giovedì 26 gennaio 2017

LA STORICA CORSA AUTOMOBILISTICA STALLAVENA-BOSCO CHIESANUOVA: L’ETERNA CORSA



I precursori: raduno automobilistico ai Tracchi di Boscochiesanuova all'inizio


Dal 1958 al 1968 la corsa Stallavena-Boscochiesanuova rappresentò l'evento motoristico più atteso. L'automobile era privilegio di pochi e non faceva parte del trantràn lavorativo: si andava in auto per il piacere della scoperta. C'era la voglia di riscattarsi da due guerre mondiali, da vite grame e secolari miserie. L'auto allargò gli orizzonti e divenne simbolo di progresso e benessere. I piloti da corsa interpretavano la sfida della velocità e dell'ardimento impiegando minuti e secondi per superare distanze e dislivelli che, fino a pochi anni prima, richiedevano intere giornate. Non è solo questione di strade, ma di gente e passione, testimoniate da un dato inoppugnabile: ancora oggi su oltre 700 piloti veronesi con licenza sportiva, più dell'80% risiede in provincia.

L'automobilismo vanta antiche tradizioni in Lessinia: dopo i pionieri di fine Ottocento, tra cui gli ardimentosi autisti dei primi torpedoni, negli anni del fascismo ebbero successo le manifestazioni autosciatorie: si gareggiava prima in velocità (salendo a Bosco sulla vecchia, stretta strada, perdipiù innevata) e poi sugli sci. Su questa tradizione si innestò la Stallavena-Bosco. La prima edizione venne disputata nel 1958, l'ultima nel 1968. Solo undici anni, che videro però il cambiamento dell'Italia: dal Paese rurale del dopoguerra a quello del boom economico. La gara veronese raggiunse i massimi livelli. Sui tornanti arrivavano centomila spettatori da Veneto, Friuli, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, ma anche da Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Calabria e perfino da Sicilia e Sardegna. Ragazzi, gente comune e inviati speciali di grandi testate, esperti e dilettanti insieme, professionisti e gentlemen drivers. Fu proprio questo il piccolo grande miracolo della Stallavena-Bosco: la sua straordinaria capacità di aggregazione, forse superiore allo sport nazionale, il calcio, perché nell'automobile degli anni Sessanta tutti vedevano uno strumento di libertà, autonomia, conoscenza e crescita sociale. Al punto che il famoso settimanale "Autosprint", dopo la corsa del 1966, vinta dal veronese Noris su Porsche Carrera 6, tributò alla gara scaligera l'onore della copertina, dandole più rilievo della pur importante Mille Chilometri di Monza dei duelli fra Ford, Porsche e Ferrari.


L'avventura della Stallavena-Bosco cominciò domenica 31 marzo 1957 quando un brutto incidente Salita delle Torricelle, edizione numero 14, provocò la soppressione della gara. Lo decise la commissione interministeriale dopo la rovinosa uscita di strada, al sesto tornante, della Ferrari tre litri numero 418 di Erasmo Crivellari. Verso le 18, quando il tramonto aveva ormai oscurato il percorso, la Ferrari uscì di strada travolgendo alcuni spettatori. Solo feriti, ma la gara venne immediatamente sospesa. Domenica 12 maggio dello stesso anno, alla Mille Miglia, un'altra Ferrari, quella del marchese Alfonso De Portago e del giornalista americano Edmund Gurnar Nelson, avrebbe causato a Guidizzolo, a mezz'ora da Verona, il più alto numero di vittime fino allora contato in Italia in un incidente in corsa: undici morti.



Senza l'incidente della Mille Miglia è probabile che la Salita delle Torricelle avrebbe continuato a disputarsi. Ma quell'uscita di strada cadde nell'anno sbagliato. E dalle ceneri delle Torricelle nacque la Stallavena-Bosco.

Fonte: srs di Danilo Castellarin, da l?arena di Verona del 16 giugno 2009


LA STALLAVENA-BOSCO: E LE MUCCHE NON FACEVANO PIÙ LATTE



Il grande Tazio Nuvolari era di casa sulle montagne veronesi. Non solo perché trascorreva le vacanze a Bosco e perché, sempre a Bosco, veniva curato un suo figliolo affetto da problemi respiratori. Ma anche perché il 18 gennaio 1931 fu proprio il pilota mantovano a trionfare su Alfa Romeo nel primo Criterium Autosciatoria Verona-Tracchi, quasi un'antenata della Stallavena-Bosco Chiesanuova. Oltre al 1931, questa gara si disputò nel 1932 e nel 1948. Dieci anni di pausa e poi, dal 1958 al 1968, arrivarono le undici edizioni della Stallavena-Bosco sulla nuova strada che saliva verso i Lessini. Una competizione molto serrata, veloce come una gara in circuito e pericolosa per gli strapiombi nelle vallate profonde, le case sul percorso, i rettilinei da 250 all'ora.

Bastarono pochi anni per farla conoscere come «la corsa in salita più veloce d'Europa». Quindici chilometri da Stallavena fino a Bosco, 800 metri più alta. Tragitto rapidissimo. Nell'ultima edizione, domenica 21 aprile 1968, il recordman svizzero Peter Schetty su Abarth 2000 fermò i cronometri a 6 primi 21secondi e 8 decimi, media di 144 km/orari. Sulla strada lessinica i bolidi di trent'anni fa — come la Porsche Carrera 6, le Ferrari 250 Le Mans e Dino 206, l'Abarth Simca 2000 — raggiungevano i 250 all'ora nei rettilinei dopo Cerro.
Ogni anno gli allevatori dicevano che per tre giorni le mucche restavano senza latte a causa dell'urlo lacerante dei motori che il sabato (giorno di prove) e la domenica (gara) squarciava il silenzio degli altopiani.

Da questa competizione passarono i migliori specialisti degli anni Cinquanta e Sessanta. Fra i veronesi, i più noti erano Giulio Cabianca, Roberto Bussinello, Gastone Archimede Zanarotti, Danilo Tesini, Sergio Lipizer, Pier Giorgio Provolo, Lucillo Sacchiero, Noris (Giacomo Moioli), Matich (Gianni Lado), Paolo Lado, Maurizio Pinchetti, Gaetano Bertani, Walter Donà, Guido Sanetti e Rino Amighini.
Fu competizione fortunata. Non ci vuol molto a immaginare ciò che avrebbe potuto provocare, in caso di incidente, un bolide lanciato sulle strade di montagna, con i modesti dispositivi di sicurezza dell'epoca: niente cinture di sicurezza, niente airbag, di guardrail nemmeno parlarne e quanto alle tute ignifughe a agli impianti di estinzione in caso di incendio (era il fuoco una delle cause di morte più comune fra i piloti) la tecnica non aveva ancora raggiunto gli attuali livelli. Gli stessi piloti, poi, consideravano le precauzioni quasi un limite al piacere di sfidare il rischio. Guidavano in maglietta, pullover e mocassini, ostentando indifferenza.

Nel 1958 Giulio Cabianca vinse al volante di un'Osca 1500. Bis nel 1959, sempre su Osca 1500. Poi arrivarono i successi dei maseratisti Govoni (1960) e Boffa (1961). Nel 1962 il ferrarista Edoardo Lualdi Gabardi iniziò a mietere la prima delle sue tre vittorie (1963 e 1965 le altre), serie interrotta nel 1964 dall'enfant prodige torinese Franco Patria.
All'epoca, eravamo a metà degli anni Sessanta, la Stallavena-Bosco era considerata da molte case costruttrici (Ferrari, Porsche, Abarth) una preziosa palestra per provare le auto in vista delle sfide europee sul Mont Ventoux e sul Bondone. Nella capacità selettiva della gara veneta credevano anche gli uomini di Stoccarda, sede della Porsche, che nel 1966 puntarono la carta vincente sul gentleman driver scaligero Noris, affidandogli una rabbiosa Carrera 6 semiufficiale. Fu un trionfo. Per la Porsche, per Noris (il primo a scendere in gara sotto i sette minuti) e per i veronesi che rivissero gli entusiasmi dell'asso Cabianca. Al punto che l'anno dopo gli insegnanti delle scuole situate vicino all'Automobile Club Verona, dove si svolgevano le verifiche pregara (con tanto di secchi di vernice e pennelli per dipingere i numeri sulle portiere e sui cofani), dovettero faticare non poco per tenere a freno i ragazzi eccitati dall'urlo dei motori.
La gara aveva convinto anche il prudente Carlo Abarth, patròn dell'omonima scuderia torinese, a giocare le sue carte. Così alla vigilia dell'edizione 1967, il mago dello Scorpione arrivò a Stallavena a bordo di un'originale coupè derivata dalla Fiat 2300 e diresse personalmente la messa a punto della 2000 affidata a Johannes Ortner, che vinse davanti al bustocco Lualdi, su Ferrari Dino 206.

L'ultima edizione, quella del 21 aprile 1968, vide ancora la vittoria dell'Abarth, ma con l'astro nascente Peter Schetty, svizzero, che colse anche il record della gara con il tempo di 6' 21'' 08, alla media di 144 orari.
Poi arrivò la doccia fredda: la gara fu soppressa, quando ormai erano in molti a reclamarne la validità per il campionato europeo della montagna.
Fu un peccato perché la Stallavena-Bosco apparteneva al novero di quelle competizioni dove bisognava intuire la caratteristiche del percorso, interpretare le curve, sempre una diversa dall'altra, insomma capire la macchina, indovinando il punto di non ritorno, il limite che ogni corridore cerca disperatamente e che rappresenta il presupposto indispensabile della vittoria. In un circuito, il limite va ricercato in sette, otto curve. Nelle gare su strada quel confine era celato in ogni metro e la perfezione diventava secondaria a favore di un rapporto quasi fisico e intuitivo con le curve, i dossi, l'umidità, le cunette, gli avvallamenti, il brecciolino. Più che un guidare, era un sentire. Perché veloci possono essere in molti, sensibili pochissimi. Una ristretta schiera di eletti, capaci di capire i segreti del percorso, fiutare le insidie, scegliere la marcia, dosare la potenza e padroneggiare cambio e volante.


Sempre al limite, con l'accortezza del chirurgo e la determinazione del pugile. Un po' stilisti e un po' indovini, sempre cercando di prevedere ciò che la curva successiva avrebbe riservato. Giocando con l'azzardo, mai essendone giocati. Pena la morte. Questo era il patto fra uomo e macchina all'epoca della cronoscalata scaligera. Quando i serbatoi erano bombe innescate, i parabrezza erano affilati come ghigliottine e le strade non avevano l'asfalto vellutato dei moderni circuiti dove una palla da tennis rotola due chilometri con la spinta di un bambino. Se poi l'auto sfuggiva al controllo e si ribaltava, la partita era chiusa nell'80 per cento dei casi perché non c'erano roll-bar né gabbie di sopravvivenza e i caschi erano spesso graziose cuffiette di stoffa, più che efficaci protezioni per la scatola cranica.

Danilo Castellarin

Fonte: srs di Danilo Castellarin, da L’Arena di Verona del  16 giugno 2009


mercoledì 25 gennaio 2017

IL CONO GELATO? GENIALE INVENZIONE DI UN BELLUNESE EMIGRATO

Italo Marchioni.


In pieno revanscismo ideologico musulmano anche l'invenzione del cono gelato è stata rivendicata da loro. Dicono che fu un emigrato siriano negli States, a proporlo per primo, negli anni Venti del '900, ma non è così. La paternità indubbia va a un veneto di Belluno (Patria indiscussa del gelato artigianale,del resto) che si chiamava Italo Marchioni. Ecco in breve la vicenda, tratta da un articolo di Marco De Biasi, comparso nella bella rivista "Storia veneta" (nr. 39).




Italo Marchioni nacque a Peaio di Vodo di Cadore il 31 dicembre 1868, sulla strada di Cortina. Nell'ultimo periodo del secolo emigrò in America, e si mise a vendere gelato, ghiaccioli, cialde di wafers, prima a Philadelfia, e in seguito a New York .
Egli serviva il gelato all'interno di bicchieri di vetro ma molti clienti o li rompevano, oppure mancavano di restituirli, e alla luga questo rappresentav aun concreto danno economico. 
Nel 1896 ebbe l'idea geniale: prese una cialda di wafer ancora calda e l'arrotolò dandogli la forma di un cono e una volta raffreddata ci mise all'interno l gelato. Era nato il primo cono gelato.




Nel dicembre 1903 inventò un macchinario per produrre meccanicamente i coni ed ottenne un brevetto depositato a Washington.

Le rivendicazioni siriane.

Alcuni attribuiscono erroneamente l'invenzione a un pasticciere siriano, che nel 1904, e quindi dopo Italo, arrotolò una "zalabia" (pasta croccante cotta in una pressa per wafer) e la diede a un gelataio che stava per rimanere senza piattini in una fiera. 
Molti si attribuirono l'invenzione, ma tutti lo fecero dopo il cadorino. 


Fonte: Dal Veneto al Mondo


lunedì 23 gennaio 2017

PIO XII, LE STORICHE SCUSE DELLA BBC: «ABBIAMO DETTO IL FALSO, AIUTÒ GLI EBREI»




di Federico Cenci

da Zenit, 21/12/16

Un nuovo piccolo ma significativo passo verso la verità storica della seconda guerra mondiale è stato compiuto in Gran Bretagna, ad opera della prestigiosa Bbc. Con un gesto di onestà intellettuale, l’emittente inglese ha ammesso che un suo servizio televisivo che accusava la Chiesa cattolica di essere rimasta inerte dinanzi alle persecuzioni degli ebrei da parte dei nazisti, era basato su false notizie.

Il servizio in questione è andato in onda lo scorso 29 luglio, nel tg serale, durante la visita di Papa Francesco ad Auschwitz in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù. Il giornalista che stava seguendo l’evento per conto della Bbc ha così commentato: “Il silenzio fu la risposta della Chiesa cattolica quando la Germania nazista demonizzò la popolazione ebraica e poi tentò di sradicare gli ebrei dall’Europa”.

Questa narrazione dei fatti è stata contestata con una denuncia formale da lord David Alton, parlamentare cattolico tra le fila dei liberali, e da padre benedettino Leo Chamberlain, storico ed ex direttore dell’Ampleforth College. Lord Alton ha fatto presente alla Bbc che, ironia della sorte, parte del servizio di approfondimento sulla visita di Bergoglio è stato girato presso la cella di Auschwitz in cui fu internato San Massimiliano Kolbe, il quale, da sacerdote cattolico, fu arrestato dai nazisti per la sua opera di accoglienza di profughi e feriti sia cristiani che ebrei nonché per aver denunciato le atrocità del Terzo Reich sulla rivista che lui stesso fondò: Il Cavaliere dell’Immacolata.

Lo stesso deputato inglese ha poi sottolineato che diversi storici hanno lodato Papa Pio XII per le sue iniziative nel corso della seconda guerra mondiale. Lo storico ebreo Pinchas Lapide ha scritto che Papa Pacelli “è stato determinante nel salvare almeno 700mila ebrei, ma più probabilmente 860mila ebrei da morte certa per mano dei nazisti”. L’impegno del Pontefice fu anche l’impegno delle istituzioni vaticane e della base cattolica. Come si può parlare di complicità quando circa 8mila dei 31mila preti cattolici presenti in Germania nel 1931, furono eliminati dal regime?

La domanda retorica coincide poi con una constatazione. La Santa Sede – rileva lord Alton – aiutò gli ebrei a sfuggire alle persecuzioni in Europa orientale, fornendo loro certificati di battesimo e nascondendoli dentro la Città del Vaticano. Inoltre – prosegue il parlamentare – oltre 6mila polacchi, quasi tutti cattolici, sono stati riconosciuti in Israele come “Giusti tra le Nazioni” per il ruolo svolto nel loro Paese al fine di salvare ebrei.

Ebrei che nel dopoguerra ringraziarono pubblicamente Pio XII per il suo aiuto nei loro confronti. Leo Kubowitzki, allora segretario del World Jewish Congress, il 23 settembre 1945 presentò la pubblica gratitudine dell’associazione che rappresentava. E il 30 novembre successivo, l’Osservatore Romano riportò la cronaca di un incontro tra il Santo Padre e circa 80 sopravvissuti ebrei ai campi di concentramento che espressero il grande onore di poterlo ringraziare “per la generosità verso coloro che sono stati perseguitati nel periodo nazifascista”.

Alla luce di queste e di altre testimonianze, non usa mezzi termini lord Alton per definire il servizio della Bbc del luglio scorso: “Uno sciatto, pigro, commento buttato via – indicativo del tipo di analfabetismo religioso che può causare tanta offesa; e parte di un offuscamento tra la cronaca in diretta e il desiderio di aggiungere un po’ di melodramma”. Ma “meno caritatevolmente – aggiunge – il servizio della Bbc può essere visto come l’ultimo esempio di un annoso tentativo di riscrivere la storia.

Nei giorni scorsi, dopo oltre quattro mesi dalla messa in onda del servizio e dopo aver studiato la documentazione storica fornita da lord Alton e da padre Chamberlain circa l’impegno della Chiesa a favore degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, l’emittente britannica ha fatto un pubblico mea culpaHa ammesso in una nota inviata a lord Alton che il giornalista autore del servizio non ha dato “il giusto peso alle dichiarazioni pubbliche dei Papi successivi e agli sforzi compiuti da Pio XII per salvare gli ebrei dalla persecuzione nazista, ed ha perpetuato così una visione che contrasta con l’equilibrio delle prove”.

Del resto, come lo stesso San Massimiliano Kolbe scrisse nell’ultimo numero de Il Cavaliere dell’Immacolata, “nessuno al mondo può cambiare la verità”.


Fonte: da uccronline.it del 9 gennaio 2017


domenica 22 gennaio 2017

L’APOCALISSE VERONESE DEL 3 GENNAIO 1117. IL PRIMO TERREMOTO CHE FU MISURATO



Quell’apocalisse nove secoli fa. Con i suoi 9 gradi Mercalli seminò morte da Cividale a Milano, da Bergamo a Pisa




  
di Gian Antonio Stella


«Fu il terremoto assai terribile. Per cui crollarono molte chiese coi campanili, e innumerevoli case e torri e castelli e moltissimi edifici, sia antichi che nuovi; per il quale anche i monti con le rupi crollarono e devastarono e in molti luoghi la terra si aprì ed emanava acque solfuree…»

La scossa
La cronaca degli Annales Venetici breves offre un’immagine nitida di cosa fu lo spaventoso scossone del 3 gennaio 1117. Nove secoli fa.  «Fu il più antico evento sismico del mondo per il quale si abbia un quadro dei danni tale da consentire oggi di stimarne l’area epicentrale e la magnitudo con tecniche analitiche rigorose, le stesse usate per analizzare terremoti di secoli più vicini», spiega Emanuela Guidoboni, tra i promotori del convegno di oggi all’Istituto Veneto di Venezia sul tema «Novecento anni dal più grande terremoto dell’Italia Settentrionale».

L’area padana
Fu così devastante quel cataclisma, coi suoi 9 gradi di intensità della scala Mercalli-Cancani-Sieberg e «una magnitudo calcolata, a partire dal quadro complessivo del danneggiamento, tra 6.5 e 6.9» (quello in Friuli del 1976 fu di «appena» il 6,4 e ogni aumento di 0,2 punti di magnitudo corrisponde al raddoppio della potenza) da seminare morte e rovine il tutta l’area padana, da Cividale a Milano, da Bergamo a Pisa.

Le parole
«Per due volte fra il giorno e la notte avvenne in tutto il mondo un terremoto tanto terribile che molti edifici crollavano e gli uomini a stento riuscivano a fuggire; ma soprattutto in Italia, dove fu tanto pericoloso e orribile, che gli uomini aspettavano su di sé il manifesto giudizio di Dio», si legge negli Annales Sancti Disibodi, «e all’improvviso, per le spaccature della terra, crollarono città, castelli, ville, con gli uomini che ivi indugiavano [a fuggire]. Infatti anche i monti furono spaccati e i fiumi, la terra inghiottente, si essiccarono tanto che chi voleva poteva attraversarli a piedi».

Il Po
Il fiume Po, aggiunge il cronista, «erigendosi dal suo alveo, si levò in alto a guisa di arco in modo da aprire la via tra la terra e l’acqua e da dare a intendere apertamente che minacciava la fine al mondo con i suoi flutti alti. E l’acqua essendo rimasta sospesa così a lungo, finalmente si rimise in se stessa con tanto suono, che il suo fragore si udiva per miglia».

Trentamila morti
Furono trentamila, stando ad alcune stime, le vittime di quell’evento, generato da una «sorgente sismica piuttosto profonda, mascherata dalla spessa copertura di sedimenti che ricopre tutta la pianura-padano-veneta e perciò finora imperscrutabile». Un’apocalisse. Paragonabile rispetto alla popolazione di oggi, tanto per capirci, a trecentomila morti.

L’epicentro
L’epicentro fu probabilmente nel veronese a Ronco all’Adige, a sud di Soave. La città più colpita fu Verona dove collassò la cinta esterna dell’Arena e, scrisse Pietro Diacono, «le chiese furono rovesciate dalle fondamenta e le alte torri precipitarono» ma i danni furono gravissimi anche alla cattedrale di Parma, a quella di Cremona, alla Basilica padovana di Santa Giustina…

Le testimonianze
Devastazioni di cui restano memorie preziose: 72 fonti memorialistiche coeve (60 annali monastici e 12 cronache cittadine) più tre dozzine di atti processuali, libri di conti, epigrafi… Mancano, perché arriveranno solo successivamente, testimonianze autobiografiche come quelle che lascerà fra’ Salimbene de Adam sul sisma del 1222: «Mia madre soleva ricordarmi che durante quel grande terremoto io ero bambino ancora nella cuna, ed essa prese sottobraccio le mie due sorelle (erano piccine) e, abbandonando me nella cuna, riparò nella casa dei suoi parenti. Temeva infatti che rovinasse su di lei il battistero, poiché la mia casa era vicina ad esso. E per questo che io non l’amavo eccessivamente, perché avrebbe dovuto preoccuparsi più di me che ero maschio, ma lei rispondeva che era più facile portare le due sorelle perché più grandicelle».

La mano di Dio
I resoconti a tinte forti, però, sono molti. Come quello di Landolfo Iuniore (o Landolfo di San Paolo), che nella Historia Mediolanesis vede nello sconvolgimento la mano di Dio: « E il terremoto (…) smosse e sconvolse profondamente il Regno dei Longobardi. In quel tempo la gente, che vedeva grandi rovine per le città e in genere per i luoghi, particolarmente per le chiese, diceva che gocce di sangue cadevano come pioggia dal cielo e di vedere parti mostruosi e molti altri prodigi in aria, acqua, monti, pianure e selve, e di sentir tuoni sotterranei. E in questa prova divina anche coloro, che apparivano essere sacerdoti, non sapevano dove fuggire».

In Germania
Il botto fu tale, si legge negli Annales Remenses et Colonienses, da essere avvertito in Germania: «Il 3 gennaio ai vespri», le sei di sera, «nelle chiese furono scosse le immagini del Signore e molte cose pendenti in esse».
E l’Annalista Sassone insiste apocalittico in Monumenta Germaniae Historica: «Non minore che una volta quello di Sodoma e Gomorra giunse un clamore di tal fatta alle celesti schiere di Dio. Per la qual cosa, durante la festa stessa della natività del Signore il 3 gennaio all’ora del vespro, mentre tanti sprezzavano oltremodo il giudizio divino, la terra fu scossa e tremò per l’ira tremenda del furore divino, tanto che non si è trovato nessuno sulla terra che dichiari di aver mai sentito un terremoto tanto grande. (…) Ma soprattutto in Italia questo minaccioso pericolo imperversò continuamente per molti giorni, tanto che il corso del fiume Adige fu ostruito per alcuni giorni dalla collisione e dalla rovina dei monti; Verona città d’Italia nobilissima, scrollati gli edifici, sepolti anche molti uomini, crollò. Similmente a Parma a Venezia e in molti altre città, borghi e castelli perirono non poche migliaia di uomini. (…) Il 17 febbraio all’ora del vespro vedemmo nubi infuocate o sanguigne sorgere da nord e estendendosi in mezzo al firmamento incutere al mondo non poco terrore. Infatti a ciascuna città sembrava tanto vicino, che sembrava minacciare la fine di tutte le cose...»

Lo spavento del visconte
Il visconte Rodolfo di Verona si prese un tale spavento, dice un documento conservato all’Archivio di Stato, che diventò meno avido. E pur essendo «solito chiedere e pretendere la decima», venne «toccato e commosso da un pio turbamento dell’animo» e «presenti e testimoni i rappresentanti della comunità, convocato il figlio, rinunciò alla decima della suddetta chiesa…».


Fonte: srs di Gian Antonio Stella, da il Corriere della Sera  del  19 gennaio 2017