letterato, imbroglione, mezzo stregone e anche istintivamente medico, antesignano dell’uso dei preservativi che utilizzava all’epoca), per rendersi conto della differenza che fino alla fine del 1700 c’era nel calcolo e la denominazione delle ore a Venezia ed anche in Italia.

 

La testimonianza più sconosciuta ma curiosa si deve a Jerome Laland che nel suo “Vojage d’un francois en Italie”  (vol.7) (1755-1756) racconta dell’usanza di contare le ore in Italia, nonostante gli orologi, che probabilmente si adeguavano a  tali usanze, visto che consideravano  visibilmente dall’una alle ventitre, e trovò una logica in tutto questo poichè venivano considerate come ore valide alla società quelle che, grazie alla luce del sole, erano destinate al lavoro delle persone.. ore di luce, ore di lavoro,   poi la notte, senza orari e senza limiti,  per poi rinnovarsi i lividi bagliori  dell’alba.

 

Il segreto stava nel considerare da quando partiva l’una, e quando finivano le ventiquattro.  Il concetto di orario veniva definito in base alle ore di luce, quando era possibile vedere, e lavorare. 

Dopo il tramonto del sole, da mezz’ora a quarantacinque minuti dopo , in base alle stagioni, calavano le tenebre: ed ecco che allora venne considerata l’ora zero da questi momenti, legati al tramonto, e conseguentemente al battere delle campane l’Ave Maria”.

 

Per cui, regolandoci a Venezia spesso il mezzogiorno odierno veniva considerato alle ore 19. Capitava che la mezzanotte veneziana veniva battuta alle nostre attuali 7,45. 

Ecco che allora l’ora zero cambiava  continuamente : 

 

a gennaio veniva considerata alle 17 attuali, 

a febbraio alle 17,45, 

a marzo alle 18,30, 

ad  prile alle 19,30, 

a maggio, 19,45.

a giugno 20,15,

a luglio alle 20,17, 

ad agosto 19,30, 

a settembre 18,30. 

a ottobre 18.50. 

a novembre 16,50 

 a dicembre alle 16,45.

 

Poi, alla fine del 700 anche l’Italia e Venezia, nella fattispecie, si adeguarono ad un nuovo calcolo del tempo codificato, con ventiquattr’ore suddivise in dodici diurne e dodici notturne, denominato sistema europeo.

 

Tanto c’è ancora da conoscere e da scoprire delle consuetudini e della cultura di questa meravigliosa città-Stato che, attraverso i suoi straordinari artisti, scrittori, poeti, musici ci ha lasciato una testimonianza della sua eclettica, unica e fantastica capacità di codificare e vivere la sua vita e quella dei suoi abitanti.

 


Fonte: Da Venezia nascosta

Link: https://venezia.myblog.it

 

giovedì 8 ottobre 2020

UN ATTACCO INFORMATICO SVELA LA CAMPAGNA DI PROPAGANDA DEL REGNO UNITO PER PORTARE LA SIRIA A UN CAMBIO DI REGIME

 


Quando ho parlato [in inglese] della fuga di notizie riguardante il rapporto “Integrity Initiative” del 2018/19, che rivelava la portata della guerra di propaganda del Regno Unito contro la Russia, non pensavo potesse essere più organizzata e coordinata di quanto lo era. Coinvolgendo centinaia di giornalisti e accademici di tutto il mondo per diffondere disinformazione sulla Russia, e dipingere questo Paese nel modo più negativo possibile sui media mainstream, la campagna finanziata dal governo inglese era una sofisticatissima guerra di informazione. Ma ora nel 2020 stiamo ancora scoprendo la vera portata dell’influenza del governo occidentale sulla narrativa promossa dai media mainstream. E la nostra “democrazia” non ne esce bene.

 

L’8 settembre il gruppo hacker Anonymous ha pubblicato [in inglese] delle scioccanti rivelazioni su com’è stata condotta una campagna concertata e organizzata a sostegno dei ribelli anti-governativi in Siria. Una serie di documenti fa riferimento alla ONG ARK, che, sebbene si definisca una organizzazione umanitaria, funge di fatto da veicolo per i cambi di regime guidati dall’Occidente. In un documento [in inglese] si legge:

 

“Fin dal 2012 l’ARK è stata focalizzata nel fornire una programmazione per la Siria altamente efficace e sensibile dal punto di vista politico e del conflitto, per i governi di Regno Unito, Stati Uniti, Danimarca, Canada, Giappone e Unione Europea”.

 

Questa è un’immagine diversa da quella dichiarata nella missione del loro sito:

 

“L’ARK è stata creata per dare assistenza ai più vulnerabili, in particolare ai rifugiati, agli sfollati e ai colpiti da conflitti e instabilità”.

 

Suona adorabile, vero? Ma questa organizzazione è tutt’altro che caritatevole. Negli ultimi anni ha ricevuto 66 milioni di dollari dai governi occidentali per guidare il cambio di regime in Siria. Vanta relazioni con i membri dell’opposizione siriana costruite nel “corso degli anni”, e noi sappiamo che risalgono al 2011, se non prima, dato che nei documenti si legge che “lo staff ARK è in contatto regolare con gli attivisti e gli attori della società civile che hanno inizialmente incontrato durante le proteste scoppiate nella primavera 2011”.

 

L’ARK ha anche un pacchetto di campagna di propaganda per i media siriani. Nei documenti si discute il modo migliore per raggiungere il pubblico siriano per promuovere la narrativa del cambio di regime, come si legge, con successo, su media digitali come Facebook ma anche attraverso media radiotelevisivi. Se mai ci fosse bisogno della prova che i media mainstream siano assoldati, eccola:

 

“Per raggiungere una forte presenza digitale, ARK/Accadian ricorrerà alle sua relazioni in essere con le testate media… utilizzando le reti e i contatti esistenti, ARK/Accadian punterà sui network TV satellitari (Orient TV, Souria al-Shaab, Souria al-Ghad, Barada), sulle reti arabe e sui principali canali internazionali”.

 

Ciò che è straordinario è l’uso ripetuto della parola “indipendente” per descrive i media promossi da ARK. Gli autori sono chiaramente e beatamente inconsapevoli del fatto che, interferendo nei media di questo Stato sovrano per promuovere il rovesciamento del governo, difficilmente tali media si potranno definire “indipendenti”, ma possono piuttosto essere considerati un braccio dello Stato britanno e dei suoi specifici scopi e obiettivi politici. Nel documento si legge:

 

“Da quando ha cominciato a formare giornalisti locali nel 2012, come parte delle azioni di sviluppo professionale del governo britannico di due indipendenti e autosufficienti testate giornalistiche locali siriane, l’ARK ha formato più di 200 giornalisti, ed è stata fondamentale nell’apportare il contributo multi-donatore e sviluppare delle piattaforme mediatiche in Siria, mantenendo stretti legami con queste strutture”.

 

Vanta di aver prodotto più di 2000 notizie per vari canali mainstream arabi, tra cui Orient, Al Arabiya, Al Jazeera e Sky Arabic, che afferma vengono “trasmesse quasi ogni giorno”. Alcune delle frasi sono delle vere e proprie ammissioni di propaganda [in inglese]:

 

“L’ARK ha agevolato anche il contatto tra opposizione siriana e media internazionali, cercando di affrontare la percezione di un’opposizione non coordinata e promuovendo l’immagine di un fronte unito”.

 

E’ straordinaria la totale faccia di bronzo con cui questo autore scrive di manipolare il pubblico siriano attraverso la propaganda. Ha l’obiettivo dichiarato di creare l’impressione di un’opposizione siriana unita, cosa che ovviamente non è mai stata.

 

Questi documenti contrastano con quanto il governo britannico scrive sul suo sito web [in inglese] su “ciò che sta facendo in Siria”. Lì ci viene detto che il coinvolgimento britannico è limitato all’aiuto umanitario poiché “nel 2012 ha sospeso tutti i servizi dell’ambasciata britannica a Damasco e ha ritirato tutto il personale diplomatico dalla Siria”. L’hackeraggio di Anonymous dimostra che non è lontanamente la verità. C’è stato chiaramente un considerevole coinvolgimento britannico nel promuovere il cambio di regime in Siria. Se non fosse stato per questi documenti trapelati, i contribuenti britannici rimarrebbero completamente all’oscuro di che tipo di ingerenza straniera viene perpetrata in loro nome.

 

Per avere un’analisi e un contesto più dettagliati sui documenti trapelati, potete consultare l’articolo di Ben Norton sul sito GrayZone [in inglese].

 

 

*****

 

Fonte: Articolo di Johanna Ross pubblicato su InfoBrics il 25 settembre 2020
Traduzione in italiano a cura di Elvia Politi per 
Saker Italia.

 

Fonte: da La prospettiva dl falco del 7 ottobre 2020

Link: http://sakeritalia.it/medio-oriente/siria/un-attacco-informatico-svela-la-campagna-di-propaganda-del-regno-unito-per-portare-la-siria-a-un-cambio-di-regime/

 

martedì 6 ottobre 2020

IDEOLOGIA E FEDE O L’ARTE DELLA CRUDELTÀ: RITORNO ALLA BARBARIE

Martirio di Bragadin
 

di ROMANO BRACALINI

 

Il Bragadin veneziano scorticato vivo e rimandato a casa in una botte di aculei, è il miglior esempio di tortura da manuale che faccia onore al grido “mamma li turchi” dell’antico spavento. Ne avevamo persa memoria ma gli ultimi attentati islamisti a Parigi ce l’hanno ricordato.

 

Passano i secoli ma l’ideologia del terrore resta la stessa. Ogni pietra reca traccia di crudeltà. Ogni zolla contiene un rivolo di sangue. L’uomo ha sempre fatto professione di delitto, col conforto di una fede totalitaria. Ma è come si ammazza che dà la misura dell’istinto di odio e di ferocia. L’esperienza ci ha insegnato molte cose: anche a uccidere con gentilezza, che non sarà una grande consolazione per le vittime ma almeno salva le apparenze.

 

Otranto nel 1480 venne assediata dalla flotta turca di Maometto II, intervenuta nella guerra tra Venezia e il regno di Aragona. Non ricevendo rinforzi da Napoli, Otranto si arrese. I turchi passarono a fil di spada nel Duomo il vescovo, il clero e il popolo che vi si era rifugiato. Due giorni dopo, vicino al colle della Minerva, vennero massacrati i prigionieri superstiti, gli ottocento martiri di Otranto i cui corpi restarono insepolti per un anno prima di essere rimossi. Nella cripta della cattedrale, in un armadio ben fornito, sono custodite le loro ossa.

 

Le guerre d’Oriente ci obbligano a un macabro ripasso della memoria. Non c’è più traccia d’onore: sul prigioniero spogliato d’ogni dignità si esercita la furia dell’impulso primitivo che giudicherebbe debolezza ogni richiamo d’umanità. Si torna all’obbedienza omicida dei kapò nazisti e ai guardiani dell’ideologia nelle prigioni di ghiaccio della Siberia.

 

La tirannia predilige anche i rigori del clima. Stalin non avrebbe mai mandato dei dissidenti a svernare in Crimea. Ogni parallelismo è insufficiente e inadeguato: si rischia di non essere all’altezza dei metodi della nuova barbarie. A Gaza è capitato che i resti di soldati israeliani siano stati trascinati come trofei e infine fatti a pezzi e posti in vendita, come facevano dopo la conquista garibaldina i picciotti siciliani con i corpi dei soldati borbonici squartati e venduti sui banchi della “Vucciria” a Palermo.

 

Le immagini dei prigionieri dell’Isis sgozzati come capretti fanno ormai parte di un rituale che ha bandito ogni sorta di pietà e che le televisioni arabe con calcolo pedagogico non si lasciano sfuggire incuranti dell’offesa recata alla natura umana dagli assassini di Allah. (“assassino” viene dall’arabo). Persino tra due orrori complementari si può vedere il segno di due diverse concezioni della morte: se in Occidente in un’ondata di sdegno sincero nessuno ha ritenuto di dover nascondere le sevizie americane, che è già un modo di fare ammenda, non c’è sembrato di scorgere una qualche esecrazione nella dimostrazione selvaggia di gioia urlata da migliaia di bocche sdentate, di braccia levate in segno di minaccia, di donne coperte di nero, accanto alle scritte “Down America” che a Gaza e in Irak inneggiavano allo scempio dei trofei sanguinolenti della macelleria islamica.

 

Non è questo che ci sorprende. In qualunque guerra i morti contano più dei vivi. Se ne fa il conto alla fine d’ogni conflitto e il loro peso serve alla causa. L’Occidente non è esente da colpe. Ma alle sue deviazioni ha sempre trovato i rimedi e gli anticorpi. 

 

Milano è stata la culla del fascismo, ma ne fu anche la tomba. Nazismo e comunismo, come crisi suprema dell’Occidente, sono caduti sotto il peso dei loro delitti e del loro fallimento storico. Il comunismo non è un’invenzione asiatica della Russia autocratica e senza filosofia. Fu esportata tra le steppe primitive e tra i servi della gleba da un raffinato filosofo tedesco, Karl Marx, di Treviri, al quale un destino compassionevole ha risparmiato di vederne i “benefici” effetti che hanno riportato indietro di un secolo la storia di mezza Europa.

 

All’espansione musulmana nel Medio Evo era seguito un lungo sonno neghittoso. Non c’è stata emancipazione moderna, né progresso civile, né liberazione dell’uomo (e tanto meno della donna): non s’è radicata l’idea occidentale che il nemico si deve vincere ma non squartare. Lo scempio barbaro resta la regola aurea del fondamentalismo dei tagliagole che predica la morte e odia la vita.

 

 

Fonte: srs di di ROMANO BRACALINI, da Miglioverde, del 6 ottobre 2020

Link: https://www.miglioverde.eu

 

domenica 4 ottobre 2020

LA BUGIA TRUFFA DELL’EVASIONE IVA

 

 

Come la bugia dell’evasione IVA, ripetuta cento, mille, un milione di volte diventa una vera truffa


 

La tanto sbandierata evasione dell’IVA, che vedrebbe l’Italia al primo posto in Europa, viene calcolata come differenza tra il gettito previsto e quanto realmente incassato.

 

Questa è la definizione ufficiale che ne da la Commissione Europea: The VAT GAP is the overall difference between the expected VAT revenue and the amount actually collected ovvero il divario IVA è la differenza complessiva tra le entrate IVA previste e l’importo effettivamente riscosso.

 

Con questo metodo di rilevamento l’Italia è ampiamente al primo posto per evasione, nel 2017, con 33 mld che rappresentano il 25% di tutta l’IVA evasa in Europa. Vedi https://ec.europa.eu/…/…/files/vat-gap-factsheet-2019_en.pdf

 

Considerando che l’IVA evasa, nell’immaginario collettivo, viene spesso associata all’evasione fiscale in genere è facile comprendere come questi dati possano rappresentare un’emergenza che la realtà, però, costantemente contraddice.

 

La Commissione Europea nel documento 76/2019 pubblica i risultati sulla stima dell’evasione internazionale calcolata in base ai flussi monetari inviati e gestiti nei paradisi fiscali.

 

Stranamente qui l’Italia non appare prima trovandosi al 9 posto su 28 Paesi UE (vedere pagina 90 di questo link https://ec.europa.eu/…/t…/files/2019-taxation-papers-76.pdf…

 

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, in questa classifica l’Italia, con una quota di mancate entrate fiscali pari solo al 2,6% sul totale europeo, è preceduta abbondantemente e in ordine da Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Svezia, Olanda e Belgio,.

 

I dati relativi ad evasione IVA ed evasione internazionale sono contrastanti ma il fatto può trovare spiegazione logica in un solo modo: i documenti di programmazione economica presentati dall’Italia prevedono, sistematicamente, entrate IVA gonfiate, superiori al fisiologico gettito allo scopo di presentare una situazione meno drammatica pur sapendo che quelle entrate non saranno mai incassate incorrendo, puntualmente, nel richiamo della Commissione europea per omessa vigilanza fiscale; nessuno di tutti gli altri Stati presenta discostamenti tanto rilevanti tra programmazione e realtà mentre, nella stima sull’evasione internazionale che viene rilevata su dati reali, la situazione si ribalta completamente a conferma della mendacità delle previsioni italiane sull’IVA da riscuotere.

 

Questa evasione IVA risulta così essere, oltre che una truffa dello Stato italiano ai danni dell’Europa, una colossale bugia che, ripetuta dal regime come un mantra, diventa verità agli orecchi di sprovveduti cittadini e i 33 mld di euro conteggiati in eccesso, si trasformano in evasione fiscale che consente al governo di scaricare le sue colpe sui piccoli imprenditori.

 

Sarà, per i truffatori istituzionali, una pena equa la ghigliottina?

 

Link: Link: https://ec.europa.eu/taxation_customs/sites/taxation/files/vat-gap-factsheet-2019_en.pdf?fbclid=IwAR03gruovOR2fGbx0r1Pf5IDsIw73bA6FbMUaTW3K372jPienTWUp4hkIZ8

 

 


Fonte Srs di Daniele Quaglia, da Facebook

Link: https://www.life.it/1/la-bugia-truffa-dellevasione-iva/