sabato 28 aprile 2018

DAL PRETE PER LA LICENZA DI MATRIMONIO






- Sei di Cremona vero? Anche se non ti ho mai vista prima, dimmi che sei di Cremona!

 Queste erano state le parole di mio fratello nella lontana primavera del Sessantasette.

 Percorrendo Corso Garibaldi e diretto in centro, aveva incrociato una gran bella ragazza di colore, di quel bel colore vellutato e abbronzato che hanno le ragazze dell’America Latina.

 In Cremona, che a quel tempo contava meno di sessantamila abitanti, s’era visto fino allora un solo moretto che correva per le vie. Era un boxer che s’allenava in una palestra cittadina avendo scelto come maestro un vecchio e glorioso atleta cremonese ch’era stato campione italiano in quello sport.

 Se fosse stata una delle nostre ragazze, come pretesto per attaccar bottone (1), poteva domandare il nome d’una via, dove si trovava una certa chiesa, addirittura la strada più breve per arrivare al museo e, visto che non gli mancava la fantasia, perfino la ricetta d’un dolce, pur di farla sorridere. Ma a quella bella moretta che altro poteva chiedere?

 Sorridendo, la ragazza rispose che era di Panama, che studiava a Bologna e che si trovava a Cremona ospite d’una amica.

 Fin che rimase nella nostra città, mio fratello riuscì a portarla più volte a cena a San Boseto in provincia di Parma, dove allora si magnificava uno dei ristoranti più famosi d'Italia. E la notizia si sparse in città. Tutti i giovani ruffiani venivano a complimentarsi con Vito per la favolosa conquista, mentre alle spalle sparlavano che scialacquava in cene e fiori a ogni loro incontro. Andò poi a trovarla più volte a Bologna e, in agosto, passarono le ferie a Parigi e a Madrid. Una vacanza milionaria. Basti pensare che negli aeroporti, per affrontare le attese, s'intrattenevano con ostriche e champagne, grazie anche a un mio congruo finanziamento che mi lasciò a secco. Al ritorno, la ragazza si trasferì per alcuni mesi a Losanna da una sua cugina sposata a un giovane promettente alto funzionario di banca.

 Vito dava i numeri: avvicinava le lontananze. Non solo sospirava ma volava, e ogni quindici giorni saltava da un aereo all'altro inseguendo il suo amore a Losanna o in qualche altra città europea, dove, come ospite, andava a trovare delle amiche che lavoravano nel campo della moda o in qualche spettacolo. Aveva proprio perso la testa, conquistato dal fascino esotico, dal portamento signorile e dalla bellezza di quella creola. Stanco di soffrire e di rincorrerla tra un aereo e l’altro, le chiese di sposarlo. Itza accettò. Mia madre, dopo qualche smorfia, si sciolse in lacrime: era il primo che lasciava il nido. Si sarebbero sposati in agosto a Panama, mentre con mamma avevo ricevuto il compito di portare avanti il negozio per un mese e più. 

 Per completare gli incartamenti di matrimonio, un paio di amici dovevano recarsi dal nostro parroco per rispondere ad alcune domande e firmare certe carte che la curia d’oltre Oceano richiedeva. Mio fratello scelse Bigio e me. Ci recammo dal parroco di Sant’Ilario alle undici d’un mattino piovoso. Entrai per primo. Come mi vide, il prete mi chiese subito come mai non frequentassi la parrocchia. Gli spiegai ch’ero legato all’oratorio di San Luca e che mi sarebbe stato impossibile staccarmene. La seconda domanda fu tremenda:

 - Ho appreso con piacere che tuo fratello si sposa, l'hai mai visto fornicare?

 Ripresi fiato: - A dir il vero, no!

 - Credi che sia in grado di poterlo fare?

 - Per il suo bene, spero proprio di sì!

 - Ha avuto altre ragazze con cui è uscito?

 - Dire abbastanza è una limitazione. Quelle non sono mai abbastanza.

 - Visto che fai lo spiritoso, hai altro da aggiungere?

 - Se lo vuol proprio sapere, a volte, occupa il bagno un po’ troppo a lungo e credo che si faccia delle seghe(1) . Pardon!... Commetta degli atti impuri!

 - Dammi la carta d’identità! -  con l’aria seccata. E mentre copiava i dati mi chiese che lavoro facessi.

 Firmai le carte e uscii. Mi trovai di fronte Bigio che sorridente con lo sguardo m'interrogava.

 - È tutto tuo! - socchiudendo gli occhi, storcendo la bocca e accennando con il capo la porta.

  E lui: - Com’è andata?

  - Te lo racconterò un’altra volta: devo proprio scappare, altrimenti arrivo in ritardo a scuola e il preside mi tira per la giacca.

 Si può dire di tutto su casa nostra, ma di sicuro non ci si annoiava, visto che le novità entravano anche dalle fessure.

Mio fratello era al corrente di tutto quanto; però, per farmi quella gradita sorpresa, non mi aveva preavvisato. Mi raccontò che doveva poi recarsi in curia dal vescovo a depositare il documento compilato dal parroco, e che il prelato doveva preparare una lettera in Latino da consegnare al vescovo di David in Panama, dove, tra l’altro, si asseriva che era in grado di fornicare.

 Come uscì dall’oratorio, Vito divenne un mangiapreti tremendo, e ogni volta che ne conosceva qualcuno lo squadrava per vederne dall’aspetto o dagli atteggiamenti se poteva essere un omosessuale. Una nebbia tremenda l'accecava, ma per fortuna si limitava a dire che spesso i preti accarezzavano i giovani provando un piacere un po’ diverso da quello paterno, senza accusarli apertamente di pedofilia. Non era così maligno, per quanto fosse malizioso e prevenuto nei loro confronti. 

 Quando gli chiesi come avesse trovato il vescovo, mi rispose laconicamente che batteva la fiacca e che, coni piedi sulla scrivania e con il sigaro in bocca, si pavoneggiava come qualunque capufficio. Poteva essere anche vero. Non ho mai approfondito l'argomento perché, per principio, non mi avrebbe mai detto la verità.

 Dopo aver subito interrogatorio e predica, Sua Eccellenza gli fissò la data per ritirare il documento presso la segreteria. Già, qui viene il bello! La lettera era sigillata con la ceralacca. Si pensi alla gran fiducia che hanno i preti nei confronti dei loro fedeli! Ma io non ridevo solo per quello, pensavo a Vito che non aveva via di scampo: doveva recitare il Credo, confessarsi e far la comunione con la fede del credente. Mamma mia, cosa si fa per amore! E per fortuna, l’ha anche scampata bella!  A quei tempi, i promessi sposi non facevano ancora i corsi preparatori per il matrimonio.

 Dopo una settimana mi rividi con Bigio al bar. Spesa qualche parola sull’impressione piuttosto sgradevole ricevuta dal prete, si andò sull’argomento.

 Bigio aveva raccontato che a una festa, entrando in una stanza da letto, aveva trovato mio fratello con una ragazza. Il parroco:

 - Ma cosa facevano? - con stupore.

 - E cosa vuole che facessero?

 - Vorrei sapere se fornicavano.

 - E cosa potevano fare sopra un letto?...  La cavalcava.

 - Ecco,- disse e scrisse il prete- fornicava. – e non ancora contento aggiunse - L’hai visto altre volte?

 - Proprio visto no, ma in compagnia siamo andati più volte in casino.

 E mentre gli faceva firmare la deposizione: - Lo sai che è peccato?

 Bigio sorridendo: - Ma sono peccati veniali che si possono cancellare anche con una semplice gomma per matite.

 - Cerca d'essere più serio! - rispose il prete irrigidendosi.

 Sulla porta, Bigio: - Don, sarete mica seri voi? Che pretendete dei collaudi e, al tempo stesso, volete che non si debba fornicare. 

 (1)  Attaccar discorso.
(2)  Masturbazioni maschili.


Fonte: srs di Enzo Monti del 19 marzo 2014 

venerdì 27 aprile 2018

GIU' LE MANI DAL CULO





   Che fortuna! riuscire a dominare la voglia matta di mettere le mani su qualche bel culo di donna. 

 E con l'andar del tempo, ho notato che questa foia è comune a tanti uomini, se non addirittura a tutti. 

 A fine maggio del Settantacinque, con mia moglie andai in vacanza per una settimana a Capri. Avevo accettato l’invito di Gian Maria e di sua moglie Ida. Andare a riposarsi e a prendere un po’ di sole facendo qualche tuffo nelle limpide acque della nostra più bella isola, non era cosa di tutti i giorni. E chissà quando mi sarebbe capitato un'altra volta!

 I partecipanti erano press’a  poco della mia stessa età, dai trenta ai quarant’anni, ed erano tutti impiegati alla IBM, essendo stata la ditta che aveva organizzato quella breve vacanza. Mi fu facile legare con loro: quando si parte, si lasciano i grattacapi a casa e ci si va con una gran voglia di divertirsi. Contrassi amicizia con Ezio e Bravi, entrambi vivaci e scatenati quanto me. E nonostante mia moglie mi fosse sempre alle costole, già con loro ne avevo combinate più d’una. 

 Verso le dieci d’un bel mattino, la compagnia salì su un pulmino per andare ai Faraglioni. Eravamo talmente appiccicati che non si riusciva a respirare. Bravi, che quel giorno era particolarmente allegro, lungo tutta la strada aveva storpiato la canzone di Harry  Belafonte “ Banana Boat". Ne aveva cambiato le parole e, intonandosi a quel “talami banana", cantava a squarcia gola quella del “ frutarol”(1). In preda all'euforia, per far salire sull’automezzo Leda, la moglie di Ezio, l’aveva aiutata spingendola con una mano sul fondo schiena. In pulmino, alla mia sinistra avevo Bravi e alla destra Ezio, io ero nel bel mezzo tenuto in piedi da loro due. Abbassando lo sguardo vidi che la mano di Bravi era ancora sul culo di Leda. Ma era un vizio o ci aveva preso gusto?

Lo giustificai pensando a "come si fa", dico io, "a non toccare quel ben di Dio?"  

 Rialzai il capo, e subito dopo lo riabbassai: la mano di Bravi era sempre sullo stesso punto d’appoggio e lo stava accarezzando. Alzando leggermente il capo, volsi lo sguardo verso Ezio che era preso dal panorama.

 Quell’eterno scapolone di Bravi s'era preso quella confidenza, non sembrava né turbato né eccitato: palpava il sedere con disinvoltura come ne fosse il legittimo e consacrato proprietario. Ritornando con lo sguardo su Ezio, lo trovai intento a osservare la mano. S’accorse che lo guardavo e, dopo un cenno a un sorriso e a una spallucciata, s’abbassò verso di me e sottovoce come per farmi una confidenza:

 - Lassa che i se goda!

 “ Ma come? Gli palpano la moglie, e lui mi dice lassa che i …” fu il mio primo pensiero. Ma riflettendoci bene, e considerando che aveva detto i  al plurale al posto di el al singolare, probabilmente pensava che la moglie credesse che la mano fosse la sua e non quella di quel furbetto di Bravi.

 Nei giorni successivi, li tenni sott'occhio tutti e tre per cercare di capire se l’episodio avesse creato dissapori. Purtroppo, anche se mi sarebbe piaciuto qualche screzio, tutto filò liscio come l’olio e, d’altra parte, non potevo andar a chiedere spiegazioni per non intorbidire le  acque. E ogni volta che ripensavo a quell’episodio, consideravo la saggezza di Ezio di lasciar perdere e di non aver dato importanza al fatto.

 Un giorno, avvenne che più o meno la stessa cosa capitò anche a me.

 Nei primi anni dell’Ottanta, fui invitato dai miei amici Montignani a una festa di carnevale. Non fu una gran festa, anche perché ci furono tanti sciocchi che non erano in maschera, nonostante sulla locandina, a chiare lettere, ci fosse scritto che era di rigore per i partecipanti l’essere mascherati. Chi non si vuole mascherare perché lo trova poco dignitoso o si vergogna, è meglio che se ne stia a casa. E mi meraviglio perché non vengano respinti all’entrata. Già, siamo in Italia! e ciascuno fa ciò che vuole per onorare la libertà di rispettare regole e leggi.

 In un capannone fuori città, organizzato dai ferrovieri o da qualche altra associazione di poveri lavoratori, alla modica cifra di trentamila lira, su lunghe tavolate e seduti su panche ci servirono un primo, un secondo, galani(2) , e oltre al vino a volontà, una mascherina, una trombetta, coriandoli e stelle filanti, dandoci poi la possibilità di fare tre salti.

In quella bolgia di duecento persone, mia moglie era vestita da zingara con trucco vistoso e grandi orecchini a cerchio; io portavo un saio da fraticello confezionatomi da Lucia, moglie di Montignani.

 A tavola, avevo alle spalle un settantenne che aveva incominciato ad attaccar bottone con noi e che, dagli sguardi e dai sorrisi, ammirava sfacciatamente mia moglie. Io andavo in giro per i tavoli a confessare le signore. Per dare la soluzione, le costringevo a prendere in mano il cordone del mio saio come suggeriva una vecchia e ben nota canzone profana che inizia con: "Chi bussa al mio convento con quest'acqua e questo vento?" E le donne sorridevano quando dicevo che le assolvevo per aver peccato più di desideri che aver soddisfatto alle loro voglie. Non c'era bisogno di risposte, visto che con i loro sorrisi mi davano ragione.

 Venne il momento d’andare al ballo. C'eravamo appena alzati da tavola, quando l’anziano ammiratore di Teresa come un gatto mi saltò davanti e, mentre si usciva dai tavoli verso la pista, mise le mani sul culo a mia moglie. 

 Masticavo rabbia. Solo dopo tre balli con questo novello spasimante venne da me Teresa che seccata:
- Adesso balli solo con me! L'ometto va oltre la creanza; non ne posso più: mi stringe talmente tanto che mi toglie il respiro. 

 Non dissi nulla. Prendermela con quel vecchio l'avrei mortificato per niente, e se poi l'avessi confessato a mia moglie, oltre a trasformare un simpatico e focoso ammiratore in un fastidioso seccatore, ci sarebbe rimasta male. Alla delusione sarebbe subentrata la rabbia di non potersi sfogare. Non valeva la pena di rovinarle la serata.

 Durante il ballo allungai anch'io le mani.

 - Ma cosa ti sei messa?

 - Il busto come portano le zingare spagnole e una guaina. Perché?

 Non sapendo come giustificarmi, le dissi:

- Se qualcuno ti dovesse toccare il cecè (3) ti troverebbe soda, direi di marmo.

- E perché qualcuno dovrebbe toccarmelo? Ma scusa un po': per aver quarantatré anni è forse troppo flaccido?

 Ricordandomi della lezione di Ezio: che c'è più carattere e saggezza nello starsene zitti che nel parlare, eludendo la domanda, cercai di distrarla. Con una piroetta la portai fuori tempo. Poi, per non farla cadere la ressi, la strinsi, e le diedi un bacio.



       (1)  Fruttivendolo.
       (2)  Frittelle di carnevale.
       (3)  Sedere.


Fonte: srs di Enzo Monti  di sabato 1 marzo 2014

martedì 24 aprile 2018

UN REFOLO





 - Ma hai anche il coraggio di ridere?

 Gianni “ Chitarra”, mostrando una protesi di pregevole fattura, di rimando:
 - Mi vengono in mente gli occhi stralunati e la faccia compiaciuta d’un vecchietto che, iersera, s’è visto sfrecciare davanti due chiappe nude.

 Fissandolo con rabbia: - Ed io che t’ho aspettato fino a mezzanotte riempiendomi di birra. Potevi almeno telefonare!

 - M’è stato impossibile.

 - Figuriamoci! - con sarcasmo: - Viviamo nel Medio Evo e nel deserto - . Rivolto a Toni: - Che tu sappia, c’è stato un black-out telefonico iersera?

 Me ne sto beato sotto gli ombrelloni, fuori dal bar Sinico, in Via Leoni. Mi tiene compagnia il mio amico Toni, per antonomasia ”Gussa”. Si beve in silenzio, del resto, quando si è con un amico, l’animo è pervaso da una calda disposizione e da una candida condiscendenza che spesso non s’avverte la necessità d’un dialogo.

 Un caldo fermo e pesante intorpidisce questa giornata d’agosto, sono le tredici passate, pochi avventori e rari passanti in quest’ora oziosa. Ammiro divertito i capelli cotonati e riportati di Toni: pregevole opera di pettine, lacca e specchio. Ne osservo le rughe profonde, lo sguardo irrequieto, pronto a puntare come un cane da caccia, qualsiasi donna, quando arriva ‘sto seccatore, che, per giunta, ride.

 Ordiniamo altri tre bicchieri di vino con l’accordo che, se Gianni è in grado di dare una spiegazione plausibile al suo mancato appuntamento, li offrirò io, altrimenti toccherà a lui. Gianni, con invidia mia e di Toni, s’è sviluppato oltre il metro e ottanta, impettito come se fosse legato a un palo, possiede i requisiti per rispondere agli annunci pubblicitari che richiedono la “bella presenza”. Dotato di buon orecchio e di ottima tenuta nello scolar bicchieri, con la chitarra rallegra le nostre serate, e appunto per questo c’eravamo dati appuntamento la sera precedente.

 Ecco qui il suo racconto, parola per parola.

 - Ieri sera, dopo il lavoro e prima di cena, sono andato a trovare una mia conoscente. Era ritornata temporaneamente dal mare, dove aveva lasciato il marito e il figlio, per dare un’occhiata alla posta, per pagar bollette, per annaffiare i fiori; insomma, anche per dar aria alla casa.

 - Avanti! nome, cognome e indirizzo, - interviene Toni, picchiando il pugno sul tavolo.

 Gianni accenna a un sorriso e continua:- Abbiamo trascorso una serata meravigliosa. Per cena: un prosciutto di Parma morbido, dolce, come si può avere alla Buca di Zibello; un melone profumato, succoso, come pochi se ne assaggiano; poi un Vezena con la goccia; e infine … champagne! Una vedova Clicquot ghiacciata che faceva frizzare la punta del naso.

 Dopo il caffè siamo ritornati a letto. Ragazzi, non ho mai conosciuto una femmina così scatenata. Così dovrebbero essere tutte quante … insaziabili! Certo che avere una moglie così fatta corri il rischio d’esser becco, ma, in compenso, il letto diventa un paradiso. Per queste donne l’amore è un rito oltre a una necessità; anche la saliva ne è più dolce.

 Toni deglutisce e sospira gonfiando le froge, sicuramente perso in sogni proibiti; io ascolto con sospetto quest’ipocrita nella speranza che menta.

 Fissandomi negli occhi e ivi leggendovi: - Non ti racconto balle. Alle dieci e un quarto ero pronto a venir da te. E invece … Ah, sapessi com’è diventata complicata la vita! Un errore o una distrazione ti possono essere fatali … Porca galera! Anche nel divertimento e negli appuntamenti galanti si deve prestare attenzione, basta un imprevisto o una banale distrazione e sei rovinato.

 Mi trovavo dunque sul pianerottolo in attesa dell’ascensore, quando la mia amica, aperta la porta, venne a darmi un ultimo bacio. Vi ricordate dell’afa di ieri sera? Vi ricordate che non c’era una bava d’aria?... Be', un refolo: uno stramaledetto  alito d’aria, creatosi tra l’appartamento e la rampa delle scale, la chiuse fuori. Gettò un grido spaventoso, sbiancò; nei  suoi occhi lessi orrore e disperazione. Le tappai la bocca per paura che le sfuggisse qualche altro lamento e, per qualche secondo, restammo uniti in ascolto dei rumori provenienti dagli appartamenti vicini. Sentivamo solo i nostri respiri. Giunse l’ascensore: la spinsi dentro con così scarsa destrezza e con tal fracasso che, se avessi voluto svegliare il condominio, non avrei potuto far meglio.

 C’è un piccolo particolare che non vi ho ancora raccontato e che non è affatto trascurabile. Dovete sapere che la mia amica, oltre al fatto d’essere rimasta chiusa fuori, non aveva nulla indosso … Sì, sì! Avete capito bene: era nuda!

 In ascensore mi ricoprii subito di sudore, e credo di non aver mai sgocciolato così neppure durante una partita di tennis o in una sauna. Nelle stesse condizioni c’era pure la mia compagna che dava stura alla sua collera e al suo dolore. Disperatamente continuava a gemere: - Come faccio a entrare? Sono rovinata! Oh, se telefona mio marito sono rovinata!- Con il viso solcato dalle lacrime, con il petto che sussultava per i singhiozzi, tutta umidiccia s’era attaccata a me. Mi sforzai di confortarla, senza sortire effetto. Fu presa dai rimorsi: - Me lo merito! - sospirava - Dio ha voluto punire il mio peccato! Sono stata castigata! Oh, se mi trovasse mio marito!

 Non c’è nulla da fare, è comune a tutte le donne. Se mi vedesse mia madre! Se mi scorgesse mio figlio! Se lo sapesse mio marito! … Per la madosca! Possibile che abbiano sempre qualcuno?

 Quel complesso di colpa m’infastidiva, mi feriva; e, d’altra parte, provavo una gran pena per quella misera che non si dava pace, che in pochi attimi era passata dallo smarrimento alla disperazione, dal dolore al pentimento. La pietà mi strinse. Mi tolsi la maglietta e la coprii. L’ascensore andava su e giù, era diventato un forno: perfino i vetri delle ante sgocciolavano. Sentendomi mancare il respiro, le chiesi di attendere un mio segnale e uscii.

 Non vi racconto il senso di liberazione e di sollievo che delle boccate d’aria fresca mi procurarono. Portai la macchina in seconda fila: m’era impossibile arrivare al marciapiede, diedi un colpo di clacson e attesi.

 Un vecchietto, sbucato dall’angolo della via, venne a incrociarla, per poco non ne fu travolto. Lei arrivò a piccoli passi, frettolosi, trotterellando, con le mani sul davanti che si copriva. Certo che ci si può presentare così ad Adamo; ma per carità! non ditemi che si può correre in quel modo.

 Ripensando ora al vecchio che spalancò le palpebre, strabuzzò le pupille e il cui volto assunse quell’espressione sorpresa, compiaciuta, mi scappa ancor da ridere. Probabilmente, questa sera ripasserà: alla ricerca ancora di incontri così piccanti.

 Come giunse in macchina, mormorò ansando: - Mi ha vista?- Per far lo spiritoso: – Come no! Ti ha riconosciuta.

 Non era il caso. Quella battuta fuori luogo diede origine a una valanga di titoli. Me ne disse tante e poi tante che non saprei ripeterli tutti in una volta sola. Tribolai un bel po’ per quietarla.

 Andammo a casa di una sua amica, ma non c’era. Sarebbe stata la salvezza per entrambi. Lei avrebbe telefonato in albergo al marito, e con una scusa qualsiasi avrebbe spiegato l’inconveniente. Invece, mi ritrovavo seduto in macchina, a torso nudo con un gingillo erotico privo di mutande. Chissà quanti uomini sognano una situazione del genere! Al contrario, io non vedevo l’ora di venirne fuori.

 L’unica via d’uscita, a rigor di logica, restava di condurla a casa mia. Allora con voce dolce e suadente: - Che ci siano delle tue amiche in città d’agosto è poco probabile: ti conviene venire a dormire da me, visto che anch’io ho la famiglia al mare. In queste condizioni, risulta impossibile cercare letto altrove: te ne rendi conto anche tu. C’è però un pericolo: dobbiamo far attenzione alla vecchia Maria. Questa mia coinquilina ha lingua lunga, occhi e orecchi dappertutto.

 - E per entrare in casa mia? – mi rispose lei ancora sconvolta.

 La portai allora a un isolato dalla sua abitazione, davanti a un portone vicino a una salumeria. Le spiegai che nel cortile interno lavorava un vecchio fabbro, e che con probabilità non era in ferie, altrimenti avrebbe dovuto rivolgersi al magnano di Piazza delle Erbe. – Vicino alla colonna sormontata dal leone di San Marco, c’è un chiosco dove fanno le chiavi, ti daranno il nome d’uno scassinatore – le dissi. Tornando indietro, passai accanto alla mia villetta; ma argo vegliava.

 Non potendo sostare nella mia via, per timore che qualche vicino potesse riconoscermi, iniziai a girare per la città e a sostare nelle zone oscure  di piazzette solitarie e di tranquilli sagrati, facendo, di tanto in tanto, dei giri attorno a casa. In macchina avevo acceso il condizionatore d’aria; sono però senza radio: è la terza che mi rubano nel giro di pochi mesi, e mai ne ho sofferto la mancanza come in quelle ore d’attesa. 


Fonte: srs di Enzo monti del 3 gennaio 2018 
Link: http://enzo-monti.blogspot.it/2014/01/un-refolo.html




UN REFOLO seconda parte



 La mia compagna era poco loquace. Ma che dico! non lo era affatto. Sembrava che la colpa fosse solo mia. Tentai di sdrammatizzare la situazione, ma non ci fu verso. Con dei secchi: - Sta zitto! – mi liquidava ogni volta. Mi sentivo solo, anche se ero in compagnia. Non più tardi di un’ora c’eravamo baciati, stretti, posseduti, ma una porta s’era chiusa. Un silenzio soffocante, più opprimente di quello che si soffre nei salotti d’attesa di medici o d’avvocati, separava due estranei reciprocamente insofferenti. Avrei voluto essere lontano, al bar, da te che mi attendevi.

 Durante una di quelle soste, mentre aspettavo che il tempo passasse, sbirciai un soriano; ne seguivo i passi felpati e la felina eleganza, quando il riflesso d’un lampone sul parabrezza mi offese. Che fortuna! Mi misi a giocare come un ragazzino con le luci che si riflettevano e si rifrangevano sul vetro. Strizzando gli occhi, mi perdevo alla ricerca di composizioni geometriche, di figure irreali, che i fasci luminosi e gli aloni con un leggero movimento sapevano creare. Bastava un nonnulla a raggiare un punto luminoso in lamine laceranti, e lungo quei fili dardeggianti smarrivo il mio tempo, lenivo il mio affanno. 

 La mia compagna, appoggiata alla maniglia della portiera, si sorreggeva il capo in un atteggiamento mesto, pensieroso; i suoi capelli biondi, indorati dal sole estivo e dal mare, scendevano scomposti sin alle spalle; il suo profilo fine, da cammeo, si stagliava sul fondo oscuro. Anche scattando una foto non avrei mai impressionato tanta bellezza e una così languida malinconia. Sapevo che era bella, ma non a tal punto. Fui preso dall’impulso di darle un bacio, di stringerla: dominai l’istinto. Sarebbe stato come calpestare una distesa di neve o come strappare un fiore, non potevo rompere l’incanto di quel momento.

 Guardando con disprezzo sia me che Toni: - Brutte bestie! … Si può essere qualche volta delicati e sentimentali o è proibito? Va bene, non mi credete, pensate sempre che io sia uno scannatore di donne. Non importa, - beve un sorso e riprende.

 - La mia polo le stava stretta, evidenziava i suoi grossi seni a pera, arrivava a coprire sì e no l’ombelico. Fra le cosce spuntavano e spiccavano, sull’impronta lasciata dal costume, un ciuffo di peli; e quell’eccitante immagine vellicò le peccaminose intemperanze della mia fantasia.

 Sognai d’essere un principe dell’Ottocento. Alla mia corte, dame e cortigiane, invece di farmi la riverenza, alzavano i sottanoni e me la mostravano. A turno, i miei sudditi venivano ospiti al mio castello, che ovviamente era sempre in festa. Avrei conosciuto in tal modo tutto il pelo del reame. Con un editto avevo fatto abolire le mutande e avevo introdotto la nobile consuetudine, che la donna, incrociando un amico o un conoscente, dovesse alzare le sottane e gentilmente  mostrarla. Si sarebbe così potuto comprendere, dalla fretta o dall’indugio, la disponibilità della femmina. Naturalmente ne sarebbero state esonerate le minori di diciotto e le maggiori di sessanta. 

 Per sradicare cattive abitudini e inveterati pregiudizi, istituii premi favolosi per le donna più generose, e severe punizioni a chi la lasciava marcire. Le donne ricche, pensavano d’averla più bella, le povere, d’averla più brutta, osteggiarono l’attuazione di queste riforme. Quando le classi sociali s’avvidero che, dietro alle apparenze, l’umanità era uguale, fu una gara a chi alzava maggiormente. 

 Ero amato dalla borghesia e dalle classi meno abbienti di tutta Europa, perfino da oltre Oceano. Uomini di scienza e artisti mi manifestavano la loro simpatia. Sulle barricate i rivoluzionari brandivano il mio vessillo; i miei sudditi vivevano felici e contenti in rispetto delle leggi e con un gran senso di Giustizia. Per ovvi motivi, sarei stato in lotta con la Chiesa e l’Inghilterra. Ma sì, anche con l’Inghilterra. Avrei avuto grossi problemi con gli stati confinanti: orde assetate di libertà avrebbero premuto alle frontiere. Per farla breve: avevo liberalizzato il sesso, liberato la donna, offuscato Napoleone.

 Dalle risate ci rotoliamo sotto i tavoli. Saltan fuori tante e tali spiritosaggini da riempire un libro. In questo regno felice io vengo incoronato Gran Cerimoniere; Toni il Reale Collaudatore: sarebbe andato di paese in paese, di città in città a provare le donne che ambivano al premio. Ombre e dubbi svaniscono; siamo di nuovo amici. Vuotiamo i bicchieri; il vino infuoca maggiormente la calura estiva. Gianni, come una macina:

 - Mentre almanaccavo su questo stato bordello, uscii da uno stop. E per un pelo non mi trovai una Mercedes nel fianco. Il tizio alla guida strombazzò, imprecò, tirò degli accidenti, e, per mia fortuna, proseguì. Ci pensate in che casino mi sarei messo, se avessi provocato un incidente, o, peggio ancora, fossi finito all’ospedale? Io con solo i calzoni e l’altra senza mutande?

 Per l’inquirente ci sarebbe stato il mistero; per il prete lo zampino del diavolo; per l'etologo una nuova regola di vita; per il cronista un articolo in prima pagine. Se poi i particolari dell’incidente fossero giunti alle stampe, si sarebbero scatenate le quotidiane e capziose polemiche tra sociologi e psicologi; mentre dalla Germania, probabilmente, sarebbe giunta la notizia che un noto filosofo avesse interpretato l’episodio come l’avvenimento intellettuale più significativo dell’ultimo cinquantennio. Il liberarsi dagli indumenti in automobile sarebbe stato considerato come l’affrancamento dall’ultimo residuo di schiavitù. Allo scopo, sarebbe sorta una nuova filosofia, di cui sarei diventato l’indiscusso antesignano. Dietro questo vento, i firmaioli avrebbero sfornato fiumi di etichette; i naturalisti avrebbero scelto un nuovo vessillo; gli incapaci avrebbero creato una nuova Art; e così via …

 Adesso, mi permetto di celiare, ma iersera, ve l’assicuro, abbiamo preso un tale spavento, tant’è vero che la mia amica sconsolata mugolò: - Ma mi vuoi rovinare?

 E non è finita qui. Lo sapete bene anche voi che quando la sfiga vi prende di mira poi non vi molla. Orbene, iersera, non mi ha lasciato un momento di respiro. Ancora adesso porto addosso le impronte e lo strazio dei suoi terribili artigli. Non le fu sufficiente l’avermi guastato la serata con un refolo, con un vecchietto e con lo spavento d’un incidente, sentite un po’ quel che mi accadde ancora.

 Entrammo in casa verso le due e ci precipitammo a bere; calmata la sete, le mostrai l’abitazione: ne rimase entusiasta. Che brave le donne! Vanno e vengono in casa d’altri come se fosse la propria …

 Noo … non chiedetemi queste cose. Come potevo non aver rispetto di quella povera diavola dopo tutto quel che le era successo. Mascalzone sì! ma fino a un cento punto … Prima di questa interruzione, volevo dirvi che non ero affatto preoccupato che la mia amica girasse per casa: tanto non avrebbe potuto dimenticare o perdere qualcosa.

 Questa mattina, un po’ prima delle otto, è venuta a portarmi il caffè a letto. Con mia sorpresa, l’ho trovata serena, sicura di sé e vestita: s’era messa un abito di mia moglie. Dopo avermi dato un bacio, mi spiegò che aveva preso ventimila lire per il magnano e, senza darmi il tempo di dir qualcosa, se ne andò via.

 Intontito e ancora mezzo addormentato mi alzai. Con la tazza del caffè in mano andai alla finestra della cucina. La vidi attraversare il giardinetto e avviarsi al cancello. Il vestito di lino le stava corto e stretto, in controluce, manco a farlo apposta, notai che era ancora senza mutande. In quella, sentii gridare dalla Maria il nome di mia moglie. Lei, vedi beffa! Si voltò.

 La tazzina mi cadde e il caffè m’andò di traverso, lo sputai tossendo; m’uscì pure dal naso, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Eh, eh! … sono stato veramente fortunato: ho salvato le orecchie.

Guardo il Toni che non la smette di ridere, mi alzo, e vado al banco a pagare il conto.


Fonte: srs  di Enzo Monti  del 7 gennaio 2018


venerdì 20 aprile 2018

L'ULTIMO RIFIUTO




Leggerete ora una perla tratta dal mio primo libro “ Il maestro della leggenda di Sant’Anastasia”. 



                                              L’ULTIMO  RIFIUTO


                      Qualcuno ha scritto: - Gli occhi sono lo specchio dell’anima.
                      Qualcuno mi risponda: - Dove stanno le aberrazioni nello specchio o nell’ anima?

  Nel corso degli anni mi sono preso dalle donne la mia buon dose di rifiuti. Che non si creda che l’abbia fatto per divertimento, tanto meno per avvalorare un certo tipo di statistica. Non sono così impudente e di bocca buona da tentare con tutte. Forse con gli anni ho perso un po’ di vergogna, ma non l’orgoglio: è difficile quindi che mi metta in condizioni di ricevere un rifiuto. Ma per quanto si sia accorti e l’esperienza insegni, davanti a forme voluttuose e a occhi appassionati, l’ardore e la golosità sono tali che, dimentico della volubilità femminile, arrischio ancora. E finché non ci vado a sbattere il naso, non rammento mai che non c’è certezza nel chiedere l’assenso di una donna.

 Quest’ultimo rifiuto, che per certi versi mi ricorda il primo, ve lo racconto non tanto per sfogare il mio avvilimento, quanto per sottoporlo al vostro giudizio; e credo che alla fine sarete d’accordo con me nel considerarlo d’una bassezza e d’un bigottismo unici nel loro genere.

 Dovete saper che ogni mattina, prima del lavoro, sorseggio un caffè nel bar di fronte al mio negozio; verso le dieci e mezza, per quietare un certo languorino, mi reco in pasticceria “Alla Rosa”, da Bruno. Là trovo ogni ben di Dio: zaletti, krapfen, brioches; tra l’altro, ho ritrovato il sapore della mia fanciullezza: quello delle veneziane.

 A interrompere la monotonia quotidiana è giunta da poco a frequentare il locale, nei miei stessi orari, una vivace biondina: tutta curve. Un vispo musetto che, con vesti attillate e miti pretese di eleganza, sculetta da impazzire. I suoi occhi mi servono delle zollette d’amore; e io non m’avvedo delle pose smancerose di quella smorfiosa, assorto come sono nello scambiar occhiate, nell’intrecciare sguardi insistenti, provocanti. Lei impallidisce mentr’io avvampo. Pieno d’insidie e di disinganni è questo nostro muto amore. Certo! È considerato poetico, sublime; ma ci rimanda sempre al domani. Un nonnulla lo spegne e uno spasimo l’infiamma. Che pena (o forse che fortuna) soffrire di questi affanni. Eppure nei suoi occhi vedo … ma che dico! Gli occhi disgiunti dal resto del viso sono inespressivi, qualora dovessero subire alterazioni, di fronte a sentimenti o a sensazioni, risulterebbero impercettibili. Errata è quindi la credenza di chi vede in essi odio o amore, esaltazione o serenità.

 Come ottico vado alla ricerca di ametropie e di lenti a contato, ciò nonostante, la mia professionalità non eclissa mai la mia indole di cacciatore. Con quella biondina scambio occhiate prolungate, invitanti, più esplicite di qualunque ardente dichiarazione. A me lasciano il fiato in sospeso, a lei troncano la parola. I suoi occhi alimentano i miei sentimenti e la mia passione. Se accade che sia in ritardo, dà l’impressione di attendermi, come se l’avermi visto le sia d’appagamento. Lo stesso avviene da parte mia: indugio, finché non la vedo arrivare. Io vivo dei suoi sguardi, vivo nella reminiscenza della prima cotta e nell’illusione di un nuovo amore.

 Non esiste più la mia pasticceria, esistono solo i suoi occhi.

 Purtroppo l’altro giorno ho osato salutarla. Non l’avessi fatto? Lei m’ha dato un’occhiata terribile, agghiacciante, come se l’avessi offesa. Ha girato nervosamente il capo dall’altra parte e i nostri occhi non s’incrociano più.

 Che fare? … non ditemi che posso andare a chiedere spiegazioni di questa beffa, di questo improvviso e imprevisto voltafaccia. Che sia arrivato in un momento poco opportuno? O addirittura in ritardo? … Si sa come son fatte le donne: un attimo prima sei sull’altare come un dio, un momento dopo sei nella polvere.

 Ma val la pena di rompersi il capo? Sto pure invecchiando e con gli anni ci si raffredda e si cambia genere di filosofia; si arriva purtroppo a un punto tale che ai “no” ci si fa la triste abitudine. Infine, volete sapere l’ultima? Credo d’aver imparato a perdere perfino con eleganza: ho cambiato pasticceria.


Fonte: srs di Enzo Monti di lunedì 30 dicembre 2013



domenica 15 aprile 2018

CHE SIA UNO SCHERZO DELL'AMORE?


 

La Natura m’ha fatto allegro: che non è un dono da poco con i tempi che corrono. E che non si creda sia facile ridere di tutto, soprattutto delle cose serie o di quelle che comunemente vengono chiamate tali. Si è spesso invisi e vituperati,  di conseguenza, un motivo in più perché critiche e ingiurie arrivino da tutte le parti.

 Come posso reagire? Scrollo le spalle e tiro avanti. Non posso cambiare carattere. Non mi riesce frenare gli impulsi e i pruriti di questa mia indole bizzarra i cui bisogni trovano sfogo anche nella beffa.

  In quell’anno, il Carnevale sarebbe arrivato presto, e nel programmarlo, avrei dovuto tener conto di Giovanna, una cara amica di mia moglie. L'ordine era stato chiaro e perentorio.

 A quei tempi, Giovanna era una giovane in crisi sentimentale, in cerca di lavoro, e la solitudine l’aveva portata ad attaccarsi a noi. Sotto il metro e settanta, con il viso da bambolotto, aveva il pregio di due gambe lunghe e ben tornite; purtroppo sul davanti era piatta, piatta come un asse da stiro. Madre Natura s’era proprio dimenticata di foggiare il seno a Giovanna: glielo aveva solo disegnato.

Come sarebbe stata se avesse avuto un bel paio di zucche?(1)

 Già! A pensarci bene, poteva essere un modo per mascherarsi nelle feste di carnevale. Era un’idea. E che idea! L’avrei presentata poi a Franco: uno scapolo di trentacinque anni, libertino e affamato di tette. Caspita, che tiro gli avrei giocato!

Giorno dopo giorno inculcai le mie intenzioni a mia moglie, ovviamente senza far riferimenti a Franco. Non fu facile convincere Teresa a cattivarsi la fiducia di Giovanna e invogliarla a indossare un posticcio. Con insistenza e molta pazienza arrivai allo scopo. Una parrucca bionda, una camicetta attillata, delle vesti svolazzanti, e Marilyn Monroe rinasceva sotto l’abile tocco di due donne scatenate e divertite. Giovanna era rifiorita: le forme prosperose della bionda hollywoodiana le conferivano un’attrattiva irresistibile. Sarebbe stato impossibile riconoscerla sotto quelle vesti.

Arrivò il giovedì grasso. All’ingresso della discoteca, costrinsi Giovanna a entrare con Teresa. Con un pretesto ritornai all’automobile: non volevo farmi vedere subito da Franco e dar l’impressione a mia moglie d’aver combinato l’incontro. 

Nella sala del veglione, nonostante l’atmosfera carnevalesca e la vivacità delle maschere, s'erano formati capannelli. In uno intravidi Franco mascherato da diavolo rosso, mentre Giovanna s’era scatenata nel ballo e già trionfava. Oh, dimenticavo! Io e mia moglie eravamo vestiti da ovetti: io portavo cresta e bargigli più grandi, mia moglie più piccoli. 

Con maestria orchestrai l’incontro fra Tersicore e il suo Apollo. Da quel momento, il figlio di Latona le fu sempre attorno come un cane che difende il proprio osso. Un comune amico mi si avvicinò e mi fece notare come Franco fosse attaccato a quei magnifici guanciali. Sottovoce risposi ch’era tutto un’impalcatura: ch'erano finti

 Dopo un attimo, la sala seguì con occhi maliziosi e indiscreti l’attacco sfrenato del diavolo alle curve della bionda attrice. Lei cercava sempre di svincolarsi, lui, come una piovra, di stringerla.

 Non mi sono mai divertito così tanto!

 Il giorno dopo, Giovanna telefonò a Teresa chiedendo informazioni sul cavaliere della sera precedente; espresse poi il timore di svelare l’inganno che le aveva dato tanto successo. Mia moglie le suggerì di lasciarlo perdere, che, se le intenzioni fossero state serie, l’uomo si sarebbe fatto avanti comunque, e di certo, avrebbe tollerato qualche difettuccio. 

 Teresa mi confidò le sue preoccupazioni, io, al contrario, cantavo vittoria. Mi raffiguravo l’espressione di Franco nel vedere due capezzoli senza polpa. Potevo pretendere forse qualcosa di più?

Gli amici vanno e vengono; si perdono per noia e per qualche chiacchiera in più che le brave persone sibilano alle spalle. Forse per quest’ultima ragione persi di vista sia Franco che Giovanna.

 Il tempo passa. Si sposarono dopo un paio d’anni. E la storia sarebbe finita qui, se l’altro giorno non mi fossi voltato  per ammirare in Corso Sant’Anastasia un bel tocco di donna. Spingeva davanti a sé una carrozzina con dentro un marmocchio e tenendo per mano un bimbo di tre o quattro anni. S’accorse di me, mi salutò e sorrise.

 Era Giovanna: s’era fatta bionda e aveva messo qualche chilo in più. Andai a salutarla; lei m’accolse con grandi sorrisi … rideva, e come rideva! Da una camicetta scollata mi fece intravedere un paio di zucche ch’erano una meraviglia.

 Mah! a quei tempi di silicone non se ne parlava ancora! Cosa sarà stato allora? Forse la maternità? L'allattamento? Di sicuro non la Matematica con il suo calcolo delle probabilità… Ma che dall’amore per lo scherzo, sia inciampato in uno scherzo d’amore?


(1)   Zucche, in questo caso seni.


Fonte: srs di Enzo Monti di domenica 22 dicembre2013


venerdì 13 aprile 2018

IL BALCONE




Per la miseria! Ma che ci fa quella donna in culottes sul balcone? Stende i panni? Ma dove? qui?… proprio qui in Corso Sant’Anastasia?

 Mi guardo attorno alla ricerca se qualcun altro osservi ciò che sto vedendo. La via purtroppo è deserta: scorgo una vecchietta assorta in preghiera davanti alla Madonnina che c’è sull’angolo di Palazzo Maffei e un crocchio di chiacchieroni all’altezza di Via delle Fogge. Eppure son desto e non soffro di allucinazioni. Lei è lì al balcone che con flemma gioiosa stende la sua biancheria. Bionda, sui vent’anni, tedesca forse. Una bambola bianca come il latte, dalle curve armoniose e dai seni turgidi. Che sia un nuovo modo d’interpretare Shakespeare? Ma quanto sono sciocco: è primavera!

  Oggi è stata la prima giornata bella d’una primavera incerta e, sebbene siano le diciannove e trenta e siano scese le prime ombre, c’è ancora nell’aria un piacevole tepore. Ma porca vacca! Che fa? Rientra?… E adesso cosa faccio? Finisco di chiudere il negozio o…Beh! Capiti pure quel che vuole, io da qui non mi muovo. Aspetterò ancora un po’: tanto ne ho sprecato di tempo.
 Riflettiamo un attimo con calma: mi sono chinato per depositare a terra le guide su cui scorrono i cancelli di chiusura del negozio e, quando mi sono girato… ma il balcone non cade nel raggio d’azione del mio campo visivo. È troppo in alto e discosto perché il movimento di qualcuno che ci sta sopra possa richiamarne l’attenzione. Non saprei spiegare come mai mi sia voltato, se sia stato per puro caso o per istinto. Forse a causa di quel sesto senso che ci avverte d’un pericolo? Che ci fa sentire addosso uno sguardo? Che ci guida verso i fatti singolari che si verificano accanto a noi?

 Il balcone in questione si trova sopra al negozio con la scritta Tortellini. Sopra questa bottega, che produce e vende pasta fresca in centro qui a Verona, si ergono tre finestre, e quella di mezzo ha questo aggetto con ringhiera di ferro. Appartengono all’albergo Rosa il cui ingresso è sito in Vicolo Raggiri: un nome che di per sé è tutto un programma e che onora, in ogni caso, lo spirito dei nostri padri. Quelli sì che ci sapevano fare!

 Una donna al balcone è uno degli emblemi della nostra città, ma questa è in mutande, potrebbe andar bene per uno posto di villeggiatura. In una via centrale è una esibizione oppure una provocazione. Per cortesia, non mi si venga a dire ora che l’atteggiamento è da disinibita. Oh! Se ci fosse qui il mio Toni, lui la giudicherebbe una bella sbadatona (1); poi comincerebbe a dire: - Anche a me una volta…

 Eccola di nuovo! Eh… no no!  Non è distratta. Lei lo sa d’essere in mutande e sa pure d’essere bella. Ma guarda con che cura stende le camicette! Se ne potrebbe fare uno spot televisivo. Sarebbe di certo migliore di quello vecchio di Corrado o di quell’altro che ti vuole offrire i due fustini. Ha più senso usare il corpo femminile in questi casi piuttosto che sfruttarlo per vendere automobili o abbonamenti telefonici. Fresca, ben tornita, bianca e rossa come una mela nostrana sarebbe l’interprete ideale per raffigurare una massaia. Rientra.
 Non s'è accorta della mia presenza. Un vero peccato! Se i nostri occhi si fossero incrociati, sarebbe arrossita,forse. E se m'avesse sorriso?

 È  meglio non mettersi certi grilli in testa. Se penso poi che questo spettacolo si svolge sopra il capo di Guerrino, il proprietario del negozio che sta sotto, proprio a lui doveva capitare, a lui che diventa matto quando vede una donna. Glielo dovrò raccontare e, per farlo soffrir di più, spesso glielo rammenterò.

 Sfreccia un ragazzo in bicicletta, pigia sui pedali e tiene il capo chino sul manubrio, dopo un attimo sparisce. Bresciani, l’orafo, svuota le vetrine. La commessa di Casabella, il negozio di casalinghi, chiude i cancelli e felice se ne va. I miei sguardi vanno dal balcone alla via, dalla via al balcone. Soffro per l’attesa. Sarebbe stato meglio che lei m’avesse notato, saprei affrontare a testa alta la sua nuova uscita e potrei sostenere con fierezza un suo sguardo. Mi sento a disagio: non so dire se soffro dei timori del guardone o dei rimorsi della persona onesta.

 Sul mio marciapiede sta arrivando un uomo, deve avere suppergiù la mia età e la sua aria non mi sembra nuova. Da tutto l’insieme deve essere pure simpatico; lo inviterò a guardare il balcone. Ma se quella bellezza poi non esce? Eh!... Deve uscire: altrimenti che senso avrebbe il detto” Non c’è due senza tre”. Non so bene se ho bisogno d’un complice o d’un aiuto. Mah!

 Come m’arriva vicino lo fermo. È un rosso: un patatone dalle guance di carne fresca. 

 “Ma sì!- mi dico- fa lo stesso”. 

 E gentilmente:- Mi perdoni, può fermarsi un attimo ad ammirare quel balcone?

 - Quale?

 - Quello lì.

 - E perché mai?… Non ci trovo nulla di particolare.

 - Per il momento, ma aspetti un po’ e si godrà uno spettacolo indimenticabile …Mi creda.

 L’uomo, dopo un sorriso compiacente, si morsica un labbro e mi fissa intensamente negli occhi, getta poi uno sguardo al balcone; ritorna a fissarmi e a guardare il balcone, sorpreso e incuriosito al tempo stesso. 

 Non è passato un minuto che sul balcone appare un bel pezzo d’uomo con in mano una camicia gocciolante. Altro che distratto: è come l’ha fatto la sua mamma.

 Il mio vicino fa un balzo all’indietro, abbandona l’aria perplessa e mi squadra come se volesse accopparmi. Atteggiando poi il viso al disgusto e al disprezzo, con voce aspra e forte:

 - Ma non si vergogna? 


      (1) Molto sbadata.


Fonte:  srs di Enzo Monti del 8 dicembre 2018-04-07

lunedì 9 aprile 2018

FELLATIO IN ORE


  

Questi modesti racconti mi son venuti in mente e li ho scritti nell’ordine (o nel disordine) in cui li ho pubblicati.
 Lasciatemi respirare un attimo e aver tempo di metterci mano per rimpolparli e abbellirli. Cercherò di condirli con qualche pizzico di sale e pepe in più, anche se, per quel che ne so, è necessario che il cibo sia già di qualità. In un tempo successivo tenterò di riordinarli. Lo devo, oltre ai miei lettori, per onorare Google che ogni tanto mi  riserva sul mio blog “ enzo-monti. blogspot. com” una pagina intera. Dopo quest’ultimo racconto, ne metterò in rete un paio, scritti negli anni Ottanta e mai pubblicati. Ascolterò volentieri critiche e commenti da parte vostra.

FELLATIO IN ORE (1) 

  Ahi, ahi! Su Facebook se ne vedono delle belle!
 Pochi giorni fa, mi capitò di vedere una scuola di sesso orale. Beh, non credevo ai miei occhi! Nella fotografia era ritratta una tavolata di fanciulle golose impegnate a ciucciare falli di gomma. Mi sarebbe piaciuto vedere in azione l'insegnante, ma purtroppo non l'hanno mostrata.
 Chiesi a Matteo, il nostro aiutante, se avesse preso una botta in testa per pubblicare roba del genere. Cadde dalle nuvole. In effetti, al controllo che feci poco dopo, era stato il suo amico Samuele che gli aveva inviato un link in cui affermava che a Matteo piaceva quella pubblicazione.
 Suggerito da questo episodio, mi ritornano in mente un paio di fatti più che piacevoli. Già la penna freme e li vuole descrivere ... in che modo? Né più né meno di come li ho vissuti: è naturale!
 Verso le ventitré di tanti anni fa, me ne tornavo a casa dopo aver giocato al circolo un paio di partite a scacchi quando, passando davanti al bar di Sinico in Via Leoni, intravidi un paio di amici che felicemente brindavano. Non avevo bisogno d'inviti. Entrai e partecipai alla loro gioia. Se avessi tirato dritto mi sarei perso una serata memorabile.
 Nella mia lunga carriera di bevitore non mi era mai capitato di brindare a una sconfitta. Eppure, quella notte festeggiai e brindai a un pompino(1) non portato a termine.
 Beh, che c'è? Dov'è la volgarità o lo scandalo se chiamo questo atto con un termine che usiamo comunemente? Forse potevo scrivere qualche spiritoso eufemismo oppure qualche sofisticata metafora invece di pompino? Ma l'avrebbero capita tutti? Lasciamo quindi ai bigotti e ai bacchettoni sputar le loro infelici sentenze e tiriamo avanti.
 Otello e il suo inseparabile amico Polpa, passando da un bar all’altro, avevano incontrato una comune amica. Di quella signora, sposata con un becco più vecchio di lei, ne ho scordato il nome. Potrei rintracciare un paio di amici che forse se lo ricordano ancora, ma sono talmente pettegoli e vigliacchi che il giorno dopo lo saprebbe tutta Verona. Chiameremo Fernanda questa cara signora.  Sotto il metro e settanta, snella, rossiccia, dal viso scarno e rugoso, dalle gambe ben fatte, portava tutti i sintomi in cui si riconosce una donna sensuale. Di lei ho un bellissimo ricordo, e ne rammento anche alcuni comportamenti singolari.
 Quando veniva in compagnia, metteva gonne con lunghi spacchi che arrivavano all'inguine, vantandosi poi di non portar mutande e pronta all’uso. Al ballerino s’avvolgeva come una serpe, come se ballasse la Lambada. Che meraviglia! E che piacere per il nostro affare!(2) Credo che la si potesse definire una ninfomane. Non vedo altri termini o giustificazione per appagare quella sua fame di sesso. 
 Otello era allora un ultra sessantenne in pensione, mentre Polpa era più giovane d’una decina d’anni.  Dopo che i tre ebbero bevuto un paio di goti e mangiato qualche bocconcino, i miei amici, pieni come uova ma da veri cavalieri, si offrirono di dare un passaggio in macchina alla signora. Alla guida il Polpa, sui sedili posteriori Otello e Fernanda, pronta per fare un servizio al suo e nostro amico.
 Per quarantadue kilometri andarono in giro per la città senza alcun profitto. Esausti, la portarono a casa. Raccontavano inoltre che ci fu un attimo di panico per una brusca frenata dovendo evitare un cretino che aveva tagliato la strada. Ci mancava che Otello rimanesse monco! Ebbri, ridevano e bevevano: ridevano come matti più per lo scampato pericolo che per lo sconforto d'aver fatto cilecca. Che serata fantastica!
 Di tutt’altra musica è l’episodio che segue.
 Prima degli anni Ottanta, tra il mio negozio e quello degli arrotini, ne esisteva uno piccolo di profumeria la cui proprietaria era una certa Raffaella. Una botticella mora che, nonostante avesse superato i cinquanta, millantava d’essere corteggiata da tanti uomini, mentre nella realtà era un’angosciante zitella dalla voce squillante e che da giovane aveva studiato canto, tant’è vero che veniva soprannominata La Turandot.
 Un bel giorno, al bar di fronte ai nostri negozi e gestito da Armando, manifestando i suoi timori si vantava d’essere seguita di sera da un timido ammiratore. Ascoltava le sue lamentele Alice che, incuriosita, s’intromise nel discorso chiedendo:
 - Mi scusi:  ma su quale marciapiede l’insegue quell’uomo?... Perché?... Ma io l'invoglierei, e a forza d’andar avanti e indietro, ci lascerei un solco su quel marciapiede.
 Alice, di qualche anno più vecchia, più o meno grassa e bassa come Raffaella, portava capelli biondi ossigenati ed era orba come uno scopeton (3). Mia cliente e miope attorno alle undici diottrie: il che vuol dire che, senza occhiali e con quel grosso difetto di vista, dopo dieci centimetri dal naso non vedeva più nulla. E, come se non bastasse, a quei tempi gli occhiali erano veramente orribili, pesanti, con lenti spesse e, oltre a intristire, non gli permettevano di truccarsi in modo decente, tant'è vero che s'imbrattava in modo orribile. Per concludere: era brutta come la fame e contro ogni tentazione. Tuttavia, aveva condotto al cimitero un paio di mariti e il suo ultimo compagno.
 Una mattina, all’orario d'apertura del negozio, ero al bar, sempre quello di fronte ai nostri negozi, a gustarmi il primo caffè quando entrò Alice. Dietro al banco Armando e sua moglie Gemma, in fondo al locale un uomo in piedi che leggeva il giornale, Alice chiese ai coniugi:
 - Fatemi un buon caffè! Aggiustatemi la bocca perché ho una mascella fuori posto per averlo ciucciato iersera per più d’un’ora.
 Un gelo polare avvolse l’ambiente. Armando si voltò; Gemma sgranò tanto d'occhi vergognosamente stupita di quella uscita; volò solo il fruscio d’un giornale incuriosito che s'abbassava. Ruppi quel silenzio da tomba con:
 - Ma Alice, cosa ha succhiato?  
 Fessurando gli occhi come fanno i miopi:
  - Monti, non fassa tanto el furbo!(4) L’ha capì benissimo.
 Altro silenzio imbarazzante.
 D'accordo che lo stupore è dello sciocco, ma davanti a certe sorprese sia un'intelligenza feconda che una fantasia fertile non arrivano a prevedere ciò che può succedere ancora. Infatti, non era finita. Ne arrivò una ancor più grossa e mai sentita così grassa pronunciata da una donna.
 Forse uno sfogo, oppure una semplice constatazione, addirittura il rimpianto dei bei tempi passati, chi lo sa; sta di fatto che sentimmo tutti chiaramente:
  - Sarà pran brutto el vostro mestier … in compenso, el  gha de belo che l’è saporito! (5)


(1)    Sesso orale.
(2)    Pene.
(3)    Un tipo di sardina.
(4)    Faccia tanto il furbo.
(5)    Sarà gran brutto il vostro pene … in compenso, ha di bello che è saporito!


Fonte: srs di Enzo Monti del 30 novemnre2018