martedì 14 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE.(Cap. IV.A): GREGORIO VII


Gregorio VII

La riforma gregoriana

Nonostante si debba ridimensionare il ruolo avuto da Ildebrando di Soana in quella che venne definita la “riforma gregoriana” (un movimento che coinvolge la vita religiosa dell'Occidente dall’XI al XII secolo), egli rimane pur sempre il maggiore protagonista di quei fatti, che assunsero, suo malgrado, il volto politico della lotta per le investiture nel conflitto con l’imperatore Enrico IV († 1106).

Aspetti generali della riforma

La riforma del clero, sulla linea di un disciplinamento riguardo soprattutto al concubinato, sembra essere un motivo ricorrente nell’azione della gerarchia, fin dai tempi delle riforma carolingia, quando si cercò con la regola canonicale di costringere il clero alla vita comune, limitando al massimo la relazione con donne. Secondo alcuni, l'unico risultato ottenuto sarebbe stato quello della diminuzione di preti coniugati e dell’aumento dei concubini.
Con la riforma Cluniacense si cercò di far passare il modello dell’uomo vergine, come il solo capace di una mediazione efficace nel rapporto con Dio.
Uomini come Arialdo ed Erlembaldo, con i loro seguaci laici, si mostrarono sensibili a queste sollecitazioni, affermando ancor più chiaramente la stretta dipendenza tra il dovere dei chierici all’amministrazione dei sacramenti e la loro condizione di celibi: la castità come nota distintiva dello status clericale, rispetto al quello laicale, era conditio sine qua non per poter entrare nell'ordine dei mediatori della salvezza ed essere nel contempo amministratori affidabili del patrimonio materiale della Chiesa, che non poteva essere impiegato per scopi diversi da quello del servizio ai poveri. La lotta al nicolaismo si legava così, in modo stretto, all'altro aspetto della riforma, che era la simonia (compravendita dei sacramenti), prevalenza dell'interesse materiale su quello spirituale o peggio a danno di quest'ultimo.

Sinodo di Sutri (1046)

All’inizio del movimento di riforma si colloca proprio l’azione di un Imperatore tedesco, Enrico III, venuto a Roma per sottrarre il dominio sul papato alle famiglie romane il quale, per poter mettere un po’ di ordine tra i pretendenti al trono, organizza a Sutri un sinodo, concluso con l’ “auto deposizione” di Gregorio VI, che scopre “solo” durante l’assemblea sinodale il vizio formale della propria elezione, pesantemente segnata da un traffico di denaro, cioè da simonia.

Gli studi sul sinodo di Sutri sembrano subire una svolta definitiva con le ricerche di F.J. Schmale (La deposizione di Gregorio VI a Sutri, in Annuarium Historiae Conciliorum 11 [1979]), che contrastano con i giudizi precedenti (Borrino, Fliche-Martin e Violante), indicando come chiave di volta l'analisi di due fonti fino ad allora ignorate, perché di parte papale, Desiderio di Montecassino e Bonizzone di Sutri, ma che nella struttura generale corrisponderebbero in pieno allo schema dei sinodi medievali.

Secondo ciò che riferiscono gli autori indicati dallo Schmale, i sinodali avrebbero chiesto a Gregorio VI di illustrare le circostanze della sua elezione papale, decisa per liberare il papato dalla figura scomoda dell'immorale Benedetto IX, ed egli avrebbe confessato che per il bene della Chiesa si era proceduto alla raccolta di denaro per allestire l’elezione canonica. Dopo la narrazione dei fatti l’assemblea avrebbe chiesto allo stesso Gregorio di riconoscere come ciò fosse stato un “inganno del diavolo” e di decidere, da sé stesso, la propria colpevolezza e quindi la necessita di giungere alla deposizione, o all'auto deposizione, per essere incorso nella simonia.

A Sutri tra i cappellani di Grogorio VI c’era anche Idelbrando e dopo quei fatti egli avrebbe seguito il presule in Germania, dimorando con lui a Colonia, fino al tempo della sua morte. Al periodo successivo alla morte di Gregorio risale la sua monacazione a Cluny.

Leone IX

Nel gennaio del 1049 Ildebrando incontrò probabilmente Leone IX († 1054) in viaggio verso Roma e si unì a lui divenendo così un membro di quel gruppo di riformatori (Umberto da Silvacandida, Federico di Lorena) che il nuovo papa volle accanto a sé per il rinnovamento della Chiesa.

Sono gli anni in cui il problema della riforma del clero comincia ad essere fortemente sentito e imposto dal centro della cristianità. Oltre al rinnovo del collegio cardinalizio, il nuovo papa iniziò la prassi dei viaggi in tutta Europa, che contribuirono ad allargare il raggio della sua azione di riforma ad un numero sempre più grande di vescovi e abati, che poi si riunivano in Roma per concili generali in cui si deliberavano provvedimenti di riforma.

Una tradizione storiografica favorevole all'iniziativa gregoriana sosterrebbe che Ildebrando, incontrando Leone IX, lo avrebbe rimproverato di aver accettato l’elezione imperiale, violando le norme canoniche, che prevedevano l'elezione in Roma con il consenso di clero e popolo.
Alla morte di Leone IX, la stessa corrente storiografica aggiunge che egli sarebbe stato incaricato, dal clero e dal popolo di Roma, di recarsi in Germania per trattare con Enrico III l’elezione del papa successivo.
Entrambe queste affermazioni sembrano esagerare il ruolo di Idebrando, che in quel tempo non avrebbe ancora avuto un posto di tale preminenza nella curia pontificia. Lo avrebbe assunto però durante il pontificato Stefano IX, che aveva fatto giurare solennemente ai vescovi, ai cardinali e al popolo romano di aspettare il ritorno di Idebrando a Roma, nel caso della sua morte, prima di procedere all’elezione.

Ildebrando tra Stefano IX e Nicolò II

E fu proprio con l’elezione di Federico di Lorena, Stefano IX († 1058) assente Ildebrando, ma desiderato e indicato dallo stesso Federico come prossimo papa, che approfittando della minorità di Enrico, l’elezione papale venne sottratta alla designazione imperiale, iniziando quel processo di emancipazione che troverà due anni dopo, nel decreto di Nicolò II († 1061) la sua piena affermazione.
Nell'aprile del 1050 si tenne infatti nella basilica lateranense un grande sinodo riformatore, il cui decreto più importante riguardava appunto la prassi dell’elezione pontificia: ai cardinali vescovi veniva dato un posto di preminenza nella scelta del candidato, lasciando al re tedesco l'honor e la riverantia. Si sanzionava così, da un punto di vista giuridico, quanto era avvenuto nell’elezione di Nicolò II, in cui aveva dominato la volontà collettiva di un gruppo di notevolissime personalità e che aveva incorniciato nello stesso tempo un intervento di Ildebrando in favore della completa rinuncia ai beni posseduti in proprio, per i chierici che abbracciavano la vita comune(1).
Il sinodo si manteneva su posizioni molto più moderate rispetto a quelle di Idebrando, limitandosi a prescrivere, per il clero, una generica convivenza attorno alla chiesa ricevuta con l'ordinazione, condividendo i beni che gli venivano dal beneficio annesso.

Emerge fin da questo momento la differenza fra le posizioni di Idebrando e quelle degli altri riformatori come Pier Damiani e Umberto da Silvacandida, i quali erano più inclini a sottigliezze teologiche; più pratico, essenziale ed attento agli scopi pastorali il primo.

La controversia eucaristica animata da Berengario di Tours(2), anch’essa trattata nel concilio del 1059, venne lasciata sbrigare ad Umberto da Silvacandida, che compose anche la professione di fede a cui fu sottoposto Berengario, e non sembra in alcun modo che Ildebrando sia intervenuto nella vicenda, deludendo forse le attese che lo Scolastico e i suoi seguaci avevano riposto in lui.

Piuttosto, Ildebrando aveva richiesto da tempo a Pier Damiani una collezione di canoni sulla Chiesa di Roma e i privilegi del suo vescovo nel governo di tutti i fedeli. Per problemi dibattuti da tempo nel gruppo dei riformatori (vita comune del clero, presenza del laicato nella vita ecclesiale, ruolo del monachesimo) e soprattutto quelli che si presentavano con una certa urgenza, come il matrimonio e il concubinato dei preti, la dispersione del patrimonio ecclesiastico e l’usurpazione dell’autorità laica nell’assegnazione delle cariche ecclesiastiche e non ultimi i temi che implicavano questioni teologiche come la validità delle ordinazioni simoniache.
Ildebrando indicava una via di soluzione nella riscoperta del primato romano e di tutte le funzioni ad esso connesse: l’obbedienza alla Chiesa di Roma veniva a costituire in sintesi la pietra di paragone per la vita autenticamente cristiana. Egli mirava ad un processo di rinnovamento più rapido possibile della vita cristiana, i cui canali privilegiati dovevano essere clero e vita monastica (specie quella proposta da nuovi movimenti come i Vallombrosani, che si vedranno attivi contro Pietro Mezzabarba)(3), che perciò andavano riformati per primi, con lo strumento dell’autorità romana, riducendo all’essenziale i termini della questione: o con Roma o contro Roma.

Politica normanna

San Leone IX aveva tentato in tutti i modi di cacciare i Normanni che avevano occupato il meridione italiano scacciandone i bizantini, per sino mettendosi a capo di una spedizione militare che si risolse in clamoroso insuccesso nel 1053. Anzi, il papa stesso cadde prigioniero dei Normanni i quali lo trattennero a Benevento, finché non si fosse disposto a riconoscere il dominio normanno nel meridione, sebbene il trattato riconoscesse che al pontefice la proprietà della città di Benevento.

Ciò comportò che come conseguenza i Normanni costituiranno come una nuova sicurezza per il papato: Ildebrando nel marzo-aprile 1059, dopo l’intronizzazione di Niccolò II, stipulerà  un’alleanza con i Normanni che rovesciava l’indirizzo politico della S. Sede nei confronti dell’Italia meridionale e gettava i presupposti dell’autonomia pontificia nei confronti dei tedeschi: proprio quando questi ultimi rifiutavano la riforma romana, respingendo i legati del pontefice, che intendevano promuovere un concilio per la promulgazione dei decreti, Roberto il Guiscardo si presentava come garante della fedele osservanza del decreto sull’elezione pontificia.

Naturalmente la corte tedesca, in quel momento retta dall’imperatrice Agnese in quanto Enrico IV era ancora minorenne, non stava a guardare e i risultati della sua politica si manifestarono con tutta evidenza già alla morte di Nicolò II, quando, legandosi agli interessi di una parte della popolazione romana, costituita dalla fazione dei simoniaci e dei “nicolaiti”, avversa alla riforma, fece eleggere nel sinodo di Basilea (ottobre 1061) il vescovo di Parma, Cadalo, che assunse il nome di Onorio II († 1072 - antipapa). Allo stesso tempo i cardinali romani, sostenuti militarmente dai Normanni, sceglievano per il soglio pontificio Anselmo da Lucca, che prese il nome di Alessandro II († 1073). Nonostante che Onorio II riuscisse a scendere all’Urbe, Ildebrando organizzò una resistenza armata contro di lui uscendone vincitore.

Alessandro II

Il pontificato di Alessandro II fu una tappa essenziale nel cammino della riforma e in esso il ruolo giocato da Idebrando fu essenziale: la corrispondenza di Pier Damiani era spesso indirizzata al Pontefice e al suo Arcidiacono (Ildebrando).

La debolezza delle forze politiche, che caratterizzava i regni europei di quel tempo, facilitava l'inserimento della Sede Apostolica nelle questioni della chiesa locale e molti episcopati e monasteri, anche coloro che si mostravano gelosi della propria autonomia si rivolgevano a Roma, per risolvere controversie giuridico-amministrative, alle quali erano stati incapaci di dare una soluzione. Roma, da parte sua, approfittava di ogni tipo di strumento che fosse utile per diffondere la sua concezione di riforma.

Si trattava di una lotta senza quartiere a favore del rinnovamento della Chiesa e tutti, ciascuno per la propria parte, dovevano contribuirvi. È in questo contesto che nasce la figura di miles Christi nel senso gregoriano del termine.

A Guglielmo di Normandia che vinse ad Hastings (1066) Aroldo, sostenuto da Stigand, arcivescovo di Canterbury sostenitore dell'antipapa Benedetto IX, si riconobbe una sorta di cavalierato spirituale, inviandogli il Gonfalone di S. Pietro. Lo stesso si sarebbe fatto nei confronti dei Normanni, nella guerra ingaggiata contro i Musulmani in Sicilia, e con i cavalieri francesi, impegnati nella riconquista iberica. Tutto questo andava naturalmente inserito in un contesto più ampio di lotta a favore della fede, ingaggiata contro eretici e infedeli, in varie parti d'Europa; una sorta di “guerra santa”, che urtava contro i principi di un Pier Damiani, il quale avrebbe preferito una maggior oculatezza nella scelta dei mezzi coattivi da parete della Chiesa e che aveva polemizzato, già a suo tempo, per le azioni militari di Leone IX contro i Normanni.

I Vallombrosani e la Pataria

Alcune diatribe tra Ildebrando e Pier Damiani erano dovute soprattutto alle simpatie del primo per alcune concezioni riguardanti il ministero ordinato, provenienti dai nuovi movimenti di monaci e laici impegnati nella riforma dei costumi del clero. Il fine teologo, diversamente dal pastore, era preoccupato per lo sconvolgimento che esse avrebbero potuto procurare alla gerarchia di valori, sostenuta per secoli dalla Chiesa.

I nodi vennero al pettine in seguito al concilio romano del 1067, quando Giovanni Gualberto era intervenuto per chiedere la deposizione di Pietro Mezzabarba, vescovo di Firenze, reo, presunto, di simonia. Si aprì allora una discussione sulla validità dei sacramenti amministrati dagli eretici, condotta sulla linea di uno scritto indirizzato da Pier Damiani ai Fiorentini, in cui accusava i Vallombrosani di una predicazione demagogica rivolta al laicato, definendoli «locuste che divorano i verdi pascoli della Santa Chiesa».

Anni prima, in viaggio per la Germania, Ildebrando, assieme ad Anselmo da Lucca (Alessandro II),  era venuto in contatto con il movimento laicale patarino, attivo a Milano. Erano giunte a Roma, in quel tempo, parecchie lamentele dell’alto clero milanese, che accusava il movimento guidato da Arialdo e Landolfo di violenze contro il vescovo e il clero, perché essi erano contrari sostenitori del matrimonio e del concubinato dei preti.

È da far risalire a questa appassionata esperienza, della vicenda milanese, la considerazione di Ildebrando per la funzione politico-religiosa del laicato, a favore della riforma del clero, sotto il controllo dell’autorità romana.

Quando nel 1067 fu ritrovato il corpo di Arialdo, fatto assassinare dal nipote dell'Arcivescovo, il movimento milanese riprese vigore, promuovendo azioni di forza contro il vescovo Guido e i preti a lui legati.  Dovettero allora intervenire Umberto da Silvacandida e Giovanni Minuto, card. di S. Maria in Trastevere, per porre dei limiti all’azione antigerarchica della Pataria. Nuovo stimolo alla lotta, i capi della pataria l’avrebbero allora ricevuto da Ildebrando, interessato a sottrarre all’influenza della corte tedesca l’elezione del nuovo vescovo della città.

In realtà si tendeva a collocare nella sede milanese un rappresentate della riforma romana, per spezzare così l’asse, nato al tempo dello scisma di Cadalo, tra i vescovi lombardi e la corte tedesca. Si delineava già quella politica di contrasto tra Roma e la visione ecclesiastica di Enrico IV, in cui la sede Milanese avrebbe giocato un ruolo centrale. Furono forse questi fatti di Milano a spingere Alessandro II a scomunicare alcuni collaboratori del re di Germania: vescovi che si erano dimostrati ribelli alle iniziative pontefice e che invitati a Roma, per dimostrare le legittimità della loro ordinazione, non si erano presentati.

Di fatto la politica tedesca della Reichskirche contava già da tempo su un largo ceto di ministeriales, vescovi fedeli all'imperatore, preposti al governo dei beni della corona, la cui investitura era segnata da un sistema che la riforma romana qualificava ormai nettamente come simoniaca. Scomunicare questi ultimi, anche se non era direttamente toccata la figura del re, significava attaccare indirettamente la sua politica.

Gregorio VII,   il Pontificato

L’elezione pontificia e la fase moderata della riforma

Il 21 aprile 1073 morì Alessandro II, il giorno dopo, nella basilica lateranense, mentre si stavano svolgendo i suoi funerali, il popolo acclamò Ildebrando come nuovo papa.  Il card. Ugo il Bianco, dal pulpito, caldeggiò l'elezione dell'arcidiacono, che fu largamente approvata dal clero di Roma, cardinali, vescovi e abati, e si procedette alla sua intronizzazione a S. Pietro in Vincoli. Il nuovo incarico radicò ancora più profondamente nella coscienza di Ildebrando, ora Gregorio VII, la necessità pastorale di una riforma, al servizio della quale egli intendeva mettere a disposizione, da quel momento in poi, tutte le valenze dell’autorità di cui era stato investito.

Annunciare la verità e la giustizia a qualunque costo, come una missione ricevuta da Dio, diventa il suo compito impellente.

Nella prima fase del suo pontificato, egli cercò, con tutti i mezzi, di guadagnarsi tra i vescovi dei collaboratori alla sua causa, convinto che senza di loro egli non avrebbe potuto portare a compimento il suo piano di riforma. A Milano, ad esempio, spia di controllo dei rapporti tra episcopato europeo e riforma romana, mentre si manteneva fermo nella condanna di Goffredo egli non fece alcun cenno alle condizioni degli altri vescovi, limitandosi ad appoggiare l’azione di Erlembaldo nella lotta a favore della libertà della chiesa milanese. Davanti a Matilde e Beatrice di Canossa, che avrebbero voluto misure più drastiche, egli si giustificò confessando apertamente la sua speranza, di poter recuperare, alla causa della riforma, anche quell’episcopato che era ritenuto notoriamente simoniaco.

Con l’idea della Militia Christi e il concetto di “guerra santa”, egli avrebbe voluto risolvere il problema Normanno e l’unione con la chiesa greca. Rivolgendosi a Guglielmo di Borgogna e pregandolo di costituire, assieme a Raimondo di St-Gilles e Amedeo II di Savoia, un esercito, per liberare la Chiesa dai suoi nemici vicini (Roberto il Guiscardo) e lontani, egli pensava all’idea di crociata per la liberazione del S. Sepolcro e alla sconfitta degli infedeli: le buone disposizioni di Michele VII e i temporanei accordi con Enrico IV facevano ben sperare.

Anche il concilio del 1074 si mantenne su una linea morbida, distinguendosi nettamente dai successivi che, al suo confronto, parvero più dei tribunali inquisitoriali ante litteram, che delle assemblee di riforma. In questo primo concilio i decreti emanati si limitavano ad ingiungere una astensione dei concubini dalla celebrazione della messa e l’allontanamento dei simoniaci dal ministero ecclesiastico, «perché coloro che erano stati deputati al ministro ecclesiastico dall'amore di Dio, esposti alla vergogna e all’ammirazione del popolo si pentano e cambino la loro condotta».

Si trattava di provvedimenti disciplinari, lontani dalla questione sacramentale, messa in campo da Umberto da Silvacandida. Più che la soluzione di problemi teologici, come è stato detto, Ildebrando riteneva necessario giungere ad un risultato di natura pastorale. La pubblicazione di questi decreti ebbero scarsa accoglienza tra i vescovi e tra i più tenaci, nel resistere alle ingiunzioni, erano sicuramente i tedeschi. Essi rifiutavano la proposta romana, soprattutto perché non accettavano i connotati di un’autorità pontificia, che limitasse eccessivamente quella vescovile e guardavano con ostilità all'idea di un concilio nazionale, che fosse presieduto dai legati papali e non dai metropoliti; in tutto questo essi erano inoltre sostenuti dal clero minore, che non intendeva sottomettersi alle misure contenute nei decreti di riforma.

I rapporti con Enrico IV erano buoni, fino ad ora, ed Ildebrando si compiaceva di come egli aveva accolto i legati pontifici, invitandolo quindi ad una maggior collaborazione per la riforma e chiedendo, come si e visto, il suo appoggio per la missione in Oriente.

Concilio della Quaresima del 1075

Sentendosi responsabile di fronte a Dio, per il governo della Chiesa, davanti al rifiuto di collaborare oppostogli dall'episcopato, a Gregorio sembrò ad un certo punto non importare più delle prerogative consuetudinarie della gerarchia locale. Per far fronte ai gravi abusi dovuti a concubinato e simonia era necessario combattere con urgenza, preoccupati soltanto di essere ossequienti alla volontà di Dio, incarnata dai provvedimenti assunti dal pontefice di Roma. Problemi di ecclesiologia e di sacramentaria, riguardo alle ordinazioni dei simoniaci, venivano saltati, ancora una volta, in virtù di un urgenza pastorale e i risultati furono evidenti soprattutto nel sinodo romano del 1075.

Naturalmente, per tutta questa fase del processo di riforma, va tenuto conto della dimensione personale di Gregorio, che davanti alla situazione della Chiesa del tempo vive momenti di grande solitudine e tristezza, perché, prigioniero di un ministero altissimo, si sentiva chiamato ad intervenire con dei mezzi drastici, arrivando a sconvolgere profondamente tutto l’assetto politico- istituzionale dell’Occidente.

Il concilio della Quaresima del 1075 ebbe tutti i crismi di un’assise giudiziaria, in cui si comminarono numerose scomuniche contro i vescovi che si rifiutavano di collaborare con la riforma romana e il clero concubinario e simoniaco. Soprattutto si giunse a formulare un decreto contro l’investitura laica, che veniva in qualche modo eguagliata alla simonia. Di conseguenza s’intaccava anche il problema sacramentale, perché lo scomunicato amministrava invalidamente. In ultima analisi allora la validità del sacramento veniva ad essere condizionata dall’obbedienza a Roma, mentre mai prima d’ora il re aveva pensato di far dipendere la validità del sacramento dall’investitura. Si proibiva così ad ogni autorità secolare di dare un vescovado e, sempre sotto pena di scomunica, si proibiva ad ogni metropolita di ordinare i vescovi, che avessero ricevuto in precedenza un vescovado da un laico.

Si pensava così di togliere alla radice quel bubbone che impediva ai vescovi di impegnarsi a livello pastorale in quanto fagocitati da questioni inerenti all’amministrazione del feudo. Di fatto i risultati non furono conformi alle intenzioni. Si colpiva cioè il legame politico tra vescovi e re, impedendo a quest’ultimo di servirsi di collaboratori, caduti sotto la scomunica, con il risultato di indebolire notevolmente quel sistema ottoniano-salico, basato sulla doppia valenza, politica e pastorale, del ministero episcopale, che aveva garantito fino a quel momento la base istituzionale del governo dell’impero tedesco.

Gregorio VII, a parere di Miccoli,

«non riusciva ad impugnare le ragioni di fondo di quell’ambizione (dei vescovi), cioè la ricchezza e la potenza dei vescovadi, ma solo un tramite per arrivarvi, e cioè l’alleanza politica coi re: scatenandosi così contro la violenta opposizione delle autorità secolari, che vedevano così minacciato uno dei loro tradizionali strumenti di governo. Peggio: vedevano addirittura messa in discussione la loro autorità su di una parte considerevole del loro stesso regno. Il problema della riforma, nonostante tutte le illusioni del pontefice, veniva così ancora una volta procrastinato, anzi dirottato verso un falso scopo, dal momento che si lasciavano di fatto inalterate le struttura portanti della chiesa feudale, che stavano alla base degli abusi, che pur Gregorio VII aveva così violentemente denunciato. In questo equivoco, che rivela insieme i limiti teorici e pratici della riforma romana (almeno da Umberto da Silvacandida in poi), sta una delle ragioni principali del tragico fallimento del pontificato di Gregorio e di tutto l’andamento successivamente assunto dalla lotta per la riforma, che per lunghi anni si polarizzerà intorno al durissimo conflitto per le investiture, mettendo in moto tutta una serie di forze estranee in realtà a profonde esigenze religiose... e Gregorio finirà suo malgrado col trovarsi impegnato in una lotta non sua, quella intorno al trono tedesco, che opporrà Enrico IV alle ambizioni autonomistiche dei grandi principi del regno»(4).

Se è vero quanto affermato dal Miccoli, che cioè Gregorio avrebbe sbagliato bersaglio nella sua azione di riforma, adoperando l’arma spirituale della scomunica – che toccava l’elemento sacramentale – per una realtà dai forti connotati politici,  come era l’investitura, è anche vero che l’unione tra realtà ecclesiastica e politica, pur se ambigua, era talmente radicata nel sistema stesso della Christianitas, nella quale aveva dato anche i suoi effetti, sul piano pratico, che non era possibile agire a livello religioso pretendendo di lasciare inalterato quello politico. Senza voler togliere delle responsabilità a Gregorio resta pur vero quanto affermava il Capitani, della situazione generale della Christianitas prima che egli varcasse il soglio pontificio:

«Alla morte del pontefice (Alessandro II), se ancora non s’era aperto il conflitto (tra papato e impero), era perlomeno certo che i termini di esso erano ormai chiari a tutti: esso si sarebbe determinato proprio su quello che per secoli era stato il terreno concettualmente e giuridicamente ambiguo, pur nell’efficacia operativa in seno alla Christianitas altomedioevale e alla società carolingia e post carolingia: la doppia ascendenza, politica ed ecclesiastica, del patrimonio e della funzione episcopale e, più generalmente, clericale in seno a quella società»(5).

Il Dictatus papae

Fatti tutti gli sconti dovuti al clima generale in cui veniva ad operare Gregorio, resta ora da specificare le caratteristiche del suo singolare apporto. Se fino ad anni fa era incerta l’origine di un documento venuto alla luce probabilmente nel periodo di maggiore crisi tra papato e vescovi, all’incirca verso il 1074, dopo l’intervento del Fuhrman al convegno di Salerno del 1985 (La riforma gregoriana, Salerno 20-25 maggio 1985), risulta ormai chiaro che si tratta di un’espressione personalissima dello stesso Gregorio: l’indice di una raccolta di canoni che egli avrebbe commissionato a Pier Damiani, ma che non fu mai realizzata, perché nessun canonista avrebbe mai potuto giustificare, dal punto di vista canonico, le esigenze di Ildebrando, tanto era dirompente, rispetto alla tradizione, ciò che egli si era proposto di fare (si veda la cronaca del convegno in Studi Medievali 26/1 (1985), 485-486).



 Dictatus papae








I           «Quod Romana ecclesia a solo Domino sit fundata.»        Che la Chiesa Romana è stata fondata da Dio e da Dio solo.

II         «Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis.»           Che il Pontefice Romano è l'unico che può essere giustamente chiamato universale.

III        «Quod ille solus possit deponere espiscopus vel reconciliare.»   Che Egli solo può deporre o riammettere i vescovi.

IV        «Quod legatus eius omnibus episcopis presit in concilio etiam inferioris gradus et adversus eos sententiam depositionis possit dare.» Che in qualunque concilio il suo legato, anche se minore in grado, ha autorità superiore a quella dei vescovi, e può emanare sentenza di deposizione contro di loro.

V          «Quod absentes papa possit deponere.»   Che il Papa può deporre gli assenti.

VI        «Quod cum excommunicatis ab illo inter cetera nec in eadem domo debemus manere.»       Che, fra le altre cose, non si possa abitare sotto lo stesso tetto con coloro che egli ha scomunicato.

VII       «Quod illi soli licet pro temporis necessitate novas leges condere, novas plebes congregare, de canonica abatiam facere et e contra, divitem episcopatum dividere et inopes unire.»     Che ad Egli solo è legittimo, secondo i bisogni del momento, fare nuove leggi, riunire nuove congregazioni, fondare abbazie o canoniche; e, dall'altra parte, dividere le diocesi ricche e unire quelle povere.

VIII      «Quod solus possit uti imperialibus insigniis.»      Che Egli solo può usare le insegne imperiali.

IX        «Quod solius pape pedes omnes principes deosculentur.»         Che solo al Papa tutti i principi debbano baciare i piedi.

X          «Quod illius solius nomen in ecclesiis recitetur.»  Che solo il Suo nome sia pronunciato nelle chiese.

XI        «Quod hoc unicum est nomen in mundo.»                        Che il Suo nome sia il medesimo in tutto il mondo.
XII       «Quod illi liceat imperatores deponere.»   Che ad Egli è permesso di deporre gli imperatori.

XIII      «Quod illi liceat de sede ad sedem necessitate cogente episcopos transmutare.»        Che ad Egli è permesso di trasferire i vescovi secondo necessità.

XIV      «Quod de omni ecclesia quocunque voluerit clericum valeat ordinare.»           Che Egli ha il potere di ordinare un sacerdote di qualsiasi chiesa, in qualsiasi territorio.

XV       «Quod ab illo ordinatus alii eclesie preesse potest, sed non militare; et quod ab aliquo episcopo non debet superiorem gradum accipere.»            Che colui che Egli ha ordinato può dirigere un'altra chiesa, ma non può muovergli guerra; inoltre non può ricevere un grado superiore da alcun altro vescovo.

XVI      «Quod nulla synodus absque precepto eius debet generalis vocari.»    Che nessun sinodo sia definito "generale" senza il Suo ordine.

XVII     «Quod nullum capitulum nullusque liber canonicus habeatur absque illius auctoritate.»      Che un testo possa essere dichiarato canonico solamente sotto la Sua autorità.

XVIII   «Quod sententia illius a ullo debeat retractari et ipse omnium solus retractare possit.»         Che una Sua sentenza non possa essere riformata da alcuno; al contrario, Egli può riformare qualsiasi sentenza emanata da altri.

XIX      «Quod a nemine ipse iudicare debeat.»     Che Egli non possa essere giudicato da alcuno.

XX       «Quo nullus audeat condemnare apostolicam sedem apellantem.»       Che nessuno possa condannare chi si è appellato alla Santa Sede.

XXI      «Quod maiores cause cuiscunque ecclesie ad eam referri debeant.»     Che tutte le maiores cause, di qualsiasi chiesa, debbano essere portate davanti a Lui.

XXII     «Quod Romana ecclesia nunquam erravit nec imperpetuum scriptura testante errabit.»      Che la Chiesa Romana non ha mai errato; né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l'eternità.

XXIII   «Quod Romanus pontifex, si canonice fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter efficitur sanctus testante sancto Ennodio Papiensi episcopo ei multis sanctis patribus faventibus, sicut in decretis beati Symachi pape continetur.»     Che il Pontefice Romano eletto canonicamente sia senza dubbio alcuno santificato in virtù dei meriti di San Pietro, secondo quanto detto da sant'Ennodio, vescovo di Pavia, confermato da molti santi padri che lo hanno sostenuto, secondo i decreti di San Simmaco papa.

XXIV    «Quod illius precepto et licentia subiectis liceat accusare.»         Che, dietro Suo comando e col suo consenso, i vassalli abbiano titolo per presentare accuse

XXV     «Quod absque synodali conventu possit episcopus deponere et reconciliare.»            Che Egli possa deporre o reinsediare vescovi senza convocare un sinodo.

XXVI    «Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romane ecclesie.»             Che colui il quale non è in comunione con la Chiesa Romana non sia da considerare cattolico.

XXVII  «Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere.»         Che Egli possa liberare i sudditi dall'obbligo di obbedienza ai principi che hanno imposto il loro potere con la forza.


Si tratta qui naturalmente del Dictatus papae, una collezione di 27 proposizioni riguardanti privilegi, prerogative e funzioni della Chiesa di Roma, circa la deposizione e riconciliazione dei vescovi; l’invio dei legati (anche di grado inferiore a quello episcopale), con facoltà di giudicare e deporre i presuli, in virtù del mandato pontificio; la deposizione dell’imperatore e lo scioglimento dei sudditi dal giuramento di fedeltà; la concessione ai sudditi di muovere accuse contro i superiori se colpevoli. La Chiesa di Roma, perché fondata direttamente da Cristo, avrebbe funzione di modello del vivere cristiano a cui tutti si dovrebbero sottoporre e le sue sentenze godrebbero di  ingiudicabilità, infallibilità e irrevocabilità: «quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romane ecclesie» (XXVI).

Questo, che a parere del Fuhrman non avrebbe avuto rapporti con il passato, ma che non può in ogni caso essere spuntato dal nulla, è dunque da considerare una rilettura personale della storia del primato, in funzione di garantirne un ampio esercizio che sia appannaggio di esigenze pastorali di una Chiesa bisognosa di urgenti interventi di riforma. Gregorio lo avrebbe usato per scopi esclusivamente religiosi, pur essendo incappato in complicati intrighi politici, ereditati dal sistema ecclesiastico carolingio e ottoniano-salico, altri pontefici, come ad esempio un Bonifacio VIII, ne avrebbero fatto uso in termini esclusivamente politici, pur intendendo difendere, nelle strutture giuridiche favorevoli alla Chiesa – immunità, esenzione fiscale, foro –, la sua stessa autonomia di fronte al potere secolare. La lotta per le immunità, oggetto di molti concordati del periodo moderno, continuerà fin dentro le aule dei parlamenti nazionali del XIX, in Italia essa otterrà una delle sue più pesanti sconfitte con la recezione delle leggi Siccardi(6).

La riforma nelle nazioni europee e in Germania

Gregorio si impegnò ad allargare la collaborazione alla riforma in Polonia, dove regnava Boleslao II, in Ungheria, dove si era assicurato l’appoggio di Stefano, nel regno Croato-Dalmata, mandando al re Demetrio il vessillo di S. Pietro; con Guglielmo il Conquistatore venne continuato il rapporto di collaborazione ingaggiato già dai suoi predecessori e anche in Spagna, l’opera dei legati risultò di una certa efficacia. Vennero mandati dei missionari in Norvegia e Svezia. In Italia, oltre alla collaborazione mostrata da Beatrice e Matilde, nei territori toscani, rimaneva incerta la situazione nella parte meridionale, a causa della ribellione del Guiscardo e in quella settentrionale, dove era ancora attivo il movimento anti-gregoriano, legato alle vicende dello scisma di Cadalo. Dove però la riforma incontrava un fronte compatto d’opposizione era la Germania.

Dall’assunzione del potere di Ottone I di Sassonia in poi, si era andato strutturando, specie al di là delle alpi, la figura del vescovo conte, che era imitata solo da alcuni, pochi esempi, al di qua del promontorio alpino; unico caso era forse costituito dall'arcidiocesi di Milano. In questo ambito si scatenò dunque la resistenza contro i provvedimenti gregoriani. Le ostilità cominciarono dopo la vittoria sui Sassoni, da parte di Enrico, mentre Gregorio stava aspettando legati da parte del re, per discutere e chiarire la sua posizione, rispetto alle investiture. Dopo il preannunciato ritardo della legazione imperiale, sembra che Enrico avesse fatto capire al papa di voler trattare pubblicamente la questione della corona imperiale.

Ad Enrico premeva probabilmente assicurarsi l'appoggio papale contro le spinte autonomistiche dei principi, manifestatesi già al tempo della crisi causata dagli scontri con la Sassonia. Gregorio reagì a queste sollecitazioni, irrigidendo la sua posizione. Fu così che Everardo, conte fedele al re, scendeva in Italia, mettendo a Milano come arcivescovo un certo Tedaldo, suddiacono milanese e cappellano del re, e cercando contemporaneamente alleanze con i Normanni - Roberto il Guiscardo.  Enrico, dal canto suo, procedeva all’investitura del vescovadi di Fermo e Spoleto. Alla minaccia di scomunica riferita oralmente al re da parte di Gregorio, seguì un'azione corale dei vescovi tedeschi, che a Worms (24/1/1076), istigati da Ugo il Bianco e convinti che l'attentato del Natale 1075 al papa ad opera di Cencio fosse il segno dell’instabilità della corte pontificia, dichiararono Gregorio VII traditore del re, delatore dei vescovi e decaduto, nominando Enrico patrizio romano; i vescovi Lombardi riuniti a Piacenza seguirono le orme dei loro colleghi tedeschi.

L’inizio della lotta

Diversamente da come pensava l'episcopato tedesco, la posizione del papa non fu scossa da queste prese di posizione, anzi, con la scomunica lanciata da Gregorio nel sinodo quaresimale del 1076, molti vescovi che si erano piegati malvolentieri alle decisioni di Worms si riconciliarono con Roma e domandando perdono accettarono la penitenza; i Sassoni approfittarono della situazione, tutte le tendenze autonomistiche ripresero vigore e i più irriducibili antagonisti della politica enriciana proposero l'elezione di un nuovo re.  Per evitare il precipitare crisi politica e la paventata elezione di un nuovo re, Gregorio accettò dei compromessi: il re licenziò i consiglieri scomunicati e promise obbedienza al papa; il problema delle investiture fu omesso dall’accordo.

Ma la macchina politica era già stata messa in moto ed era difficile ormai arrestarla; Gregorio vi si trovava come avvinghiato. I principi tedeschi si riunirono a Tribur e decisero di convocare una grande assemblea ad Augusta, in cui, sotto la presidenza del papa, si sarebbe dovuto decidere il destino del regno. Spostata la data della sua convocazione, per l’impossibilità di recarsi in Germania da parte di Gregorio, entro il termine stabilito, Enrico cercò di bloccare l’iniziativa papale che avrebbe potuto mettere in pericolo la sua posizione.

Durante l’inverno egli raggiunse il pontefice, che già si era incamminato verso la Germania, presso la dimora di Matilde, a Canossa. Davanti a Ugo di Cluny, Matilde e Adelaide di Savoia e a numerosi cardinali Enrico fu riammesso alla comunione con la Chiesa. La temporanea alleanza tra Gregorio e principi tedeschi, avversi ad Enrico, cominciò a rivelare le sue ambiguità e a Forchheim, le istanze politiche di questi ultimi si rivelarono, in tutta la loro chiarezza, con l’elezione di Rodolfo di Svezia come nuovo re. Gregorio si trovava allora tra due fuochi: da una parte non avrebbe mai potuto approvare le mire esclusivamente politiche dei principi, dall’altra si trovava l’alleanza vescovi-Enrico, che bloccava i suoi propositi di riforma.

«Il conflitto si era complicato di motivi squisitamente politici, configurandosi sempre più come un conflitto tra scelte ed indirizzi che trovavano già su questo piano un’assoluta inconciliabilità. I tre anni che vanno da Canossa alla seconda scomunica contro Enrico rappresentano l’estremo sforzo di Gregorio di sfuggire a questa stretta e al pesante condizionamento che i suoi alleati tedeschi rappresentavano per cercare di scegliere in base a criteri completamente diversi da quelli che animavano la opposizione anti-enriciana, della quale egli del resto già da tempo aveva avvertito le intenzioni e le motivazioni affatto consone alle sue»(7).

Gregorio mantenne per anni la neutralità, rifiutando di riconoscere la legittimità dell’elezione di Rodolfo, ma alla fine nel sinodo del 1080 scomunicò nuovamente Enrico, a motivo del suo rifiuto a partecipare ad un’assemblea di conciliazione con il suo avversario, in cui egli stesso avrebbe dovuto fare da arbitro. Sarebbe stata questa la migliore sanzione alla riforma Gregoriana, che aveva puntato sul primato assoluto della sede romana, come strumento di riforma, e che avrebbe potuto cogliere notevoli vantaggi da un’assemblea che aveva chiamato il papa a fare da arbitro (O. CAPITANI, L’Italia Medievale, 60).

Dal sinodo del 1079 era partita una legazione composta da Pietro Igneo, vescovo di Albano e Uldarico, vescovo di Padova, con l’incarico di organizzare un colloquium fra i due pretendenti al trono e soprattutto di fissare ad Enrico un termine improrogabile. Giunti in Germania essi trovarono una situazione che si volgeva gradualmente a vantaggio di Enrico, che per questo cercava di dilazionare il più possibile i tempi, per ottenere una resa completa del suo avversario, prima di presentarsi davanti a Gregorio. Il papa, che aveva creduto ancora di poter trovare una soluzione alla controversia, per procedere poi alla riforma, o meglio, di poter addirittura trarre vantaggio da una debolezza politica di Enrico, per piegarlo ad una collaborazione nell’estirpare simonia e concubinato dal campo della Chiesa, si trovava a gareggiare con lui su un piano decisamente  politico ed ad essere costretto, alla fine, per non lasciargli un eccessivo vantaggio, a procedere con una scelta politicamente sbagliata e moralmente ingiusta. Con la condanna del 1080, ai danni di Enrico,

«egli indicava sì il fallimento di quella che era stata la sua politica nei confronti del regno tedesco, ma anche, proprio perché così disperatamente impolitica era questa nuova condanna e la conferma di Rodolfo a re, il profondo impegno di giustizia che sempre lo aveva animato. La strada che egli imboccava era ormai la guerra: e in questo impegno, duro e pesante e tragicamente sanguinoso, verranno in gran parte assorbiti i suoi ultimi anni di pontificato»(8).

La guerra

Il re, con il sostegno della maggior parte dell’episcopato, radunò un’assemblea a Magonza, che decise la deposizione di Gregorio e l’elezione di un nuovo papa. A Bressanone egli diede dunque attuazione concreta alle precedenti minacce, dichiarando deposto Gregorio e facendo eleggere al suo posto Guiberto di Ravenna, Clemente III (antipapa).
Morto in battaglia Rodolfo, Enrico puntò dunque su Roma con l’intento di intronizzarvi il nuovo papa. A Roma, dopo che Gregorio aveva rifiutato l’ultima proposta di Enrico (la sua incoronazione in cambio dell’antipapa) e aveva visto passare dalla parte imperiale molti notabili e 13 cardinali, il popolo ed il clero intronizzarono Clemente III, che a Pasqua del 1084 incoronò a sua volta Enrico IV imperatore. Con l'arrivo di Roberto il Guiscardo, in aiuto al papa, lo scontro divenne inevitabile e Roma fu messa a ferro e fuoco, con grande sdegno dei romani, davanti ai quali Gregorio non poteva che fuggire alla volta di Salerno: qui morì, il 25 maggio 1085, pronunciando quelle parole che vennero scritte poi nella sua tomba: «dilexi iustitiam et odio habui iniquitatem, idcirco morior in exilio».

«La Chiesa, l'Impero, l'Europa occidentale tutta, dopo Gregorio VII, pur attraverso revisioni, anche profonde, della politica ecclesiastica del grande pontefice romano che si operarono già dalla sua scomparsa, non tornarono mai più a essere quelle che i suoi stessi immediati predecessori avevano conosciuto e, forse, s’erano perfino illusi di poter mantenere. L'ideale di unità di regnum et sacerdotium, che pur nelle più svariate contraddizioni aveva rappresentato una costante ideologia per il mondo occidentale da Carlo Magno a Enrico III era definitivamente compromessa: clero e laicato avrebbero cominciato ad acquistare una coscienza delle loro differenze assai maggiore di quella che avevano, per secoli, potuto avere»(9).

Verso il Concordato di Worms

La politica flessibile di Urbano II

Alla morte di Gregorio il partito dei riformatori dovette attendere che Enrico e Clemente si allontanassero da Roma, prima di procedere alla designazione del nuovo papa, nella persona dell’abate Desiderio di Montecassino. Perché egli accettasse l’elezione pontificia si dovette attendere quasi un anno (24 maggio 1086) e finalmente, il 9 maggio 1087, si poté procedere all’incoronazione di Vittore III, avvenuta in S. Pietro, grazie anche alla protezione dei Normanni, ma subito si trincerò a Montecassino dove spirerà il 16 ottobre del 1087. Aspirava ad una conciliazione con l’Impero, tentata già durante l’assedio di Roma del 1082, rischiando quasi una scomunica da parte di Gregorio. Non poté giungere a tale scopo causa la brevità del suo pontificato.
Eletto papa Ugo di Ostia, cluniacense, col nome di Urbano II, si cercò di aggirare l’ostacolo del rapporto papato-impero, isolando la realtà tedesca per mezzo di una politica di conciliazione con le altre nazioni europee, nel tentativo di coinvolgerle a favore del partito riformatore-gregoriano. Procedendo in modo accomodante, nell'applicazione dei principi della riforma (lotta alla simonia, concubinato e investitura laica), si concesse il riconoscimento a vescovi investiti da re, validità alle ordinazioni eseguite dall'arcivescovo di Milano, Tedaldo, nei casi in cui non ci fosse stata simonia e infine, validità anche ai sacramenti amministrai dai preti caduti nello scisma.

Urbano II cercò inoltre di sostenere l’azione della riforma mediante un lungo viaggio apostolico, che attraverso la Toscana e la Lombardia lo avrebbe condotto in Francia: nel sinodo di Piacenza del 1095 si rinnovò il giudizio di invalidità per le ordinazioni simoniache e quelle compiute da scismatici; a Clermont si proibì qualsiasi forma di vassallaggio, di un chierico nei confronti di un laico, e si minacciarono di scomunica quei vescovi che avessero sotto di se chierici ordinati da laici; si invitarono tutte le forze d’Europa alla crociata, «pro sola divotione» per la liberazione di Gerusalemme.

«La funzione del papato romano come centro di coordinamento della società cristiana nelle sue motivazioni religiose e ideali e politiche trovava nella proclamazione della crociata una forma di coagulo singolare ed efficace. Era l’inizio di una supremazia, il riconoscimento di una identità sul piano pratico che condannava all’isolamento, anche se non all’immediato successo, Enrico IV e Clemente III»(10).

Pasquale II e la scelta pauperistica

Alla morte di Urbano II (luglio 1099), venne eletto il card. Raniero con il nome di Pasquale II († 1118). Nicolaismo e simonia erano abusi contro cui si lottava sia nell’obbedienza romana sia in quella imperiale di Clemente III. La differenza fra le parti consisteva soltanto in una diversa concezione dell’esercizio del primato, che con Ildebrando sarebbe giunto a livelli “inaccettabili”, non tanto per giudizi espressi in ambito spirituale, ma per la pretesa di agire anche sul piano materiale-temporale, arrivando fino alla deposizione dei sovrani.  I clementisti non avevano comunque alcuna valenza politica e i due protagonisti della discussione intorno al problema delle investiture erano rimasti il papa di Roma e l'Imperatore.

La questione si era risolta “facilmente” in Inghilterra, dove il re si era accontentato dell’omaggio feudale prima della consacrazione episcopale con la relativa rinuncia del re di consegnare il pastorale e l’anello (definitivamente definita nella dieta di Clarendon 1164).  Più o meno lo stesso avvenne in Francia, dove grazie a Ivo di Chartres si era arrivati a distinguere bene tra ufficio pastorale e beni temporali.  Pertanto in re Filippo I († 1108) rinunciava all’investitura con l’anello e il pastorale; per converso voleva ottenere il diritto di permettere e di approvare le elezioni ecclesiastiche e di investire con le temporalità l’eletto, dietro presentazione del giuramento di fedeltà. Un criterio questo che alla fine fu seguito anche altrove. Per la Germania però le cose erano più complicate: i beni assoggettati al controllo dei vescovi tedeschi erano considerevoli e il re non poteva permettersi di perdere il diretto dominio su di essi.

Nel 1110 Enrico V, già in precedenza appoggiato dal papa nella sua lotta contro il padre Enrico IV, incominciò il suo viaggio verso Roma e a Sutri stabilì un accordo segreto con Pasquale II, giungendo ad un compromesso sulla questione delle investiture che prevedeva una novità assoluta: i vescovi avrebbero dovuto rinunciare ai regalia, cioè tutti i benefici temporali concessi in precedenza da re e imperatori, ad eccezione di decime e donazioni private, e il re avrebbe rinunciato ad ogni pretesa di investitura sacra. «L'approdo pauperistico di Sutri si configurava così come l'ideale punto d'arrivo delle dure lotte e dell'impegno di tutti i riformatori» (MICCOLI, La storia religiosa, 513-514).

Non a caso, come ricorda sempre il Miccoli, nella solenne rinuncia alla regalia, Pasquale II aveva ricordato tutti i danni causati alla Chiesa dal compromesso con il secolo. Non era dunque il potere laico ad aver corrotto l’esercizio pastorale dei vescovi e del clero in genere, ma il potere che veniva dalla gestione delle ricchezza. La libertà della Chiesa e la sua riforma si sarebbe ottenuta non con il divieto fatto al re di investire i vescovi,  ma solo togliendo la ricchezza di mano agli ecclesiastici.

In occasione dell’incoronazione imperiale di Enrico V, si fece precedere a tale solenne atto la lettura del compromesso raggiunto a Sutri, il 12 febbraio 1111. Nella chiesa di S. Pietro, scoppiò una rivolta, animata dagli stessi ecclesiastici che non volevano rinunciare a incarichi pubblici su città, ducati, margraviati, telonei ecc., che erano appunto i famosi regalia. Il re, che non voleva rinunciare all’incoronazione, imprigionò papa e cardinali e costrinse Pasquale II a riconoscergli il diritto di investitura con anello e pastorale e ad incoronarlo imperatore riconoscendoli d’altro canto la libera elezione dei prelati (accordo di Ponte Mammolo, 11 aprile 1111). Anche se più tardi i sinodi romani del 1112 e del 1116 tornarono a vietare l’investitura, annullando l’accordo di Ponte Mammolo, non fu lanciata alcuna scomunica contro Enrico V, segno che il compromesso di Sutri non era stato del tutto ripudiato e sarebbe stato rimesso in circolo, sotto altra forma, alla prima occasione opportuna.

Sutri avrebbe allora un duplice significato: da una parte indicherebbe la via alla soluzione del problema delle investiture, nel riconoscimento dell’intangibilità del diritto imperiale sulle regalie (CAPITANI, L'Italia Medievale, 83.85); dall'altra, esso avrebbe segnato la sconfitta «di quella linea di riforma che aspirava a realizzare in termini di povertà una nuova presenza cristiana all'interno della vita sociale» (MICCOLI, La storia religiosa, 516). Se durante il pontificato di Pasquale II non si giunse ad una soluzione del problema delle investiture, era però stato avviato un processo culturale che, attraverso il riconoscimento della distinzione tra ufficio ecclesiastico e beni temporali, avrebbe condotto fino alla soluzione proposta nel concordato di Worms.

Concordato di Worms

Il 23 settembre 1122, Callisto II († 1124) concluse dunque a Worms un accordo con l’Imperatore: prevedeva, in Germania, l’investitura dei regalia non più per mezzo di anello e pastorale ma mediante lo scettro, prima della consacrazione episcopale e, per converso, si riconosceva all’imperatore, e non solo a lui personalmente, ma anche ai suoi successori, il diritto di assistere alle elezioni dei prelati in Germania, purché fosse esclusa la simonia o la coercizione.  I Gregoriani non videro di buon occhio la concessione fatta all’Imperatore di investire per sceptrum; essi, più di ogni altro, erano sensibili all’equivoco che si stava consumando a Worms: era chiaro che quel compromesso doveva riguardare solo una tregua di fatto, non più che una strategia politica contingente, e non doveva essere in alcun modo un punto acquisito a livello del diritto. L'aver distinto “ufficio” e “beneficio”, non bastò ad eliminare i problemi delle relazioni tra sacardotium e regnum o, meglio, imperium e i fatti intervenuti al tempo di Bonifacio VIII e Filippo il Bello, Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII stanno lì a dimostrarlo, il Concordato, nonostante la buona volontà dei contraenti, conteneva notevoli ambiguità, foriere di nuovi scontri.

Ma, sebbene si debba riconosce un parziale successo, la portata relativa di tale traguardo consentì alla Chiesa di porre una pietra miliare alla lotta per le investiture, durata quasi cinquant’anni grazie ad una saggia arrendevolezza e ad una più equa delimitazione delle esigenze da entrambe le parti. Certamente l’impero era riuscito ad affermare buona parte dei suoi diritti. Ma la vincitrice sostanziale nella contesa era stata la Curia: infatti l’investitura da parte dei laici nella sua vecchia forma venne eliminata, le elezioni dei vescovi e degli abati e la facoltà di disporre dei simboli dell’ufficio spirituale furono restituiti alla Chiesa, e la tutela esercitata dal potere temporale su quello spirituale fu infranta. Di una conferma dell’elezione papale da parte dell’imperatore non era naturalmente più il caso di parlare. Lo sviluppo di tutta la situazione conteneva oltre che un grande successo per il papato, le basi per un aumento ancora più rilevante della sua potenza.

Per l’approvazione e la proclamazione solenne del concordato di Worms, Callisto II nel 1123 celebrò un importante concilio in Laterano, il nono concilio ecumenico, il primo celebrato in Occidente; la convocazione e la direzione dello stesso, a differenza dei concili dell’antichità cristiana, spettò ora naturalmente solo al papa. Nel concilio fu inoltre emanata una serie di canoni disciplinari, che per lo più richiamavano disposizioni precedenti, allo scopo di eliminare vari disordini e abusi nella Chiesa.

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CONCORDATO DI WORMS (1122)







CONCORDATO passato a Worms entre le Pape Callixte II et l'empereur Henri V s.l.d.  [Worms, 23 septembre 1122]


PRIVILEGIO DELL 'IMPERATORE.

«In nome della santa ed indivisibile Trinità. lo, Enrico, per grazia di Dio augusto imperatore dei Romani, per amore di Dio e della Santa Chiesa Romana e del nostro papa Callisto e per la guarigione della mia anima, cedo a Dio e ai suoi santi apostoli Pietro e Paolo e alla Santa Chiesa Cattolica ogni investitura con anello e pastorale, e concedo che in tutte le chiese esistenti nel mio regno e nel mio impero vi siano elezioni canoniche e libere consacrazioni. Restituisco alla medesima Santa Chiesa Romana i possedimenti e le regalie del beato Pietro, che le furono tolti dall'inizio di questa controversia fino ad oggi, sia ai tempi di mio padre sia ai miei, e che io posseggo; darò fedelmente il mio aiuto perché vengano restituiti quelli che non ho. Ugualmente renderò, secondo il consiglio dei principi e secondo giustizia, i possedimenti di tutte le altre chiese e dei principi e degli altri chierici o laici, perduti in questa guerra, e che sono in mia mano; per quelli che non lo sono, darò fedelmente il mio aiuto, si che vengano restituiti. Ed assicuro una sincera pace al nostro papa Callisto e alla Santa Chiesa Romana e a tutti coloro che sono o son stati dalla sua parte. Fedelmente darò il mio aiuto quando la Santa Chiesa Romana me lo chiederà, e le renderò debita giustizia se mi farà lagnanza. Tutto ciò è stato redatto col consenso e il consiglio dei principi di cui seguono i nomi: Adalberto, arcivescovo di Magonza, F. arcivescovo di Colonia, H. vescovo di Ratisbona, O. vescovo di Bamberga, B. vescovo di Spira, H. di Augusta, G. di Utrecht, 0. di Costanza, E. abate di Fulda, Enrico duca, Federico duca, S. duca, Pertolfo duca, Teipoldo margravio, Engelberto margravio, Gotifredo conte Palatino, Ottone conte Palatino, Berengario conte Palatino. lo, Federico, arcivescovo di Colonia, e gran cancelliere, ho riveduto ciò»


PRIVILEGIO DEL PONTEFICE.

«lo, Callisto vescovo, servo dei servi di Dio, concedo a te, diletto figlio Enrico, per grazia di Dio augusto imperatore dei Romani, che abbian luogo alla tua presenza, senza simonia e senza alcuna violenza, le elezioni dei vescovi e degli abati di Germania che spettino al regno; si che se sorga qualche ragione di discordia tra le parti, secondo il consiglio e il parere del metropolita e dei comprovinciali tu dia consenso ed aiuto alla parte più sana. L'eletto riceva da te le regalie per mezzo dello scettro e per esse eseguisca secondo giustizia i suoi doveri verso di te. Colui che è consacrato nelle altre regioni dell'Impero invece riceva da te le regalie entro sei mesi, per mezzo dello scettro, e per esse eseguisca secondo giustizia i suoi doveri verso di te, salve restando tutte le prerogative riconosciute alla Chiesa Romana. Secondo il dovere del mio ufficio, ti darò aiuto in ciò di cui tu mi farai lagnanza e in cui mi chiederai soccorso. Assicuro una pace sincera, a te e a tutti coloro che sono o sono stati del tuo partito durante questa discordia.»



NOTE

1)  Ildebrando interveniva condannando così indirettamente la regola di Aquisgrana dell’816, che si esprimeva in modo contrario. È significativo inoltre che egli criticasse la regola di Aquisgrana, non solo per il contenuto, ma anche perché le sue disposizioni erano state frutto della volontà di un laico - l'Imperatore Ludovico -, che aveva osato legiferare in materia ecclesiastica

2)  Riportando le nozioni aristoteliche di sostanza e accidente, Berengario afferma che se una sostanza scompare, scompaiono anche le sue proprietà, che sono intrinsecamente legate ad essa: se nell'Eucaristia la sostanza del pane e del vino scomparisse, dovrebbero scomparire le proprietà accidentali, come il sapore, l’odore, il colore, ecc; dal momento che questo non avviene, le sostanze del pane e del vino devono continuano a sussistere durante la consacrazione. Per Berengario il pane e il vino sono soltanto un simbolo di realtà spirituali, un signum sacrum, un sacramento nel senso agostiniano, ossia un segno visibile che ci permette di afferrare, al di là dell'apparenza sensibile, l'idea della Passione di Cristo. Ma Cristo è morto, nella carne, una volta sola e dopo la Resurrezione il suo corpo è incorruttibile e non può dunque soffrire ancora: «Il pane e il vino vengono chiamati carne e sangue di Cristo perché, in memoria della sua crocefissione, si celebra il suo sacrificio».

3) Pietro Mezzabarba (Pavia, ... – Firenze, post 1071) fu vescovo di Firenze tra il 1062 circa al 1068. I Mezzabarba erano una famiglia nobile di Pavia, città di origine anche di Pietro. Divenne vescovo simoniacamente, pagando profumatamente il collegio elettore. Fu strenuamente attaccato dal monachesimo cittadino e da una parte dei fedeli. La sua deposizione avvenne grazie all’impegno e alla lotta di San Giovanni Gualberto († 1073) e dei monaci appartenenti all’ordine da lui fondato, i Vallombrosani. Il Mezzabarba fu comunque appoggiato dal braccio secolare, mentre San Giovanni fece partire la sua crociata dalla chiesa di San Salvi, dove esisteva un monastero in aperta campagna, a una mezz’ora di cammino dalle mura. Più volte il Vescovo minacciò di far fare una strage nel convento che si ergeva come una spina nel fianco del suo controllo cittadino e infine le fazioni si incontrarono nei pressi della Badia a Settimo, dove successe un fatto miracoloso. Il monaco vallombrosano, Pietro Aldobrandeschi (San Pietro Igneo), si sottopose alla prova del fuoco per dimostrare la santità delle ragioni del loro partito, uscendone indenne e venendo da allora soprannominato Pietro Igneo. Il Mezzabarba venne così deposto e San Giovanni Gualberto iniziò la sua opera di rifondazione spirituale della città contro la simonia. L'ex-vescovo mutò le sue convinzioni ed arrivò a chiedere asilo ai Vallombrosani, da lui così aspramente perseguitati in passato, i quali lo accolsero come monaco.

4) G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia 2, 501-502; giudizio ampiamente condiviso da O. CAPITANI, L’Italia medievale, 54.

5) O. CAPITANI, L'italia medievale, 46

6)  Sono note come leggi Siccardi le leggi separatiste n. 1013 del 9 aprile 1850 e n. 1037 del 5 giugno 1850 dell’allora Regno di Sardegna, che abolirono i privilegi goduti fino allora dal clero cattolico, allineando la legislazione piemontese a quella degli altri stati europei. Esse sono le leggi più note del quadro legislativo in materia ecclesiastica che fu impostato in Piemonte fra il 1848 e il 1861 e successivamente esteso e ampliato al Regno d'Italia. Diversamente dalle leggi Siccardi le altre iniziative di legge ebbero un netto carattere neo-giurisdizionalista. Fra queste le più importanti furono la cosiddetta legge Rattazzi n. 878 del 29 maggio 1855 e le leggi eversive (soppressione degli istituti religiosi) n. 3036 del 7 luglio 1866 e n. 3848 del 15 agosto 1867.

7)  MICCOLI, BBSS, 345-346

8)  MICCOLI, BBSS, 349

9)  CAPITANI, L'Italia Medievale, 62

10)  CAPITANI, L'Italia Medievale, 70


Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011



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