giovedì 30 giugno 2011

Verona: Piazza delle Erbe



Non vi è piazza, in Italia, più pittoresca di quella delle Erbe a Verona - l'antico Foro - centro virtuale della città; popolatissima quasi sempre, gaia, caratteristica nelle sue molteplici bellezze, nella sua cerchia irregolare che presenta uno specialissimo fascino scenografico.

Gli ombrelloni bianchi dei venditori di verdura e di fiori, gli stili disparati degli edifici che la circondano; i monumenti che la occupano colonne, capitelli, fontana - gli stretti porticati; l'imponenza, nello sfondo, del seicentesco palazzo Maffei, coronato da una balaustrata che, nell’ azzurro, affaccia sei statue di divinità; la rude torre scaligera del Gardello; i vasti affreschi della casa Mazzanti dove combattono giganti mitologici, tutto concorre a dare uno speciale valore artistico, una - si direbbe - armonia disimmetrica, con varietà di luci e di colori.

È veramente un pubblico e grande gioiello italiano, questo, ed ebbe illustratori mirabili, primo fra essi il pittore concittadino Angelo Dall'Oca Bianca.

Qui poi rimangono vivi ricordi storici, usanze d'altri tempi e memorie che intrecciano il sacro al profano, la fede cristiana alla mitologia romana, i segni dei governi alle memorie tristi o liete dei veronesi.

Fonte: a cura  della Commissione Turistica dell’Automobile Club Verona, numero  2

mercoledì 29 giugno 2011

LE CROCIATE: LO STORICO PAUL CRAWFORD NE SMONTA I MITI; È L’OCCIDENTE CHE HA INSEGNATO ALL’ISLAM AD ODIARE LE CROCIATE


Nell’ultima edizione di Review Intercollegiate, la rivista dell’Intercollegiate Studies Institute (ISI), organizzazione no-profit che raccoglie oltre 50.000 studenti e docenti universitari di tutti gli Stati Uniti, è apparso un articolo intitolato: “Quattro miti sulle crociate”, a cura dello storico medievalista Dr. Paul Crawford, docente alla California University of Pennsylvania.  Lo specialista fa notare che spesso le crociate sono raffigurate come un episodio deplorevolmente violento, tuttavia è una visione molto popolare e poco veritiera. Vengono affrontati nel dettaglio 4 famosi miti, che noi riproponiamo sotto forma di sintesi (senza note di riferimento).

1) Le crociate sono un attacco immotivato al mondo musulmano
Niente potrebbe essere più lontano dalla verità, afferma Crawford.
 Nel 632 d.C., Egitto, Palestina, Siria, Asia minore, Africa settentrionale, Spagna, Francia, Italia, Sicilia, Sardegna e Corsica erano tutti territori cristiani.  Certamente vi furono tante comunità cristiane anche in Arabia. Ma nel 732 d.C. i cristiani erano stati attaccati in Egitto, Palestina, Siria, Nord Africa, Spagna, gran parte dell’Asia Minore, e in Francia meridionale.  Le comunità cristiane d’Arabia vennero interamente distrutte poco dopo il 633, quando ebrei e cristiani furono espulsi dalla penisola. Le forze islamiche conquistarono tutto il Nord Africa e puntarono verso l’Italia e la costa francese, attaccando la penisola italiana nell’837. In Terra Santa i pellegrinaggi divennero sempre più difficili e pericolosi. Lo storico approfondisce nel dettaglio la grave situazione venutasi a creare.  E’ quindi da questi fatti che i papi del X e XI secolo si attivarono nel disperato tentativo di proteggere i cristiani perseguitati.
  Conclude quindi affermando che «lungi dal non essere motivate, le crociate rappresentano di fatto il primo grande contrattacco occidentale agli attacchi musulmani, che avevano avuto luogo ininterrottamente dalla nascita dell’Islam fino all’undicesimo secolo, e che continuarono anche in seguito, senza sosta. Se la cristianità voleva sopravvivere occorreva una forte difesa». Per capire che si trattava solo di difesa, domanda:«quante volte le forze cristiane hanno attaccato La Mecca o Medina? Naturalmente mai».

2) I cristiani hanno avviato le crociate per saccheggiare i musulmani e arricchirsi.
Anche questo non è vero. Urbano II invitò nel 1095 i guerrieri francesi nella Prima Crociata, legittimandoli a “fare bottino del tesoro del nemico“. Ma questo, dice Crawford, non era altro che il modo usuale per finanziare la guerra nella società antica e medievale. I crociati, infatti, vendettero tanti dei loro beni per finanziare le loro spedizioni. Lo storico ricorda anche che uno dei motivi principali del naufragio della quarta crociata fu proprio la mancanza di soldi. I papi stessi ricorsero a stratagemmi sempre più disperati per raccogliere fondi da utilizzare nel finanziamento delle crociate. Anche in questo caso, dopo aver analizzato molto più in profondità la situazione, Crawford conclude: «furono solo poche persone a diventare ricche a causa delle crociate, e il loro numero era sminuito da coloro entrarono in bancarotta. La maggior parte dei medioevali era ben consapevole di questo e non ha ritenuto la crociata un modo per migliorare la situazione finanziaria».

3) I crociati erano animati da motivazioni materialistiche e non religiose.
Dopo Voltaire questo è un mito molto popolare, dice Crawford. Certamente ci furono uomini cinici e ipocriti anche nel Medioevo, tuttavia anche questa affermazione è falsa.  Innanzitutto il numero di vittime delle crociate erano molto alto e la maggior parte dei crociati non si aspettava certo di ritornare in patria. Uno storico militare ha stimato il tasso di perdite della Prima Crociata con un 75%.  La partecipazione alla missione è stata volontaria e i partecipanti venivano motivati attraverso dei sermoni, che però erano pieni di avvertimenti sul fatto che le crociate avrebbero portato privazione, malattia, sofferenza e spesso morte.
 L’accettazione di andare incontro a difficoltà e sofferenza può essere visto dentro la dottrina cristiana di assimilazione alle sofferenze di Cristo e dei martiri. Lo storico spiega che per un crociato, la missione armata era essenzialmente un atto di amore disinteressato, come chiede il passo evangelico  “dare la vita per i propri amici” (Gv. 15,13).  Fin dall’inizio, dunque, la carità cristiana era la ragione per la crociata, e questo non cambiò per tutto il periodo.

4) Le crociate hanno spinto i Musulmani ad odiare e ad attaccare i cristiani.
Come scritto nella risposta 1, niente potrebbe essere più lontano dalla verità).  I musulmani hanno attaccato i cristiani per più di 450 anni prima che Papa Urbano dichiarò la Prima Crociata. Non avevano certo bisogno di alcun incentivo per continuare a farlo. Crawford ricorda che prima del 19° secolo non esisteva nemmeno la parola araba “crociata” perché non era importante per i musulmani distinguere le crociate dagli altri conflitti tra cristianesimo e Islam. Saladino non era certo venerato dai musulmani come il leader anti-cristiano grande leader.
Solo nel 1899 il mondo musulmano ha riscoperto le crociate, ma è stato grazie agli occidentali come Voltaire, Gibbon, e Sir Walter Scott e Sir Steven Runciman, che dipinsero i crociati come rozzi, avidi, barbari aggressivi che attaccarono civili e musulmani amanti della pace.  
Allo stesso tempo, dice lo storico, il nazionalismo cominciava a mettere radici nel mondo musulmano e i nazionalisti arabi presero in prestito questa grave e cattiva interpretazione delle crociate, e utilizzarono questa come supporto filosofico per i propri programmi. Questo ha portato senza soluzione di continuità alla nascita di Al-Qaeda.  
Concludendo: «non sono le Crociate che hanno insegnato ad attaccare l’Islam e l’odio verso i cristiani. La guerra al cristianesimo ha preceduto di molto le crociate e risale alla nascita stessa dell’Islam. Piuttosto, è l’Occidente che ha insegnato all’Islam ad odiare le crociate».


Fonte: da facebook; srs di Paul Crawford, martedì 17 maggio 2011

martedì 28 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. IX. B ): LO SCISMA OCCIDENTALE (1378-1417)


Donatello e Michelozzo, Battistero di Firenze: Monumento funebre dell'antipapa Giovanni XXIII


Alla morte di Gregorio XI, avvenuta nel 1378 poco dopo il suo ritorno a Roma, 16 cardinali si riunirono in conclave per eleggere il successore: 11 erano francesi, 4 italiani, 1 spagnolo. Il popolo romano, in ansiosa attesa, inscenò clamorose dimostrazioni per sollecitare la nomina del papa: tutti gridavano che volevano «un papa romano, o almanco italiano», nel timore che spostasse di nuovo la sede ad Avignone.

All’unanimità venne scelto l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che in quel momento si trovava a Roma, ma non era cardinale. L’elezione non era stata ancora annunciata che la folla fece irruzione nel conclave: nella confusione del momento, si credette che il nuovo pontefice fosse il vecchio cardinale Francesco Tibaldeschi († settembre 1378), a cui, nonostante il suo imbarazzo, furono tributati onori solenni, mentre i cardinali fuggivano (sei di loro si asserragliarono in Castel S. Angelo), e il popolo metteva a sacco la dimora del cardinale (4.)

URBANO VI

Quando si scoprì l’equivoco, i romani si acquietarono e l’indomani fu intronizzato il vero papa, Urbano VI (1378-1389),  l’ultimo scelto al di fuori del collegio cardinalizio.  Nei giorni seguenti si svolsero regolarmente concistori e cerimonie; la notizia dell’avvenuta elezione fu comunicata alla cristianità e i cardinali residenti ad Avignone scrissero lettere di congratulazioni.  Il nuovo pontefice mostrò subito di avere un carattere orgoglioso e autoritario, uno zelo imprudente nel procedere alla riforma; invano santa Caterina da Siena lo esortava alla moderazione. I cardinali si sentirono offesi, anche perché non confermò tanti loro privilegi e reagirono negativamente. Da tali debolezze ed errori spuntò una crisi che travagliò per circa 40 anni tutta la Chiesa, il cosiddetto grande scisma d’Occidente.

Clemente VII, antipapa

Infatti 13 cardinali si recarono in agosto ad Anagni e di là emanarono un documento contro l’elezione del papa, «forzata e perciò invalida».
Con la protezione del re di Francia e di Napoli, si recarono a Fondi per eleggere un altro pontefice, che risultò il cardinale Roberto di Ginevra, cugino del re francese: si chiamò Clemente VII (1378-1394, antipapa). Tentò di andare a Roma con la forza, ma i soldati di Urbano VI, al comando di Alberico da Barbiano, glielo impedirono (battaglia di Marino, 30 aprile 1379); non gli rimase che ripiegare su Avignone, luogo più tranquillo e ospitale, in attesa di un’occasione propizia per tornare a Roma.
Le conseguenze furono di una gravità eccezionale: esisteva un doppio papato, uno romano e l’altro avignonese; l’Europa cristiana si divise in due «obbedienze», in due campi nemici.

Urbano e Clemente si scomunicarono a vicenda: in tal modo, nominalmente, l’intera cristianità si trovò scomunicata.
Caos, incertezze e confusioni: in molte diocesi si ebbero due vescovi, in parecchi monasteri due abati, in numerose parrocchie due parroci. Perfino gli spiriti più nobili erano nel dubbio: mentre santa Caterina da Siena lottava senza tregua per il riconoscimento di papa Urbano VI, chiamando i cardinali ribelli «menzogneri» e «dimoni incarnati», un grande predicatore come il domenicano spagnolo san Vincenzo Ferrer combatte con altrettanto zelo per il papa Clemente VII, tacciando i «romani» come «eretici» e «sedotti dal demonio»(5).

Scosso e in decadenza il prestigio del pontificato, ognuno dei due papi si affannò a strappare adesioni; le finanze di Roma e di Avignone erano in dissesto; principi e Stati reclamavano nuovi diritti e concessioni; dottrine eterodosse si diffondevano in Boemia e in Inghilterra; soprattutto vacillava la fede nel papato e nella Chiesa visibile.

Con l’andare del tempo, il fascino di Roma s’impose e i sostenitori di Avignone diminuirono: solo l’ostinata convinzione di Benedetto XIII (1394-1423), successore di Clemente VII, e la sua straordinaria longevità (visse fino a 94 anni) mantennero in vigore lo scisma.
In questa atmosfera di attesa e di perplessità, si cercarono i rimedi adatti: da tutte le parti, specie presso i teologi dell’Università di Parigi, si vennero elaborando dei piani per risolvere la crisi. Si pensò alla convocazione di un Concilio generale, concepito come superiore al papa e infallibile nelle sue decisioni: l’Università di Parigi sottoscrisse questa idea nel 1381, ma per il momento non ebbe successo.

L’AFFERMARSI DELLA TEORIA CONCILIARISTA

Più tardi si prospettarono come possibili tre soluzioni:

- 1) che uno dei due papi, o entrambi, abdicassero spontaneamente («via cessionis»);

- 2) o i due accettassero un arbitrato e promettessero di stare alla sentenza emanata («via compromissionis»);

- 3) o accettassero il giudizio insindaca-bile di un Concilio ecumenico («via Concilii»).

Erano queste teorie già state accennate chiaramente negli scritti di Marsilio da Padova e di Guglielmo d'Occam, secondo cui la pienezza dell’autorità della Chiesa non è nelle mani di uno solo, ma nella universitas fidelium:  il Concilio, in quanto organo rappresentativo della cristianità, aveva un potere superiore a quello del papa, era quindi sua competenza stabilire quale fosse il papa legittimo. Si manifestò così il trionfo del «conciliarismo».

Ovviamente la situazione politica portò altre complicazioni: congiure e tentati assassini irrigidirono papa Urbano VI, ritenuto da qualche cardinale affetto da disturbi mentali. Nel 1386 egli ne fece giustiziare cinque (tra cui due cardinali provenienti dall’Ordine minorita: fr. Ludovico Donati e fr. Bartolomeo de Cucurno), e questa crudeltà ne rovinò la riputazione.  La sua morte nel 1389 fu accolta da molti come una liberazione. Anziché trovare l’accordo, i rispettivi collegi cardinalizi elessero regolarmente i propri candidati. Si ebbe così la seguente serie di papi:

papato romano: Bonifacio IX (1389-1404); Innocenzo VII (1404-1406); Gregorio XII (1406-1415);

serie avignonese: antipapi Clemente VII e Benedetto XIII.

È vero che nel 1407 si arrivò a un passo dalla composizione dello scisma: Gregorio XII e Benedetto XIII si accordarono a Marsiglia di incontrarsi a Savona per concretare la comune abdicazione; ma il primo si fermò a Lucca, e il secondo a La Spezia. La riconciliazione svanì di nuovo in una distanza irraggiungibile.

IL CONCILIO DI PISA (1409): MALEDICTA TRIPLICITAS!

In seguito a tale situazione, 13 cardinali «romani» e quelli della curia «avignonese» si radunarono a Livorno nel 1408 e decisero di convocare un Concilio generale a Pisa per l’anno seguente. I due papi, citati davanti al Concilio, non si presentarono e tennero ciascuno un proprio sinodo. A Pisa, invece, arrivarono 24 cardinali, vescovi, ambasciatori e una folla di 600 partecipanti fra dottori in teologia e diritto.

Prevalse il punto di vista conciliarista, sostenuto dai due cancellieri parigini Pierre d’Ailly († 1420) e Jean Gerson († 1429): entrambi i papi dovevano considerarsi distruttori dell’unità della Chiesa, «eretici e scismatici notori».  
Vennero quindi deposti e fu eletto un terzo pontefice: il francescano Pietro Filargio, arcivescovo di Milano, che prese il nome di Alessandro V (1409- 1410). Benché riconosciuto dalla maggior parte degli Stati, il «papa pisano» non ebbe il tempo e l’autorità di imporsi, e così — invece della «diabolica duplicitas» — si ebbe la «maledicta triplicitas».

Gli successe Giovanni XXIII (1410-1415), secondo papa pisano, che si aggiunse ai primi due: più difficile ancora era stabilire chi fosse il pontefice legittimo. L’unica speranza era riposta in un nuovo Concilio generale della Chiesa.

Alcune conclusioni
La storiografia contemporanea è pervenuta a queste conclusioni: il Concilio di Pisa del 1409 non può considerarsi un concilio “ecumenico” perché  vi mancò l’accettazione da parte di tutta la Chiesa; non è sufficiente la convergenza delle volontà dei vescovi e degli altri prelati che, accogliendo l’invito dei cardinali, vollero celebrarlo; anche il diritto di convocazione è dubbio.

L’iniziativa dell’imperatore Sigismondo per sanare la situazione

L’arduo compito di convocare il richiesto Concilio generale di unione fra i tre papi in lizza (il romano Gregorio XII, l’avignonese Benedetto XIII e il pisano Giovanni XXIII) fu assunto dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo (1368-1437), sovrano di indiscussa autorità: egli appariva così nelle vesti dell’antico «advocatus Ecclesiae» e del più recente «defensor pacis». Per controllare da vicino i lavori, egli scelse come sede del Concilio la città tedesca di Costanza, sul lago omonimo.

IL CONCILIO DI COSTANZA - SI CHIUDE LO SCISMA

Giovanni XXIII fu il primo a recarsi al Concilio, avendo buone probabilità di essere riconfermato papa: l’imperatore aveva personalmente aderito a lui.  Ma quando, per impedire che i prelati italiani (suoi sostenitori) avessero sempre la maggioranza nelle votazioni, fu deciso che si volasse «per nationes» anziché «pro capite», egli fuggì segretamente a Sciaffusa. mettendo in crisi l’assemblea, che non poteva certo eleggere un quarto pontefice.

I Padri conciliari non si preoccuparono e continuarono i lavori, affermando di essere la massima autorità della Chiesa, a cui ogni altra doveva sottomettersi. Questa teoria venne spiegata in un memorabile discorso dal celebre cancelliere parigino Gerson, che valse a mantenere uniti gli animi. Il  principio conciliarista era teologicamente errato, ma in quel momento non si trovò niente di meglio per uscire dalla confusione.

Il 6 aprile 1415 venne approvato il decreto «Sacrosancta» in cui si dichiarava:

- 1) il Concilio riunito a Costanza rappresentava tutta la Chiesa e, quindi, era ecumenico;

- 2) il suo potere gli veniva immediatamente da Cristo;

 - 3) tutti, compreso quindi il papa, gli dovevano obbedienza. Un’autentica eresia!

Poco dopo, Giovanni XXIII veniva arrestato, ricondotto al Concilio e deposto dal papato (29 maggio 1415): egli vi si rassegnò, avendo capito di aver perso la sua causa.
Restavano gli altri due papi: il novantenne Gregorio XII fece sapere che era disposto ad abdicare, purché si riconoscesse che il Concilio veniva convocato e legittimato da lui. Così avvenne ed egli morì nel 1417 con il titolo di cardinale vescovo di Porto.
Il vecchio Benedetto III rifiutò energicamente di rinunciare al papato, e fu deposto d’autorità come «spergiuro, scismatico ed eretico» (1417).  Si ritirò a Peñiscola presso Valencia in Spagna, tenendo una piccola corte fino alla morte (1423), abbandonato anche da san Vincenzo Ferrer.

L’elezione del nuovo papa fu preceduta da lunghe ed aspre discussioni finché, l’11 novembre del 1417, la totalità dei voti cadde sul cardinale Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V († 1431). L’anno seguente egli chiudeva ufficialmente il quarantennale scisma d’Occidente, in qualità di capo universalmente riconosciuto della Chiesa.
Alcune decisioni

Il Concilio di Costanza era durato circa 4 anni alla presenza di oltre 300 vescovi e prelati, 30 cardinali, 33 arcivescovi, molti prìncipi tedeschi con l’imperatore, una folla di clero e di laici, esponenti della nobiltà e della politica: insomma, un congresso di tutti i capi religiosi e civili dell’Occidente cristiano, uno dei più grandi Concili di tutti i tempi (il XVI Concilio ecumenico).  Gli elettori furono divisi in cinque nazioni: francese, tedesca, italiana, spagnola e inglese. Ciascuna prendeva le sue decisioni nella propria assemblea nazionale, poi presentava i voti nella sessione generale. Ogni nazione disponeva, evidentemente, di un solo voto. Tre furono i problemi-base che si imposero all’attenzione dei Padri:

-1 la causa dell’unione, cioè la ricomposizione dello scisma;

2 la causa della fede, cioè la sua difesa dalle eresie di Wyclif e di Hus;

-3 la causa della riforma, cioè la riforma della Chiesa «in capite et in membris».

Un importante documento approvato (il 9 ottobre 1417) fu il decreto Frequens, che ordinava una certa “frequenza” di Concili generali: il prossimo entro 5 anni, il seguente dopo altri 7 e poi, regolarmente, ogni 10 anni. Non era che un’applicazione del decreto Sacrosancta, nel senso che costituiva il Concilio come organo di controllo del papato e mezzo per attuare la riforma.

Una serie di altri decreti generali di riforma e di “concordati” toccarono punti disciplinari e amministrativi; furono condannate 45 proposizioni di Wyclif, mentre Hus e il suo seguace Gerolamo da Praga vennero mandati al rogo(6).

Solo nel 1420 Martino V poté entrare in Roma: riordinò le miserabili condizioni dello Stato pontificio e, sebbene fosse un buon papa, poco si curò per l’attuazione della riforma e favorì un po’ troppo la sua Famiglia.

VERSO UN NUOVO CONCILIO

Cresceva intanto l’attesa del nuovo Concilio, che doveva celebrarsi 5 anni dopo la conclusione di quello di Costanza, anche se il papa era preoccupato per le teorie conciliariste. In effetti, nell’aprile del 1423 si aprì a Pavia un nuovo Concilio, ma a causa della peste, fu trasferito l’anno seguente a Siena. Scarsamente frequentato, non emanò alcun decreto, salvo l’impegno di indire un concilio a Basilea nel 1431. L’impegno venne mantenuto da Martino V, che vi designò come presidente il cardinale Cesarini.

Basilea (1431)

Pochi giorni dopo, il papa morì. Gli successe il veneziano Eugenio IV (1431-1447).
Il Concilio venne aperto nella cattedrale di Basilea il 23 luglio del 1431, alla presenza di pochi Padri, nessuno dei quali era vescovo. Il papa allora, temendo il predominio dei conciliaristi, decise di sciogliere l’assemblea e di convocare un altro concilio a Bologna per il 1443, soprattutto per facilitare la partecipazione dei Greci che desideravano l’unione con i Latini.

Sennonché a Basilea si era tenuta la prima sessione conciliare, in cui si era fissato un triplice programma:
1) estirpare l’eresia di Hus in Boemia;
2) ristabilire la pace tra i popoli;
3) riformare la Chiesa.

È naturale quindi che i Padri volessero continuare, e lo stesso cardinal Legato pregò il papa di ritirare la sospensione.
Nella II sessione, il Concilio si autodefinì ecumenico e rinnovò i decreti di Costanza circa la superiorità dei Concilio sul papa (febbraio 1432); nella III sessione si arrivò a  intimare, sotto minaccia di processo, a Eugenio IV e ai suoi cardinali di recarsi personalmente a Basilea; nell’autunno l’ordinamento procedurale divenne ancor più democratico, in antitesi con la costituzione gerarchica della Chiesa: il diritto di voto fu esteso a tutti e pro capite. L’esito felice delle trattative con i seguaci di Hus (giunti a Basilea nel 1433), le pressioni esercitate dall’imperatore Sigismondo, le difficoltà politiche nello Stato pontificio spinsero Eugenio IV a riconoscere il Concilio (bolla del 15 dicembre1433).

Fino allora si erano svolte XV sessioni; nella XVI i Padri presero atto che dell’approvazione papale. L’anno seguente il Concilio emanò parecchi decreti di riforma:

- contro i chierici concubinari e contro l’uso indiscriminato delle scomuniche,

- sulla celebrazione devota della santa Messa e sulla recita dell’ufficio divino;

 - sull’abolizione delle tasse per la Curia romana;

- norme per l’elezione del papa e la nomina dei cardinali, che non dovevano superare il numero di 24.

Ferrara (1437-1438)

La questione della sede portò a una rottura aperta tra il papa e il Concilio: la maggioranza voleva restare a Basilea; Roma e la minoranza optò per una città italiana, più gradita ai Greci. Nel 1437, Eugenio IV trasferì il Concilio a Ferrara, ma la maggioranza si ribellò, depose come “eretico” il papa e ne elesse un altro (1439), l’antipapa Felice V, l’ex duca di Savoia Amedeo VIlI. Fu l’ultimo scisma nella storia dei papi e il più grave errore del conciliarismo.

Il Concilio di unione con i Greci si riaprì a Ferrara nel 1438 con il cardinale Cesarini, l’umanista Niccolò Cusano e pochi altri vescovi: venne difesa la legittimità del trasferimento e condannata la ribellione dei basileesi. Arrivarono quindi il papa e poi i Greci.
Alla prima seduta comune, nell’aprile del 1438, erano presenti, con Eugenio IV, oltre 150 fra cardinali e vescovi di parte greca, l’imperatore di Costantinopoli, i patriarchi e i metropoliti e un seguito di 700 persone, tutte ospiti del papa; fra essi il dotto Giovanni Bessarione, futuro cardinale di Santa Romana Chiesa e sincero ecumenista. Le trattative furono molto difficili e solo il timore dell’invasione turca a Costantinopoli impedì lo scioglimento del Concilio.
Gli argomenti controversi vennero così fissati:

1) il procedere dello Spirito Santo;

2) l’aggiunta del Filioque nel Credo;

3) l’uso latino del pane azzimo nella Messa;

4) l’epiclesi;

5) la dottrina dei Purgatorio e

6) il primato del romano pontefice.


Firenze (1439-1442): l’unione tra Greci e Latini

Difficoltà di ordine economico e politico, e il pericolo della peste indussero i Padri conciliari ad accettare l’invito munifico di Cosimo de’ Medici a trasferirsi a Firenze nel 1439.

Si accesero le dispute dogmatiche: per opera soprattutto dei priore generale dei Camaldolesi, Ambrogio Traversari, i Greci accolsero la dottrina sulla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e, più rapidamente, tutti gli altri punti. Dopo lunghe dispute fu accettata anche la dottrina del primato papale.

Il 6 luglio 1439, Eugenio IV promulgava la bolla Laetentur caeli, che sanzionava l’unione fra i Greci e i Latini: era il trionfo del papato romano, sia pure sulla carta.

Per contrapporsi al Concilio di Basilea, che rimaneva adunato con intendimenti anti-papali, e poiché erano in corso altre trattative ecumneniche, il Concilio di Firenze continuò anche dopo la partenza dei Greci. Infatti, si unirono alla Chiesa di Roma anche gli Armeni monofisiti (celebre il decretum pro Armenis del 1439) e poi i Giacobiti di Egitto e di Etiopia (1442). Il  25 aprile 1442 il Concilio emigrò a Roma, in Laterano, dove si completò l’unione con altri gruppi di Caldei (nestoriani) e Maroniti (monoteliti) (1444-1445).

Intanto il conflitto fra il papa e i conciliari di Basilea continuava, nonostante molti tentativi di mediazione. Anzi, nel 1439, oltre a eleggere un antipapa, i basileesi dichiararono come «verità di fede cattolica» che il Concilio ecumenico è superiore al papa e che il papa non lo può sospendere, né sciogliere, né trasferire altrove.

Malgrado ciò, i principi tedeschi e il nuovo imperatore Federico III d’Asburgo riconobbero papa Eugenio IV. Nel 1448 i ribelli si trasferirono a Losanna presso Felice V (morì in fama di santità nel 1451), che l’anno seguente abdicò, ultimo antipapa della storia. Infine i basileesi elessero papa Tommaso Parentucelli da Sarzana, già di per sé regnante col nome di Niccolò V († 1455), che dal 1447 era il legittimo successore di Eugenio IV.

Il punto della situazione

Il Concilio di Costanza fu senza dubbio “ecumenico” nel suo insieme, specie nel suo risultato fondamentale, cioè la ricostruzione dell’unità della Chiesa occidentale, e anche nelle sue decisioni dottrinali e riformiste. Ma non si può dire che sia stato considerato, o che possa considerarsi oggi, ecumenico in tutti i suoi decreti. Sotto il profilo ecclesiologico, le teorie conciliariste non sono mai state accettate dalla Chiesa, e quindi hanno un valore puramente storico e contingente,  atte cioè a risolvere una questione che richiedeva un’immediata soluzione, più pragmaticamente giuridica che dottrinalmente dogmatica.

Il Concilio di Pavia-Siena presenta tutti i crismi giuridici ed ecclesiologici per essere annoverato nella lista dei Concili generali. Ma la scarsa rappresentatività dei Padri e il suo operato non hanno avuto alcuna portata durevole.

Il Concilio di Basilea, fino alla traslazione a Ferrara, è stato accettato da Eugenio IV solo nella misura in cui i suoi decreti non contrastavano i diritti primaziali della Sede apostolica anche in campo disciplinare. Questa accettazione del papa ha convalidato la legittimità e l’ecumenicità di alcuni decreti riformatori (per esempio quello sul celibato ecclesiastico).

Di conseguenza, la vicenda del conciliarismo trovò risposta definitiva al Concilio di Firenze, il 6 luglio1439, con la definizione primaziale della bolla Laetentur caeli, certamente ecumenica, e quindi obbligante sotto il profilo ecclesiologico.

Un certo conciliarismo mitigato (o idea conciliare), postulante la convocazione del Concilio per risolvere le situazioni più gravi della Chiesa, rimarrà ancora e riapparirà con forza nel secolo XVI. La sua radice sta forse nella struttura essenziale della Chiesa stessa, che è monarchica e collegiale insieme. I loro profondi rapporti non sono mai stati chiariti del tutto.

Il Concilio Vaticano II ha detto, per ora, l’ultima parola nella Nota previa (o Proemio) al capitolo III della Lumen gentium, quello dedicato alla costituzione gerarchica della Chiesa e soprattutto all’episcopato.

«Proemio
Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza. Questo santo Sinodo, sull’esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione. Questa dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede. Di più proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa, reggono la casa del Dio vivente».


NOTE

4)  Era costume che all’annuncio che un cardinale fosse stato eletto papa, il popolo si precipitava a saccheggiarne la dimora: per il fatto di essere divenuto papa cambiava domicilio e aveva la possibilità di rifarsi...

5)  San Vincenzo Ferrer nasce nel 1350. in Spagna. da nobile famiglia. Nel 1367 entra tra i domenicani e diventa maestro si teologia. Nel 1398, mentre è ricoverato per una seria malattia, ha una visione: gli appare Cristo tra san Domenico e san Francesco che gli raccomandano di predicare la penitenza. Nei 20 anni successivi a questo episodio, Vincenzo percorre l’Europa occidentale predicando la penitenza dei peccati e la necessità di prepararsi al giudizio finale. Viaggia a dorso di un asino ed è sempre circondato da molti pellegrini. Con la sua predicazione popolate e missionaria, accompagnata da vari prodigi, richiama le folle alla meditazione delle verità eterne e al rinnovamento della vita cristiana. Muore in Francia nel 1419.

6) Jan Hus fu bruciato il 6 luglio 1415 e il suo fedele discepolo Gerolamo fu anche lui mandato al rogo il 30 maggio 1416. Questi era andato al concilio nell’aprile del ’15 per tentare di liberare il suo maestro facendo leva sull’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, confidando nel salvacondotto che questi aveva sottoscritto per Hus, ma che il concilio aveva reso vano dicendo che la materia di fede è superiore alla parola di un imperatore. La loro condanna produsse una ventata di fiero orgoglio boemo e le guerre ussite che ne seguirono.



Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011


lunedì 27 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. IX. A ): DA AVIGNONE A COSTANZA (1314-1415)

Avignone:  Palazzo dei Papi

Come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, sono state molteplici le cause che portarono il papato a trasferirsi ad Avignone. Forse, la principale, dobbiamo riconoscerla nel fatto che l’Italia, e soprattutto Roma, non erano più così sicuri: lotte interne tra le signorie, e a Roma tra le famiglie, e poi la mancanza in Italia di una potenza sufficientemente forte che avesse a cuore l’indipendenza del pontefice, compito che a suo tempo fu svolto sia dai Normanni e un po’ dagli Svevi, sebbene questi ultimi alla fine cercheranno di piegare il papato alla loro volontà, causando la inesorabile messa in crisi dell’istituto imperiale (scomunica di Federico II).

Così ai pontefici non rimase altro che emigrare oltre i confini della penisola, in un primo tempo per porsi al riparo dalla minaccia dell’imperatore Federico II, mettendosi sotto il manto protettivo del re di Francia, e poi per celebrare in un territorio più sicuro, a Lione, quelle assise conciliari che permetteranno loro di intervenire nella difficile situazione che si era ingenerata (in Italia, in Terra Santa, la caduta dell’Impero latino d’Oriente, l’incremento fuori controllo degli istituti religiosi) e poi, con l’acquisto del Contado Venosino (con papa Clemente VI) e inquadramento del medesimo nello stato pontificio, si ebbe la definitiva evoluzione di questa transizione.

Il conflitto con Ludovico il Bavaro

Dopo la morte di Clemente V, il conclave si trascinò per due anni e tre mesi: finalmente fu eletto, a Lione, un cardinale settantenne (Jacques Duèse, nato a Cahors verso il 1245), che era stato cancelliere del re di Napoli. Prese il nome di Giovanni XXII (1316-1334) e il suo fu senza dubbio il pontificato più importante del secolo XIV. Eminente giurista e amministratore avveduto delle finanze, personalmente povero e laborioso, anch’egli succube della politica francese, benché più energico di Clemente V e più prudente di Bonifacio VIII, mancò purtroppo di senso pastorale e si invischiò in una lunga lotta contro il Rex Romanorum Ludovico il Bavaro († 1347). Anzi, i rapporti con l’impero tedesco si inasprirono a tal punto che il papa nel 1324 lanciò la scomunica contro il Bavaro stesso.

Tutti quelli che si consideravano avversari del papato accorsero alla corte dell’imperatore: Michele da Cesena, Ministro generale dei Francescani, in rotta con il papa per la questione della povertà(1); Guglielmo d’Occam, uno dei teologi più influenti del suo tempo ed impugnatore del primato pontificio; Marsilio da Padova che, nel Defensor pacis (1324), attacca il papato nella maniera più violenta. Da questa cerchia di intellettuali uscì quella propaganda che mise in questione tutto l’insegnamento teologico-giuridico del Medioevo, preparando il terreno alla riforma protestante.

A loro volta, i principi tedeschi dichiararono eretico Giovanni XXII; Ludovico si fece incoronare imperatore a Roma, per mano del prefetto laico Sciarra Colonna (1328) e fece eleggere un antipapa, il minorita “spirituale” frate Pietro Rainalducci da Corvaro, guardiano all’Aracoeli, che prese il nome di Niccolò V (2); durò due anni (1328-1330). Giovanni XXII rispose lanciando l’interdetto su tutta la Germania e bandendo una crociata contro l’imperatore.

Dal punto di vista finanziario, lasciò la curia in condizioni floride e le impresse quel carattere di amministrazione centrale efficiente che, oltre a rimanere per secoli, fece scuola presso tutte le curie amministrative dei regni di allora.

Benedetto XII (1334-1342)

Cistercense, cominciò la costruzione del grandioso palazzo papale ad Avignone, segno che per il momento non si pensava a un ritorno a Roma. Benché desideroso di pace e di riforma, non riuscì a far terminare il grave conflitto con la Germania, anche perché i re di Francia e di Napoli avevano interesse a non concludere, per timore di un ritorno del papa a Roma. Questi intrighi sollevarono indignazione tra i vescovi e i principi tedeschi. Nel 1338 essi arrivarono a dichiarare che l’elezione imperiale sarebbe avvenuta senza alcuna conferma o autorizzazione papale. In tal modo, il papa perdeva uno dei suoi fondamentali diritti politici, esercitati nel Medioevo.

Clemente VI (1342 -1352)

Francese di sangue e di politica, abile e dotto, ottimo predicatore, era amante del lusso e nepotista. Nel 1348 acquistò dalla regina Giovanna I di Napoli la città e il territorio di Avignone, che rimase alla Santa Sede fino alla Rivoluzione francese. Naufragati alcuni tentativi di riconciliazione con Ludovico il Bavaro, il papa nel 1346 rinnovò la scomunica, invitando i principi a eleggere un altro imperatore.  La Germania precipitò nel caos politico e religioso: in molte diocesi c’erano due vescovi in lotta fra loro (uno per il papa e l’altro per l’imperatore) e perfino gli Ordini religiosi erano divisi.  Nel 1348-1350 scoppiò la “peste nera” con i fenomeni concomitanti: processioni di flagellanti, persecuzioni di ebrei, dimezzamento della popolazione europea, ecc.

Il ripristino dell’ordine nello Stato Pontificio

Innocenzo VI (1352-1362), fu uomo pacifico e di costumi severi, per la prima volta venne eletto in seguito alla capitolazione elettorale (un documento che tendeva a limitare la pienezza dei poteri papali soprattutto garantendo ai cardinali le loro entrate), la quale però fu soppressa dal nuovo pontefice.  Fu costretto a occuparsi di Roma, caduta in preda all’anarchia per il prolungarsi dell’ “esilio” avignonese: in seguito alla disfatta della nobiltà, assunse il potere Cola di Rienzo (20 maggio 1347), un demagogo fanatico, che infine venne ucciso in una sommossa popolare (1354).
Il papa inviò nello Stato pontificio, come suo Legato, il cardinale Egidio Albornoz († 1367) che, in due spedizioni militari, ripristinò l’ordine e il potere papale con forza e diplomazia, meritandosi il titolo di  “Secondo fondatore dello Stato pontificio”. La raccolta di leggi da lui promulgate (Costituzioni Egidiane) rimase in vigore fino al 1816.

Il papa è a Roma per tre anni

Urbano V (1362-1370), benedettino, zelante della riforma, promotore degli studi, il migliore dei papi avignonesi, beatificato, si vide spianata la via del ritorno a Roma dai successi ottenuti dal card. Albornoz.  Tranne la Francia, tutta la cristianità lamentava l’assenza dei pontefici dalla loro sede naturale; le personalità più eminenti sollecitavano continuamente il “gran ritorno”: l’imperatore Carlo IV si recò ad Avignone (1365);  il Petrarca indirizzò nel 1366 una   commovente a nome della  “vedova Roma” (3);  santa Brigida di Svezia inviava ardenti ammonizioni, deplorando i mali della curia.
Superando le rimostranze della corte di Parigi e dei cardinali francesi, Urbano V nel 1367 si trasferì a Roma, dove ricevette l’omaggio di due imperatori, Carlo IV d’Occidente e Giovanni V Paleologo d’Oriente, venuto a Roma in cerca di aiuto contro i Turchi.  Il sogno di una nuova crociata svanì per la ripresa dei conflitti anglo-francesi (guerra dei cent’anni), mentre la morte dell’Albornoz diede via libera alle forze ribelli e alla potente repubblica di Firenze. Così, dopo tre anni di permanenza in Italia, il papa se ne ritornò ad Avignone.

Ritorno definitivo del papa a Roma (gennaio 1377)

Il nuovo papa, Gregorio XI (1370-1378), giurista e molto energico, si convinse che bisognava governare la cristianità e lo Stato pontificio da Roma. Nel 1376 lanciò la scomunica e l’interdetto su Firenze; mandò in Italia truppe bretoni assoldate che, per la loro «barbarie», si attirarono odio e indignazione da tutti.
A questo punto intervenne, come mediatrice di pace fra le due parti in lotta, una donna di straordinaria fortezza, santa Caterina da Siena (1347-1380), terziaria domenicana e penultima di 25 figli. Con le sue lettere ardenti, con i doni mistici, con una saggezza lungimirante, con un viaggio ad Avignone, ottenne in due anni quello che sopra ogni cosa aveva implorato: il ritorno del papa a Roma. Nell’autunno del 1376, nonostante tutte le pressioni contrarie dell’ambiente francese, Gregorio XI lasciò per sempre Avignone e, nel gennaio del 1377, entrava nella città eterna: sua residenza divenne il Vaticano, e non più il Laterano come nei secoli precedenti.
Ultimo papa francese, dovette opporsi prima di morire al moto ereticale che Wyclif andava suscitando nella Chiesa inglese.

Alcune considerazioni

L’abbandono di Roma significò anzitutto il superamento e l’oblio dell’ideale universale della “Christianitas, che aveva affascinato gli animi dei pontefici fino a Bonifacio VIII.
Come gli Stati puntavano ormai a forme sempre più decise di accentramento assolutistico, così la Chiesa nella sua organizzazione interna perfezionava i suoi apparati e dava più stabile assetto alla burocrazia. La tendenza centralizzatrice consentiva alla curia la collazione dei benefici ecclesiastici, e quindi il controllo sulla gerarchia.  La cura vigile e minuziosa nell’esazione delle tasse e la sollecitudine nel rastrellare ovunque il denaro, procurarono ad Avignone e ai suoi amministratori l’epiteto di “avara Babilonia”. Ma la Chiesa non deve essere un apparato amministrativo né il papa una specie di supremo funzionario.  Avignone non aveva le tombe degli apostoli Pietro e Paolo, mentre il papa è il capo visibile della Chiesa e il successore di Pietro precisamente perché questi fu il primo vescovo di Roma.

Il male vero e proprio non fu il susseguirsi di papi francesi, giacché nulla fa pensare che fossero inferiori ad altri, ma le circostanze che facevano apparire il papato come un’istituzione nazionale di Francia. I soldati inglesi che combattevano contro i francesi cantavano: «Se il papa è francese, Cristo è inglese».

Con il passare del tempo le cose si stabilizzarono, ed è naturale quindi che papi francesi eleggessero cardinali francesi e, come in un circolo vizioso, costoro nominassero uno dei loro.

Dal 1305 al 1376 vi furono 113 cardinali francesi, contro 13 italiani, 5 spagnoli, 2 inglesi, 1 ginevrino e nessun tedesco.


Non si può negare che per posizione geografica Avignone fosse più centrale della stessa Roma rispetto al mondo cattolico di quel tempo; che i papi si sentissero più al sicuro e come a casa propria (almeno per il tempo che precedette l’incrudelirsi della guerra dei Cent’anni): di qui la necessità di costruire un palazzo comodo per ospitare gli uffici, e poi l’acquisto dello stesso territorio avignonese e suo riconoscimento quale appendice dello Stato Pontificio.

Non c’è dubbio che questi papi diedero prova non solo di ottime qualità come amministratori e giuristi, ma anche di doti spirituali e pastorali: alcuni hanno incoraggiato, per esempio, l’apostolato dei missionari in Asia; altri sono stati certamente superiori a pontefici venuti prima o dopo di loro.

Malgrado ciò, il periodo avignonese del papato è passato alla storia come un “esilio”,  anzi, per il ricordo biblico della schiavitù degli Ebrei in Egitto, fu chiamato la “cattività babilonese” della Chiesa. I fatti dimostrarono che solo da Roma il papato poteva svolgere un’azione efficace di tipo universale; lontano da Roma c’era il rischio che si allentasse la forza di coesione intorno al Vicario di Cristo, si arrivasse allo scisma e alla formazione di Chiese nazionali.

Tutto ciò sta a dimostrare che le contingenze storiche hanno un peso enorme sulla vita e sulla struttura stessa della Chiesa; che la sua storia è inevitabilmente soggetta a vicende umane, senza però essere mai privata dell’elemento divino che l’anima e che, quindi, dalla sua storia, anche quella caratterizzata da episodi poco edificanti, si possono trarre insegnamenti perennemente validi.

Con le parole di S. Paolo Apostolo si potrebbe dire: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,27-29).
È questo il mistero con cui Dio opera nella storia della Chiesa e, mi sia lecito dirlo, nella storia di ognuno di noi.

NOTE

1)  Il papa aveva condannato la dottrina dell’assoluta povertà di Cristo riconosciuta fino ad allora da tutti i francescani (sia da quelli della Comunità, sia dagli Spirituali). La condanna fu pubblicata con la costituzione dogmatica Cum inter nonullos del 1322 e tale dottrina fu dichiarata eresia ed eretici sarebbero stati riconosciuti i suoi fautori.

2)  Niccolò V, nato Pietro Rainalducci (Corvaro, XIII secolo – Avignone, 16 ottobre 1333), è stato un religioso e predicatore italiano. Fu antipapa dal 12 maggio 1328 al 25 luglio 1330, durante il pontificato di papa Giovanni XXII (1316–34) ad Avignone. Fu l'ultimo antipapa imperiale, vale a dire, insediato dal Sacro Romano Imperatore. Rainalducci nacque a Corvaro, un antico caposaldo nei pressi di Rieti, nel Lazio. Entrò nell'ordine francescano dopo essersi separato dalla moglie nel 1310, e divenne famoso come predicatore. Fu eletto tramite l'influenza dello scomunicato imperatore, Ludovico IV il Bavaro, da un’assemblea di sacerdoti e laici, e consacrato nella Basilica di San Pietro a Roma, il 12 maggio 1328, dal vescovo di Venezia. Dopo aver passato quattro mesi a Roma, si ritirò con Ludovico IV a Viterbo, ove rimase diversi mesi, partecipò poi all'assedio di Grosseto, e quindi giunse a Pisa, dove veniva sorvegliato dal vicario imperiale. Il 19 febbraio 1329 Niccolò V presiedette una bizzarra cerimonia nel Duomo di Pisa, nella quale un fantoccio di paglia rappresentante Giovanni XXII e abbigliato con le vesti pontificie, venne formalmente condannato, degradato e consegnato al braccio secolare. Niccolò V venne scomunicato da Giovanni XXII nell'aprile 1329, e cercò rifugio presso il conte Bonifacio della Gherardesca di Donoratico, vicino a Piombino. Avendo ottenuto assicurazione di perdono, presentò una confessione dei suoi peccati, prima all'arcivescovo di Pisa, e quindi ad Avignone, il 25 agosto 1330, a Giovanni XXII, che lo assolse. Rimase in onorevole prigionia nel palazzo papale di Avignone fino alla sua morte avvenuta nell'ottobre del 1333.

3) FRANCESCO PETRARCA, Lettere senili, lib. VII, lettera unica, volgarizzata da G. Fracassetti, Firenze 1869, 393: «Ma come puoi (deh perdona, o clementissimo Padre, questo ardito linguaggio!) dormir tranquillo sotto i tetti dorati, in riva al Rodano, mentre il Laterano cade in rovina, e la chiesa che madre è di tutte, scoperchiata del tetto non ha difesa dai venti e dalle pioggie, vacillano le sante case di Pietro e di Paolo, e dove non ha guari sorgeva il tempio sacro agli Apostoli, ora non veggonsi che macerie e rovine, il cui deforme aspetto forzerebbe al pianto anche chi avesse cuor di macigno?».


Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011

domenica 26 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. VIII. C ): TEOLOGI DEGLI ORDINI MENDICANTI

S. Tommaso e s. Bonaventura. Lunetta, chiesa di S. Maria Aracoeli in Roma

Due (scuole) si contendono il primato speculativo dello scenario filosofico e teologico del pensiero medievale: la scuola francescana e la scuola domenicana.

La scuola francescana(15)

Con riferimento a questa scuola si possono distinguere tre fasi:
- con Alessandro di Hales che porrà in essere gli inizi di questa scuola, sviluppata dai suoi discepoli a Parigi e soprattutto da san Bonaventura(16) e dai suoi scolari;
- la generazione più giovane dei “bonaventuriani” e, in posizione critica, Pietro di Giovanni Olivi(17) che a  Firenze, conv. di S. croce dove insegnò, influì non poco sulla corrente degli “spirituali”;
- il gruppo intorno a Giovanni Duns Scoto(18), il più grande teologo inglese (1266-1308) che si distanziò sia dalla concezione agostiniana, sia da quella aristotelica tomistica in quanto tale.

La scuola domenicana

In questa scuola, la corrente aristotelica venne fondata da sant‘Alberto Magno (1206c. - 1280)(19), che ebbe il titolo di doctor universalis perché la sua conoscenza delle fonti era universale; perché scandagliò tutti i campi della filosofia, delle scienze naturali e della teologia; perché universale fu la sua influenza sul mondo accademico. Scrisse commenti a tutti i libri di Aristotele, alle Sentenze di Pietro Lombardo, al De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi Areopagita(20). La sua Summa theologiae rimase incompleta; più famosa la sua Summa de creaturis, comprendente un‘etica sistematica, una dottrina sui sacramenti e una escatologia. Lasciò molte altre opere minori sull‘Eucaristia, la mariologia, ecc. Il suo discepolo Ulrico di Strasburgo († 1277) compose una monumentale summa che è considerata l‘opera più vasta e completa del neoplatonismo tedesco.

San Tommaso d’Aquino (1225-1274)

Il massimo rappresentante della Scolastica è san Tommaso d’Aquino discepolo di Alberto Magno a Parigi e a Colonia. In un‘epoca in cui imperava un pericoloso dualismo tra fede e ragione, teologia e filosofia (le due verità di Averroè, seguito da Sigieri di  Brabante (21),

Tommaso operò la sintesi tra fede e ragione umana. Insegnò due volte a Parigi, poi a Roma e infine a Napoli.  Per provare la razionalità della fede san Tommaso ricorre agli argomenti aristotelici. Evidentemente egli ricorre ad Aristotele non per provare il valore della Rivelazione, ma per rendere comprensibile logicamente e per mostrare la possibilità razionale della libera accettazione di una verità soprannaturale che, per quanto indimostrabile razionalmente, non contrasta con le leggi della ragione, anzi ne è conferma e potenziamento.

In tale contesto Etienne Gilson spiega che san Tommaso aveva ben visto che esistono solo due opzioni metafisiche fondamentali:

«Da una parte c’è Platone che porta alle estreme conseguenze logiche il materialismo e lo scetticismo dei filosofi, i quali dicevano che non esistono altro che corpi e altra conoscenza che la sensazione; i corpi però sono soggetti a incessante mutamento e i sensi si contraddicono continuamente, e quindi così noi non possiamo attingere la verità; è per questo che Socrate rinuncia alla filosofia della natura e si dedica alla filosofia morale, mentre il suo discepolo Platone trasporta nel mondo intellegibile delle idee tutta la realtà e tutta l’intelligibilità delle cose; e da allora in poi tutti i platonici considereranno questo mondo di forme pure come la sorgente di ogni efficacia e di ogni verità. Dalla parte opposta c‘è Aristotele che respinge lo scetticismo implicito nell’opzione platonica e porta alle estreme conseguenze questo rifiuto, pensando che ci sia un elemento di stabilità negli enti sensibili e che i sensi non si ingannano quando giudicano in condizioni normali del loro proprio oggetto; di conseguenza le cose sono necessariamente intelligibili in sé stesse [... ]. Optare a favore della dottrina di Aristotele contro quella di Platone significava per san Tommaso ricostruire la filosofia cristiana su basi diverse da quelle di sant‘Agostino»(22).


La sua vastissima produzione può essere divisa nelle seguenti Parti:

- commenti di natura «filosofica» ai principali scritti aristotelici, superando quelli insufficienti di Averroè e del suo maestro (Alberto Magno);

- commenti «biblici» a molti libri dell‘Antico e del Nuovo Testamento; commenti «teologici» alle opere di Boezio e dello Pseudo-Dionigi;

- grandi sintesi teologiche: commento al Liber sententiarum di Pietro Lombardo; Sumnma contra gentiles e la grande Summa theologiae, composta negli ultimi sette anni di vita e conclusa da Reginaldo di Priverno; pure incompleto il Compendium theologiae;

- Quaestiones disputatae e Quaeationes quodlibetales, specchio delle idee e delle dispute accademiche del tempo;

- opere minori: apologetiche, spirituali, liturgiche (l‘Ufficio per la festa del «Corpus Domini» e la Expositio de Ave Maria»), omiletiche, canonistiche; contro i Saraceni, i Greci e gli Armeni; De ente et essentia, De aeternitate mundi, ecc.

San Tommaso conosceva bene i Padri della Chiesa (famosa è la sua Catena aurea), ma non il greco e l‘ebraico. Per la mancanza dell‘apporto delle scienze ausiliarie, nonostante il suo acume critico, rimase legato a una filologia tecnicamente non perfezionata e al testo sacro tramandato dalla patristica e dalla prima scolastica. Il suo merito sta soprattutto nel campo della teologia speculativa e dell‘eccezionale approfondimento filosofico, che pose il suo genio al servizio della fede. Oggi si tende a rivalutare il suo apporto di vita spirituale, proprio in base alla sua teologia.

L’episodio del 1273 e la morte di san Tommaso (1274)

Un giorno di dicembre 1273, dopo la celebrazione della Messa, san Tommaso chiamò il suo fedelissimo segretario fra Reginaldo da Priverno e gli comunicò la decisione di interrompere ogni lavoro, perché quella mattina durante la Messa aveva capito che quanto aveva scritto nei suoi libri era «tota palea» (un mucchio di paglia). Così rimasero interrotte due delle sue opere più importanti: la Summa theologiae rimase ferma alla Questione 90 della Tertia Pars, e il Compendium theologiae restò sospeso al capitolo 10 del Secondo Libro. Nel gennaio del 1274, su invito di Gregorio X partì alla volta di Lione, dove il papa aveva convocato un concilio ecumenico. Giunto nei pressi di Fossanova, fu colto da grave malore e fu ricoverato sollecitamente nella celebre abbazia cistercense di quella città. Tutte le cure risultarono vane e dopo qualche settimana (il 7 marzo 1274) morì, senza che si fosse saputo comprendere la natura del male che l‘aveva colpito.
Nei suoi contemporanei Tommaso lasciò un ricordo profondo e indelebile, per la finezza e acutezza della sua intelligenza, per la grandezza e originalità del suo genio, per la santità della sua vita.

Tre anni dopo la sua morte, il vescovo di Parigi condannò 21 proposizioni tratte dalle opere di Tommaso per il loro razionalismo e naturalismo. Ma la canonizzazione nel 1323, da parte di Giovanni XXII, cancellò quell’ombra dalla coscienza della Chiesa. Da allora fu, e rimane, il “doctor communis” della cattolicità.

Attualità del pensiero di san Tommaso d’Aquino

Anche se vari secoli ci separano dal tempo in cui san Tommaso elaborò la sua filosofia, questa mantiene una sorprendente attualità.

1) Primo aspetto da mettere in evidenza è il realismo conoscitivo, cioè la certezza che l’intelligenza umana è capace di conoscere la realtà così come è in se stessa, pur senza esaurirne tutta la ricchezza. L’oggettività della conoscenza, punto fermo del pensiero tomista, venne invece negata da quasi tutte le correnti filosofiche dall‘Umanesimo in poi, per cui si interruppe ogni dialogo costruttivo fra la filosofia e la scienza sperimentale, avendo quest‘ultima come presupposto irrinunciabile il realismo conoscitivo.
La separazione fra scienza e filosofia fa sentire oggi tutto il suo peso perché è ormai evidente a tutti che le scienze sperimentali e la tecnica, se lasciate a se stesse, possono recare anche gravi danni all’umanità. Partendo dal realismo conoscitivo è possibile ristabilire il dialogo interrotto e ridare così a ogni forma di sapere la giusta finalità per il progresso integrale dell‘uomo.

2) Un altro aspetto riguarda l’antropologia. Nell‘attuale contesto culturale esiste sovente poca chiarezza sulla vera identità dell‘uomo, da un lato esaltato e quasi divinizzato, dall’altro considerato semplicemente come un organismo più complesso degli altri. Di conseguenza da una parte si tende ad assolutizzarlo, ritenendo che l’uomo dipenda solo dalla sua capacità di autodeterminazione; dall‘altra si finisce per non distinguerlo con chiarezza  dagli animali o addirittura da alcune macchine particolarmente complesse.
Per san Tommaso invece l‘uomo è imago Dei. Come tale è radicalmente dipendente da Dio e, pur essendo dotato di libertà, non può illudersi di stabilire o modificare le leggi della sua natura. Il principio spirituale che lo vivifica gli consente tuttavia di compiere operazioni che trascendono il mondo fisico, elevandolo al di sopra delle altre creature sensibili. Essere spirituale aperto all‘eternità e padrone delle proprie azioni, l’uomo non può mai essere considerato come mezzo, ma sempre e solo come fine.

Roberto Grossatesta (1175-1253) e Ruggero Bacone (1214-1292)

Il contributo inglese alla storia dell’alta scolastica è pari a quello francese, per merito soprattutto di questi due studiosi. Roberto Grossatesta (Robert Greathead, 1175-1253), teologo, filosofo e scienziato, fu cancelliere dell‘università di Oxford, poi vescovo di Lincoln, ove introdusse i Francescani. Si oppose al diffuso aristotelismo in nome del platonismo agostiniano. Elaborò una teoria della luce come prima materia e forma dell‘universo. Propugnò la superiorità della volontà rispetto all’intelletto.
Il tratto assai caratteristico del Grossatesta è l’interesse rivolto ai fenomeni naturali tanto da sostenere la necessità della matematica per poterli studiare (pose il principio che la natura opera nel modo più breve ed ordinato possibile; principio che porterà poi alla formulazione della legge dell’economia dei fenomeni naturali). Tale suo interesse verrà a contrassegnare tutto il pensiero filosofico inglese dopo di lui (empirismo). Autore di opere di logica, metafisica, fisica, cosmologia, astrologia, psicologia e teologia. Conoscitore del greco, tradusse l’Etica nicomachea di Aristotele, vari scritti di Giovanni Damasceno e quelli di Dionigi l‘Areopagita.

Ruggero Bacone  (Roger Bacon, 1214c.-1292) divenne celebre per le indagini enciclopediche nel campo delle scienze positive: matematica, scienze naturali, sociologia.  Entrò nell‘Ordine minorita intorno al 1250, dopo aver insegnato a Parigi dal 1240 al 1247. Il suo nascente empirismo (fu tra i migliori discepoli del Grossatesta) caratterizzò tutta le sue pubblicazioni.
Quando nel 1265 salì al soglio pontificio Clemente IV, suo sostenitore, Bacone si propose di presentare al neo eletto un programma dettagliato di riforma degli studi. In ben diciotto mesi scrisse i suoi lavori filosofici più consistenti ed importanti: l‘Opus majus, l‘Opus minus e l‘Opus tertium, parti di un‘opera enciclopedica destinata ad abbracciare tutto il sapere. Ma il papa morì nel 1269 e tutto il suo piano di riforma rimase lettera morta.
Nel 1277 fu accusato di eresia causa alcune sue tesi astrologiche (accusa di stregoneria, dovuta ai suoi interessi alchemici) e così fu incarcerato. In carcere vi rimase per più di dieci anni; tempo in cui scrisse il suo Compendium studii theologiae, che concluse poco tempo prima di spirare.
L‘opera principale di questo teologo e filosofo è l’Opus majus, dove egli manifesta tutta la sua concezione del sapere: le scienze sono ordinate per costituire una completa giustificazione razionale del cristianesimo (in questo senso concorda con Bonaventura nell’ammettere una reductio artium ad theologiam).  Bacone fu un uomo indipendente e ostinato, intuitivo e critico; non costruì un sistema speculativo, ma lanciò idee stimolanti; inquieto e sempre in viaggio (quando non era in carcere); si fece molti avversari. Rivoluzionaria fu la sua richiesta di introdurre l‘esperimento.

Naturalmente, accanto alle due scuole, francescana e domenicana, operarono altre: la corrente neo-agostinista, sostenuta per lo più da Francescani (Matteo di Acquasparta, † 1302) e in reazione al tomismo; la corrente neo-tomista, appartenente in massima parte ai  Domenicani.

In conclusione

I grandi dotti dell’epoca ebbero uno stile letterario tutto personale e segnano con le loro opere l’apice raggiunto dalla scolastica, sebbene non siano mancati problemi di una certa rilevanza, specialmente nell‘assunzione non abbastanza critica delle opere di Aristotele, che determinerà una certa ambivalenza dimostrata dallo sviluppo di un aristotelismo eterodosso (Sigieri di Brabante) e dai sospetti sulla teologia di san Tommaso, giudicata troppo remissiva nei confronti della filosofia pagana. I contrasti dottrinali che lo coinvolsero e l’acuta critica dì Duns Scoto costrinsero i suoi continuatori ad approfondirne il pensiero genuino. Ma il valore imperituro della sintesi tomistica sarebbe stato compreso solo nei secoli successivi. «Questo luminare solitario non scrisse per i suoi contemporanei, ma il futuro sarebbe stato suo» (E. Gilson).


NOTE


15) Alcuni studiosi sono dell‘avviso che solo impropriamente si possa parlare di “scuola”  a riguardo dei tanti pensatori minoriti del XIII secolo, a causa della singolarità filosofica propria di ciascuno di loro, la quale li ha portati a praticare cammini speculativi personali, autonomi ed indipendenti. Non sono di questo avviso! C‘è una matrice comune che lega i diversi pensatori francescani tra loro e che li identifica in quanto tali: l‘agostinismo. Tale corrente filosofica e teologica perdurerà almeno fino a Giovanni Duns Scoto che la supererà con l‘introduzione di un aristotelismo addolcito e decontaminato dalle sue valenze paganeggianti (averroistiche) e quindi pericolose per la fede.  In effetti l‘agostinismo sarà la matrice di fondo di tutto il pensiero francescano da Alessandro di Hales sino a Duns Scoto e i maestri minoriti si evolveranno all‘interno della spirale platonico-agostiniana riconosciuta come l‘unica in grado di garantire uno sviluppo del pensiero teologico protetto da contaminazioni aristoteliche, giudicate pagane e pericolose.

16) San Bonaventura da Bagnoregio. Nato nel 1221 muore nel 1274, durante i lavori del secondo concilio di Lione. Teologo, dottore della Chiesa. Entrato nell‘Ordine francescano nel 1243, dopo studi di teologia a Parigi, Ministro generale dell‘Ordine nel 1257, si impegnò attivamente nella sua riorganizzazione. Cardinale e vescovo di Albano (1273). Maestro della filosofia cristiana, additò nella fede e nella contemplazione le vie privilegiate della teologia, contrastando l‘aristotelismo che, invece, confidava nella capacità naturale della ragione di conoscere e possedere Dio.

17)  Pietro di Giovanni Olivi (Pierre de Jean Olieu) nasce nel 1248c. e muore nel 1298. Sostenitore dell‘interpretazione rigorista della povertà francescana promossa dagli spirituali. Nel suo pensiero, di ascendenza agostiniana, si individua l‘influsso di Gioacchino da Fiore. Accusato di eresia nel 1282, fu costretto a sottoscrivere proposizioni di censura delle proprie tesi.  Autore di innumerevoli opere teologiche e spirituali, finite tutte sotto il martello inceneritore dell‘inquisizione, dopo la di lui condanna avvenuta ad opera di Giovanni XXII, causa il suo marcato spiritualismo gioachimita e la sua teologia dell‘assoluta povertà di Cristo da cui scaturiva la pratica dell‘usus pauper.

18)  Giovanni Duns Scoto. Nato nel 1266c. muore nel 1308. Filosofo e teologo inglese. Francescano, detto doctor subtilis fu uno dei più acuti pensatori del Medioevo. Dissentì da s. Tommaso nel considerare la possibilità che ha ragione umana di dimostrare le cose di fede. La teologia si basa sulla fede e la filosofia procede per ragionamenti a priori. Affermò che la facoltà fondamentale dell‘essere umano è, non l‘intelletto, ma la volontà, ed estese questa concezione all‘essere divino («Deus est caritas»). Introdusse il concetto di ecceità che rappresenta il principio in base al quale la sostanza universale si particolarizza nei singoli individui. È stato proclamato beato dalla Chiesa nel marzo del 1993.

19) Sant‘Alberto Magno (Alberto di Bollstadt), nasce nel 1206 c. (secondo alcuni, nel 1193) e muore nel 1280. Filosofo, teologo e scienziato tedesco; dottore della Chiesa. Domenicano (1223), fu maestro di teologia a Parigi e a Colonia, dove ebbe come allievo Tommaso d‘Aquino, e vescovo di Ratisbona (1260-62). Fu il primo studioso a redigere una parafrasi completa delle opere di Aristotele in lingua latina. Sostenne, contrariamente ai teologi del suo tempo, l‘autonomia del sapere filosofico e scientifico dalla teologia. Opere: Tractatus de natura boni; Summa de creaturis; Summa theologiae, Commentari al corpus di Dionigi Aeropagita, commenti ad alcuni scritti di Boezio e alle sentenze di Pietro Lombardo.

20) È l‘autore che più concorre a determinare il passaggio dalla filosofia ellenistica e patristica al Medioevo è uno sconosciuto pensatore, che nei suoi scritti si presenta come Dionigi l‘Areopagita ed effettivamente per secoli è stato identificato con quel Dionigi, filosofo greco dell‘Areopago di Atene, che si convertì al cristianesimo a seguito della predicazione di san Paolo agli ateniesi, narrata dal libro negli Atti degli Apostoli (17,34).  Ma lo stile e i contenuti degli scritti di questo Pseudo-Dionigi portano a escludere senz‘altro che egli sia un autore del I secolo d.C.; piuttosto sembra essere un autore del VI secolo, coevo a Giustiniano, chiaramente inquadrabile nella tradizione neoplatonica, che ha inizio nel IV secolo: in particolare, sembra non esservi dubbio che sia Proclo il diretto ispiratore del sistema filosofico-teologico dello Pseudo-Dionigi (Proclo visse tra il 410 e il 485 d.C.), dato che nelle sue opere si rintracciano evidenti derivazioni dalla Teologia platonica, che è appunto un‘opera di Proclo. Le sue opere, autentici bestsellers della teologia mistica del medioevo, hanno ispirato buona parte delle opere teologiche e spirituali; una lettura delle opere dello Pseudo-Dionigi è imprescindibile per una conoscenza critica delle opere dei medievali (specialmente dei maestri minoriti). Il Corpus Dionysiacum è costituito dal De divinis nominibus, De mystica theologia (le due opere fondamentali di più schietta ispirazione neoplatonica, dipendenti soprattutto da Proclo), dal De coelesti hierarchia (ove “hierarchia” indica l’ordine degli angeli determinato dal grado di assimilazione a Dio o deificazione) e la De ecclesiastica hierarchia (l’ordine sacro della Chiesa corrispondente all'ordine angelico). L‘opera dello Pseudo- D. rappresenta nel suo complesso la confluenza di motivi neoplatonici nel corpo della teologia cristiana, sì da esaltarne il carattere mistico-speculativo ed apofatico: egli fa propria la teoria plotiniana di Dio che, per la sua infinità, è al di sopra dell‘essere e di ogni realtà comprensibile nelle categorie della ragione discorsiva.

21)  Sigièri di Brabante (1235c. - 1282c.). Filosofo fiammingo. Commentatore di Aristotele, fu l‘iniziatore dell‘averroismo latino, negando la provvidenza e sostenendo l‘eternità del moto e della materia e la dottrina del monopsichismo (Quastiones in tertium de anima). Tale dottrina afferma l‘esistenza di un unico spirito, o anima, universale, di cui le singole anime individuali sono manifestazione. Solo al primo è riconosciuto l’attributo dell’eternità, mentre lo spirito individuale, essendo all‘interno della limitazione spazio-temporale, è mortale. Per questa linea di pensiero Sigièri di Brabante fu avversato da san Tommaso e censurato dall’autorità ecclesiastica parigina, e finì per moderare in parte le sue teorie nei due trattati: Questiones de anima intellectiva e Questiones super librum de causis.

22)  E. GILSON, Pour quoi saint Thomas a critique saint Augustin, in Archives d'Histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age, 1 (1926-1927) 118.



Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011



sabato 25 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. VIII. B ): LE UNIVERSITÀ EUROPEE

Museo civico di Bologna, altorilievo che raffigura alcuni studenti universitari (an. 1375c.)

Già nel secolo XII si erano formati centri culturali di portata europea, i quali si erano evoluti secondo modalità locali dalla propria origine di centro scolastico connesso ad una collegiata. Col tempo l‘interesse principale degli studiosi e degli studenti si concentrò su Parigi, Oxford e Bologna, anche se prìncipi e papi ne costituirono altri a Napoli, Toledo, Salamanca e Roma. Qui germinarono e si svilupparono quelle strutture che diedero poi vita alle università medievali propriamente dette.

In Francia

A Parigi, docenti e studenti si riunirono insieme, in contrasto con i cittadini e con il vescovo, e ottennero dal re un‘ampia autonomia (1200-1222). La curia romana si riservò il controllo generale sull‘universitas (questo termine appare la prima volta nel 1219)(5). Sorta dalla scuola cattedrale di Notre-Dame e dalla fusione delle comunità dei docenti e degli studenti, l‘università di Parigi venne ben presto costituita in quattro facoltà: teologia, medicina, arti liberali, diritto canonico. Inoltre era divisa in quattro gruppi nazionali: francesi, piccardi, normanni e inglesi. Fin dal 1217 vi si stabilirono i Domenicani e, dal 1219, i Francescani. Dopo lunghe lotte con il cancelliere, il vescovo e i cittadini, l‘università dovette lasciare Parigi e disperdersi nelle città d‘Europa, finché nel 1231 Gregorio IX ristabilì la pace e concesse nuovi privilegi. Nel 1245 Innocenzo IV concesse all‘università un proprio sigillo, cioè la piena esistenza legale. Negli anni  ̳50 una grave crisi oppose il clero secolare al magistero dei Mendicanti: Alessandro IV (nipote di Gregorio IX ed ex Cardinale protettore dei Minori) la risolse in favore degli Ordini.

In Inghilterra

A Oxford in Inghilterra si sviluppò il secondo centro universitario dell‘Occidente. Nacque da numerose fondazioni religiose e da singole scuole; nel 1214 il cardinale legato pontificio appianò i contrasti con la cittadinanza e concesse privilegi all‘università, che fu posta sotto la guida del vescovo di Lincoln. Anche il papa Innocenzo IV difese e allargò le libertà universitarie contro i tentativi del re di limitarle. Diversamente che a Parigi, i Francescani si affermarono facilmente nella facoltà teologica; i gruppi nazionali si ridussero a tre: inglesi, scozzesi e irlandesi.

Comunque, il motivo per cui Oxford divenne la prima università inglese non è ben conosciuto. Di fatto essa non era né sede di cattedrale e nemmeno eccelleva per alcun altro titolo sulle città inglesi del tempo, molte delle quali erano assai più idonee ad accogliere questa importante istituzione. Si potrebbe alla fine pensare che forse il motivo va cercato nel fatto che fosse più conveniente tener lontani dalla capitale i sempre turbolenti studenti, come fece Venezia che li confinò a Padova, o Milano che li confinò a Pavia fino a tempi recenti. D’altronde l’università istituzionalmente era pur sempre una realtà patrocinata dall’autorità sovranazionale della Chiesa e che quindi, causa la sua indipendenza e autonomia ecclesiasticamente protette, non s’inquadrasse del tutto negli schemi politici nazionali, almeno  per i secoli XII e XIII quando la Chiesa raggiunge il suo massimo prestigio temporale

In Italia

A Bologna i professori erano già integrati nella cittadinanza: sorsero allora le «universitates» dei lombardi, dei romani, degli ultramontani. Per i soliti contrasti cittadini, numerosi studenti dovettero emigrare, nonostante diversi statuti papali.  Nel 1224 la Santa Sede ottenne il controllo sull‘università, sottoponendo tutte le sue componenti all’autorità del vescovo locale. Alla metà circa del secolo XIII, le due corporazioni (universitates) dei citramontani (italiani) e degli ultramontani eleggevano il proprio rettore, al quale veniva prestato un giuramento di obbedienza, che incorporava lo studente al centro di studio.

La vita universitaria

Tutte le università avevano in comune la struttura fondamentale che ricordava la loro origine dalle scuole cattedrali. Alla loro testa c’era un cancelliere: a Parigi e a Oxford era un teologo, a Bologna era un giurista.  I suoi poteri erano diversi a seconda dei luoghi; le nazioni acquistarono ampia autonomia, grazie all’importanza del loro rettore; gli ordinamenti e gli statuti erano democratici.
La vita di queste università si svolgeva praticamente in ambiente ecclesiastico, perché quasi tutti gli studenti erano chierici; anche i docenti dovevano appartenere al clero (eccetto che a Bologna). Fra maestri e studenti si formavano gruppi abitanti nel medesimo quartiere.
L‘insegnamento delle arti e della teologia era gratuito (in quanto i religiosi erano sovvenzionati dai propri Ordini di appartenenza che si disponevano a pagare il vitto nel luogo dove essi soggiornavano e studiavano), a pagamento invece quello del diritto e della medicina; più tardi si pretesero contributi dagli studenti e tasse d‘esame; i maestri (teologi e quindi chierici) erano pagati con prebende ecclesiastiche; aiuti simili ricevevano gli studenti esteri. Per l‘alloggio si aprirono conventi, convitti collegi come quello di Roberto di Sorbon, divenuto famoso, per i chierici secolari(6).

LE TRADUZIONI DI ARISTOTELE

Nel campo delle scienze filosofiche e teologiche si impose tra la fine del XII e l‘inizio del secolo XIII la scoperta di un «nuovo» Aristotele(7), quello della metafisica e dei libri di etica. Specie a Toledo e a Napoli, punti d‘incontro fra la civiltà cristiana e quella araba, l‘eredità aristotelica passò alla cultura occidentale attraverso le traduzioni di importanti opere arabe e giudaiche, compiute insieme da studiosi arabi, giudei e latini, talora commentate.
Il  risultato fu una quantità enorme di opere letterarie fino allora sconosciute: versioni siriache, patrimonio neoplatonico, rielaborazione araba della filosofia aristotelica, traduzioni dirette dal greco. Tra gli autori più noti, gli arabi Avicenna(8) e Averroè(9) e gli ebrei Avicebron(10) (sostenitore di un panteismo emanazionista) e Mosè Maimonide(11), assai stimato da san Tommaso.

Grazie alle versioni latine delle opere di Avicenna, Averroè e Maimonide (i quali nei loro sistemi avevano fatto largo uso di Aristotele), e grazie alle traduzioni in latino di alcune opere importanti ma ancora quasi sconosciute dello stesso Aristotele, il pensiero di quest‘ultimo comincia a penetrare anche nel mondo latino e a guadagnarsi le simpatie di molti filosofi cristiani, specie a Oxford e a Parigi.  
La riscoperta di Aristotele segna una svolta decisiva nel pensiero filosofico e teologico degli scolastici, che fino a quel momento nelle loro speculazioni avevano attinto quasi esclusivamente alle opere dei platonici (neoplatonici) per la filosofia, e agli scritti di sant’Agostino e dello Pseudo-Dionigi per la teologia, cosicché il loro pensiero restava ancorato a una problematica marcatamente platonica e agostiniana. Con la migliore conoscenza della metafisica di Aristotele le cose cambiano: il suo influsso si fa sentire ovunque (nelle scienze, nella filosofia e nella teologia) e non risparmia nessuno, neppure coloro che nelle dottrine più importanti di metafisica e antropologia continueranno a mantenersi fedeli allo spirito di Platone e di Agostino.

Mentre a Parigi fu ripetutamente vietato lo studio di Aristotele, a Oxford invece fu accolto senza difficoltà. Senza soppiantare la tradizione agostiniana, la nuova filosofia si pose al servizio della teologia: solo Alberto Magno e Tommaso d’Aquino ripensarono in modo originale Aristotele, utilizzando i commenti arabo-giudaici dopo averli sottoposti a critica acuta.

Le due correnti teologiche dominanti all‘inizio del secolo XIII, quella conservatrice legata alla scuola di Pietro Lombardo(12) e quella progressista di Gilberto Porretano (13) elaborarono innumerevoli sintesi dottrinali, le famose somme teologiche che toccheranno poi  i vertici della scienza.
Ricordiamo solo: Summa aurea, di Guglielmo d‘Auxerre (1215-1220); Summa de bono, del cancelliere di Parigi Filippo; Summa de virtutibus et vitiis, di Guglielmo d‘Alvernia (1227) e, soprattutto, la Summa universae theologiae di Alessandro di Hales (OMin)(14). Intenti apologetici e controversisti ebbero la Summa contra haereticos di Prepositino da Cremona, la Summa adversus Catharos et Valdenses di Moneta da Cremona.


NOTE

5) Con il termine “università” si suole indicare un centro di formazione superiore dove si è preparati ad apprendere “tutto”(in latino universitas, atis vuol dire universalità, totalità) quello che è necessario sapere per praticare una determinata attività. Di per sé questa sarebbe la spiegazione più facile; ce ne sta un’altra ed è relativa agli studenti che frequentavano questi centri di studio. Nel caso, per es. di Bologna, gli studenti erano organizzati in associazioni corporative chiamate appunto “universitates”. Ciascuna di queste associazioni raccoglieva “tutti” gli studenti provenienti da una determinata nazione e così, per sineddoche, si ebbe il trasferimento di tale denominazione al centro di studio in quanto tale.


6) Roberto de Sorbon: cappellano di Luigi IX. Nel 1257 fondò a Parigi una scuola gratuita di teologia a beneficio degli studenti poveri, presto divenuta centro degli studi teologici e sede dell‘università (= la Sorbona).

7)  Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.): filosofo greco, entrò a 17 anni nell’Accademia ad Atene e vi rimase fino alla morte di Platone. Dopo essere stato precettore di Alessandro, tornò ad Atene nel 335 a.C. e vi fondò il Liceo. A partire dalle osservazioni sperimentali ordinate sistematicamente e oggettivamente, Aristotele enuclea quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale) poste alla base del processo della realtà, che si svolge dinamicamente attraverso due tipi di relazione, dalla materia alla forma e dalla potenza all‘atto. In questo modo si dà ragione dell‘evolversi del mondo, garantito però sempre da una causa prima, esterna eterna, motore immobile, Dio. Le opere di Aristotele riguardano quasi tutte le scienze conosciute al suo tempo.

8)  Avicenna (Abu Ali al-Husaym ibn Sina): nasce nel 980 e muore nel 1037. Il più grande pensatore del mondo arabo del secolo XI, autore di un Canone di medicina. L’opera filosofica più importante, costruita come un‘enciclopedia divisa in 4 parti (logica, metafisica, matematica e fisica), è La guarigione (dall‘errore). Da un lato Dio è per Avicenna l’essere necessario in cui coincidono essenza ed esistenza e le cose create sono solo l’essere possibile; dall‘altra Dio è il primo termine di un processo necessario di emanazione che comprende l’intera realtà: ne discende una continuità tra Dio e il mondo tendente a superare ogni distacco.


9) Averroè (Muhammad ibn Rushd): nasce nel 1126 e muore nel 1198. Filosofo e scienziato arabo spagnolo. Suo fine fu quello di riportare la cultura a un atteggiamento positivo nei riguardi della filosofia e della scienza. A questo scopo scrisse La distruzione della Distruzione. Averroè ha della divinità una concezione razionale, intesa come principio di stabilità e continuità da cui la realtà naturale dipende in modo tale da poter essere indagata dalla scienza. Autore del trattato di medicina Colliget e di una parafrasi della Repubblica di Platone.

10) Avicebron (Shelomoh ben Jehudah ibn Gabirol). Nasce nel 1021c. e muore nel 1057c. Poeta e filosofo ebreo ispanico. Scrisse anche opere filosofiche in arabo (Scelta di perle, raccolta di aforismi; Fonte della vita, dialogo in cui espone le teorie neoplatoniche), che ebbero ampia diffusione in occidente e che influenzarono la Scolastica.

11) Mosè Maimònide (Mosheh ben Maimon): nasce nel 1135 e muore nel 1204. Filosofo e medico ebreo spa- gnolo. Fuggito dalla Spagna in seguito alle persecuzioni degli Almohadi, si trasferì al Cairo dove visse fino alla morte. Cercò nelle sue opere di mediare fede e ragione, e di conciliare la Bibbia con la filosofia aristotelica. Scrisse: Luminare, commento alla Mishnah (1168); Ripetizione della legge, codificazione della legge talmudica (1170-80); Guida dei perplessi (1170).

12) Pietro Lombardo nasce nel 1095c. e muore nel 1160. Teologo. Professore all‘università di Parigi, nel1159 fu nominato vescovo della città. Scrisse un‘opera catechetica dottrinale (Libri quatuor sententiarum, 1150c.) che per secoli fu studiata nelle università di teologia medievali e rinascimentali.

13) Gilberto Porretano (Gilbert de la Porrée). Nasce nel 1076 e muore nel 1154. Filosofo e teologo francese. Allievo di san Bernardo; vescovo di Poitiers dal 1142. Introdusse la distinzione tra sussistente (l‘esistente con- creto) e la sussistenza (ciò per cui il sussistente è). Al Concilio di Reims (1148) ritrattò la sua posizione sulla Trinità (nella quale affermava una distinzione tra le Persone e tra le nature divine). Autore di: Commento agli Opuscula sacra di Boezio; Liber sex principiorum.

14)  Alessandro di Hales (Winchcombe, circa 1183 – Parigi, 21 agosto 1245) è stato un francescano, filosofo e teologo inglese. Nato in Inghilterra nell‘attuale Winchcombe, nel Gloucestershire, ricevette una prima formazione nel monastero di Hales e compì poi gli studi a Parigi, dove insegnò per molti anni. Entrò nell‘Ordine minorita nel 1236, così da essere il primo dei filosofi e teologi appartenenti a quest‘Ordine, acquistando un prestigio tale che san Bonaventura ammetterà di essersi generalmente basato sulla sua autorità. L'opera a lui attribuita, la Summa universae theologiae o Summa fratris Alexandri Halensis è in realtà un testo che raccoglie, oltre ai suoi contributi, anche quelli di suoi allievi, Giovanni de Rupella (de La Rochelle), Odo Rigaldi (Rigaud) e Guglielmo di Melitona (Midletown), venendo così a costituire il resoconto del pensiero teologico francescano della metà del XIII secolo, impegnato a contrastare l'aristotelismo platonizzante di Avicenna e il platonismo emanazionista di Avicebron.


Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011