sabato 11 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. II.B.): INCORONAZIONE DI CARLO MAGNO

Il catino del Triclinium leoninum, che era l’abside del grande refettorio per i banchetti di stato del palazzo papale al Laterano. L’antico palazzo è andato poi distrutto durante la cattività avignonese, di esso son “sopravvissute” solo poche cose tra cui il catino dell’abside del refettorio papale.

Alla morte di Adriano I,  l'elezione di Leone III si era dimostrata come una vittoria del clero romano sulla fazione dei nobili. L'elemento "clericale" doveva aspettarsi dunque una reazione politica da parte dei capi della Città e fu forse per questo, cosciente della propria debolezza istituzionale, che Leone III si affrettò ad inviare a Carlo Magno le chiavi della confessio di S. Pietro e le insegne della Città. Forse soltanto un riconoscimento onorifico - pari a quello dei monaci di Gerusalemme, verso lo stesso Carlo (Déer) -, o una vera e propria attribuzione di poteri sulla città, con il conseguente onere della difesa nei confronti del papa, di fatto, le condizioni in cui il clero romano era venuto a trovarsi in seguito alla scelta di Leone III, postulavano il soccorso di una autorità politica, che riempisse un vuoto di potere che, né la nobiltà romana, scartata con il gesto stesso dell'elezione, né l'Impero di Bisanzio, ormai latitante, potevano più colmare. Alle richieste di aiuto di Leone III, vittima di vessazioni compiute dai nobili romani, Carlo, impegnato nella guerra contro i Sassoni, rispose con un invito a Paderborn.

Trovatosi davanti non solo il papa ma anche la nobiltà romana, che aveva di che accusare il pontefice per i suoi passati, Carlo riconobbe di non aver potere giuridico per dirimere la questione, perché solo all'Imperatore spettava il diritto di erigersi a giudice in simili casi, mentre egli godeva del solo titolo di patricius.
Ma a Costantinopoli la sede imperiale era considerata vacante, perché ci si era insediata una donna, Irene, ritenuta incapace, appunto perché donna, di esercitare i poteri imperiali e quindi anche quello di giudizio, in una controversia in cui era implicata la massima autorità del patriarcato romano. Si può parlare di tutto ciò come di preamboli all'incoronazione di Carlo, perché tutti questi particolari sembrano quasi costituire la cornice remota degli avvenimenti romani del Natale dell'800.  E se il concilio di Francoforte - da ascrivere ai preamboli all'incoronazione, come ricordato sopra - aveva contribuito ad interrompere quel filo di congiunzione con l'Oriente, che papa Adriano avrebbe voluto mantenere, magari soltanto per riavere sotto il suo controllo i territori sottratti dall'Imperatore iconoclasta Leone III, con questo episodio, in cui si ricorre a Carlo, come ad autorità più prossima a svolgere il ruolo imperiale, l'Oriente si allontana ancora di più dall'Occidente.

A Padernborn Carlo decide che la cosa andava risolta a Roma e compare allora una poesia in cui il re dei Franchi viene chiamato Augustus, titolo tipicamente imperiale, con valenze a carattere sia politico sia giuridico. Le referenze ad Acquisgrana - presenti sempre nella poesia ricordata sopra -, come capitale dell'Impero, a cui Carlomagno voleva dare i connotati di una seconda Roma, con la Cattedrale che riprendeva la pianta di S. Vitale a Ravenna, completano il quadro ideologico di questa partenza ideale verso l'Urbs.

Giunto a Roma, lo accolse un cerimoniale, voluto probabilmente da Leone III, del tutto simile, o forse superiore, a quello riservato agli imperatori di Bisanzio. Si aspettava il Papa la sola liberazione dalle fazioni della nobiltà romana, o intendeva offrire i presupposti per una translatio imperii, sostituendo l'imperatore bizantino con Carlo?  Le realtà di questo soggiorno romano di Carlo e della sua incoronazione appaiono piuttosto confuse e contraddittorie, nelle stesse fonti. Gli interrogativi che rimangono aperti, dopo un primo confronto, possono essere così riassunti:  1) chi fu l'artefice principale dell'incoronazione? Quale il significato del gesto? Quali furono le modalità di esecuzione? Quale coscienza ne ebbe Carlo, prima, durante e negli anni successivi a quei fatti?

Il Liber pontificalis (vita di Leone III composta immediatamente dopo la sua morte o forse, in parte, anche durante i suoi ultimi anni di vita) e gli Annales Regni Francorum (una narrazione quasi contemporanea ai fatti), due fonti quasi analoghe nella descrizione degli avvenimenti, non contribuiscono a rispondere agli interrogativi posti in precedenza. Il Liber Pontificalis, in particolare, sembra motivare l'acclamazione del popolo romano, come atto di riconoscenza al sovrano franco, che si era impegnato a difendere la Chiesa romana. Questa versione di fatti viene confermata anche dai Gesta episcoporum Neapolitanorum.

Rimangono due fonti - oltre gli annali Maximiani, che accennano di passaggio all'ignoranza di Carlo rispetto all'incoronazione - che sembrano essere le più interessanti, proprio perché risultano discordi sul fatto che Carlo fosse a conoscenza o meno del gesto pontificio dell'incoronazione.

Gli Annales Laureshamenses, considerati in passato con scetticismo, redatti l'anno successivo all'incoronazione, descrivono i fatti riguardanti il sinodo romano, dove Carlo avrebbe dovuto far chiarezza sulle accuse contro Leone III, e attribuisce ai partecipanti all’assise sinodale la decisione di chiedere a Carlo di accettare l'incoronazione e il titolo di Imperatore, che gli avrebbe dato diritto di mettere ordine nella Città.

Nella Vita Caroli di Eginardo, stretto collaboratore di Carlo, scritta tra gli anni 830-833, si affermerebbe il contrario; e cioè che Carlo sarebbe venuto a Roma per mettere un po' d'ordine e che si trovò ad essere incoronato Imperatore, contro la sua volontà.

La soluzione più sbrigativa potrebbe essere quella di vedere nelle affermazioni di Eginardo un topos letterario: l'attribuzione a Carlo del modello di “sovrano virtuoso”, che sempre rifiuta le cariche onorifiche, come accadeva per le narrazioni delle elezioni pontificie del Liber Pontificalis. Approfondendo il livello di analisi, bisogna rilevare subito lo scarto cronologico fra le due fonti, evidenziando il contesto di lotta con Bisanzio, della redazione della Vita Caroli e le difficoltà politico-diplomatiche, sorte in seguito a quel titolo. Molto più chiarificante, però, sembra una lettura che tenga conto della ideologia pontificia, riguardante la concezione del potere imperiale.

I Franchi affermarono sempre che Carlo, con il titolo di Imperatore non aggiungeva nulla al suo potere politico, mentre a Roma si tendeva a leggere come costitutivo dell'autorità imperiale l'incoronazione pontificia, e così fu nel periodo di decadenza dei carolingi.
Il gesto del Natale dell'Ottocento segnò dunque l'inizio di una duplice interpretazione: papale e pontificia.
A Carlo, che stava perseguendo l'ideologia germanica di Acquisgrana come seconda Roma e che stava disputando con l'Oriente per il diritto di cittadinanza come Imperatore, risultava forse scomodo il modo con cui si era lasciato incoronare da Leone III.
Eginardo, infatti, afferma che egli aveva accettato di buon grado il titolo di Augusto, già comparso nella canzone di Paderborn, «ma, e sono parole del biografo, era tanto contrario all'incoronazione (sarebbe forse più corretto precisare, dicendo: “a quella modalità di essere incoronato”) che non sarebbe mai entrato nella basilica, quel giorno di Natale, se avesse realmente conosciuto le intenzioni del papa sul suo conto».
Il tentativo di apologia del potere imperiale, autonomo da Roma, messo in atto da Eginardo, sarà ancora più chiaro in seguito, quando, dopo la Ordinatio Imperii(1), il potere politico dell'imperatore comincerà ad accusare i primi colpi e si sarà costretti a ricorrere all'incoronazione papale, per un surplus di autorità.

In ogni caso l'incoronazione di Carlo determinò la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Quella che finiva era l'età iniziata con il Trullano I e le sue tendenze alla grecizzazione, che avevano messo in allarme la Chiesa occidentale; che proseguiva con il conflitto nato al tempo di Gregorio II, per la questione delle tasse imposte ai territori italiani e alla Chiesa romana; che giungeva al suo culmine con la persecuzione iconoclasta e la separazione della Grecia e della Penisola balcanica ad opera di Leone III Isaurico;  e si concludeva con l'alleanza nata tra Roma e Franchi, che a Carisiacum aveva prodotto la base territoriale per la nascita dello Stato pontificio.
Con Carlo Magno l'Occidente aveva il suo imperatore, pari all’Oriente, e da questo momento in poi la cristianità occidentale avrebbe avuto due vertici: quello papale e quello imperiale. L'incoronazione di Carlo segnava in qualche modo la nascita del “Sacro romano impero” e, se si vuole, il ripristino ideale dell'Impero Romano d’Occidente, tramontato nel 476. Con la proskynesis (prostrazione) del papa al nuovo imperatore, Carlo sarebbe stato ritenuto da quel momento il sovrano di Roma e allora anche la curia papale avrebbe cambiato la datazione e l'effige delle monete, tenendo conto di questo avvenimento. Adriano I aveva datato i documenti a partire dal suo pontificato, Leone III li daterà con gli anni del nuovo impero d’Occidente.

Stabilire quale fosse effettivamente la natura di questa nuova dignità imperiale, rimase un compito affidato al periodo successivo.
Il titolo impiegato da Carlo - Carolus, serenissimusaugustus, a Deo coronatus magnus et pacificus imperator, romanum gubernans imperium, qui et per misericordiam Dei rex Francorum et Longobardorum - affermava che la dignità imperiale non comportava di per sé un aumento di potere politico, che rimaneva pari a quello che Carlo deteneva già come re dei Franchi. La distinzione tra potestas regalis e imperialis, non era allora da ricercarsi sul piano politico territoriale, ma su quello simbolico-ideologico della dignitas. In effetti, Carlomagno, grazie al nuovo titolo riuscì a consolidare i legami tra le diverse parti del suo regno.

La seconda realtà che nasceva dall'assunzione della dignità imperiale era quella del confronto con l'Oriente. Solo nell’812, dopo le vittorie sull’esercito di Michele I, a Carlo fu riconosciuto dall'Oriente il titolo di Basileus e nelle relazioni con l’Oriente da allora in poi egli si rivolgerà all'Imperatore chiamandolo fratello.

In sintesi, Carlo Magno si sentiva, come imperatore, allo stesso livello della corte di Costantinopoli, in una posizione privilegiata, rispetto agli altri sovrani europei, difensore dei diritti della Chiesa, sia contro nemici interni, sia contro quelli esterni, detentore di un titolo che in patria gli fruttava una più solida unità politico-religiosa, fungendo da cemento fra i popoli che la componevano.

La disgregazione dell'Impero carolingio e l'ascesa dell'ideologia imperiale pontificia

Prima di morire, nell’814, Carlo Magno, convinto ormai che la sua operazione ideologica fosse giunta a piena maturazione, tanto da poter fare a meno del suo referente concreto, il papato di Roma, incoronò, lui stesso, il figlio Ludovico il Pio, intendendo mettere così le basi ad un potere imperiale autonomo, di connotazione prettamente francofona: l'impero acquisgranense. Spingendosi ancora oltre, Ludovico il Pio sopprimerà dal titolo imperiale il “romanum gubernans imperium” limitandosi ad un semplice “Imperator augustus Pius” e sostituirà il concetto di renovatio Imperii Romani con quello di renovatio Regni Francorum. Nell’817, ripetendo ciò che aveva fatto il padre, egli incoronerà suo figlio Lotario, escludendo ancora una volta l’apporto pontificio e romano.

Sia Ludovico il Pio, sia Lotario non rifiutarono l’incoronazione papale ad opera, rispettivamente, di Stefano IV, nell’817, e di Pasquale I, nell’823, ma si trattava di un'operazione che aveva perso totalmente il suo significato politico, conservando, forse, un certo alone mistico-sacrale o poco più. Le cose però erano destinate a cambiare e l’ideologia papale, come già affermato, era destinata a riprendersi la rivincita. Già al tempo di Ludovico il Pio erano iniziate le lotte tra i vari figli, che secondo la tradizione merovingica prima e franca poi avevano diritto a dividersi il regno in parti uguali.
Nell’817 Ludovico aveva promulgato l’Ordinatio Imperii, con cui stabiliva che Lotario I, come imperatore, avrebbe avuto la preminenza sugli altri fratelli: il titolo imperiale mutava valore, in funzione di un mantenimento dell'unità territoriale. I fratelli mal accettarono di rimanere soggetti a Lotario, e le gelosie aumentarono specie dopo la modificazione dell’ordinatio in favore di Carlo il Calvo, figlio avuto da Ludovico, in seconde nozze, con la bavarese guelfa Giuditta.

Nell’842 si giunse al patto di Verdum, in cui si pervenne alla divisione dell'impero: il regno era ormai destinato a dividersi in territori sempre più ridotti e perdere così definitivamente l'unità dei tempi di Carlo Magno. Da qui la svolta: Lotario rinuncia ad incoronare il figlio Ludovico II, futuro sovrano del territorio italiano, inviandolo a Roma, da Leone IV: l'ideologia romana aveva riportato la sua vittoria. Mancando all'Imperatore la base politico-territoriale, si era costretti a ricorrere all'avallo papale.

L'unzione e l'incoronazione, dall'850 in poi saranno l'atto costitutivo del nuovo imperatore, che, da questo momento in poi, assumerà quasi esclusivamente il ruolo di difensore della Chiesa romana. I termini di questa protezione Imperiale erano stati già fissati nella constitutio romana dell’824, voluta principalmente da Lotario: il popolo romano con i nobili da una parte e il papa dall'altra dovevano giurare fedeltà all'imperatore. Il papa lo avrebbe fatto prima della propria incoronazione. L'elezione papale, presenziata da un missus imperialis, avrebbe consentito che essa si potesse svolgere liberamente, senza essere soggetta a pressioni. Questa ricerca di un rapporto con Roma, da parte degli ultimi carolingi, insieme a promesse di protezione, avrebbero fatto slittare di nuovo la concezione dell'impero verso una connotazione romana.

A spiegazione di questo rovesciamento di prospettive in favore del ruolo di Roma, nella gestione dell'ideologia imperiale, i più tendono ad addurre le vicende della partitiones imperii, altri si ingegnerebbero a spiegazioni più sofisticate: visioni eccessivamente semplificate.
A parere dell'Arnaldi (Il papato e l'ideologia del potere imperiale, XXVII settimana di studi sull'Altomedioevo, Spoleto 1981, 398-404), verrebbe troppo spesso dimenticato, nel considerare le vicende in esame, che nel settantacinquennio successivo all’800, quando Giovanni VIII era stato messo in condizione di scegliere tra diversi candidati al trono imperiale, Roma era cresciuta, sul piano culturale e nel recupero della tradizione antica, di Gregorio Magno, del quale, tra l’873 e l'876, Giovanni Immonide aveva redatto la biografia.
 Era questo anche il tempo della lettera di Anastasio Bibliotecario-Ludovico II a Basilio I, in cui venne presentato il concetto della translatio imperii, ormai lontano dalle semplificazioni narrative - dell'iscrizione fatta incidere da Adriano I sulla corona aurea offerta alla confessione del Principe degli Apostoli - e iconografiche - del triclinio leonino, in cui s. Pietro dà l'orifiamma a Carlo Magno e la stola a Leone III (sotto a destra), mentre (a sinistra) il Signore dona lo stendardo a Costantino e le chiavi a S. Pietro. L’opera fu voluta da pp. Leone III ed è stata recuperata inserendola in una struttura muraria di più recente realizzazione. Insomma, quell'ossessivo richiamarsi a S. Pietro della tradizione transalpina, da Bonifacio a Carlo Magno, ha finito per tornare a vantaggio della posizione di Roma e del Papato.

Con la morte di Ludovico II si estingue la dinastia lotaringia e Giovanni VIII proclama imperatore Carlo il Calvo, assai poco interessato delle questioni italiane e quindi quasi sempre latitante, rispetto alle necessità del papato. Per di più i suoi poteri sui feudatari vennero essere molto limitati dal Capitolare di Quierzy dell’877: riconoscimento dell’ereditarietà dei feudi comitali. Gli epigoni della genealogia di Ludovico il Pio si ebbero con Carlo III il Grosso, inutilmente incoronato imperatore da Giovanni VIII: oltre a non fermare la disgregazione dell'Impero carolingio, ad opera delle monarchie nazionaliste, nella dieta di Tribur (an. 888) fu obbligato a rinunciare alla dignità imperiale. Con la sua morte (889) l'Italia rimarrà sotto il controllo di Berengario del Friuli, che alla fine trionferà del suo avversario Guido da Spoleto. Oddone di Parigi sarà proclamato re ed inaugurerà così la dinastia robertingia (a cui succederà la “capetingia” nel 987), Rodolfo il Guelfo governerà la Borgogna e ad Arnolfo toccherà la corona di Germania.

Di fronte al progressivo indebolimento dell'autorità carolingia, ben presto l'Italia, e con essa la stessa Roma ed il Papato, divenne oggetto di contesa tra i signori del Friuli e i duchi di Spoleto.
Il papa Stefano VI fu costretto ad incoronare Guido di Spoleto e il suo successore, papa Formoso (891-896), dovette fare lo stesso per il figlio di quest'ultimo, Lamberto. Le vicende dei contrasti tra Formoso e i duchi di Spoleto possono ben rappresentare la generale situazione del papato alla vigilia del secolo X, il così detto “secolo oscuro”. Formoso chiese più volte aiuto al re franco, Arnolfo di Carinzia, che venuto a Roma fu anche incoronato imperatore (896), ma la guerra contro Spoleto non ebbe esito, a causa dell'improvvisa malattia del sovrano.

Morto Papa Formoso nel 896, il duca spoletino si accanì contro la memoria del papa e, all'inizio dell'897 il cadavere del pontefice fu disseppellito; venne inscenato un processo alla sua presenza, e giudicata illegittima la sua elezione - egli era già vescovo di Porto e, tranne il caso di papa Marino, non si era mai verificato, che un già vescovo fosse stato eletto papa - vennero dichiarati invalidi tutti i suoi atti; le sue spoglie vennero gettate nel Tevere, da dove furono poi raccolte da un pio eremita. Si formarono da questo tempo due partiti: i formosiani e gli antiformosiani, che si fronteggiarono per lungo tempo, con atti di violenza su papi delle rispettive parti avversarie. Con la morte dell'Imperatore, Lamberto di Spoleto, venne eliminato il partito formosiano e la politica papale prese un nuovo corso, segnato dalla soggezione alla nobiltà romana.

L’ecclesiologia carolingia

La stretta connessione tra sacerdotium e regnum in ambito medievale e in particolare nel quadro dell'Impero carolingio giustifica un'analisi delle componenti ecclesiologiche che tenga conto in modo speciale della realtà politica.
Quella particolare concezione della Chiesa, pensata come la sintesi delle realtà esistenti, sia a livello naturale che soprannaturale, trova sicuramente le sue radici in una commistione strettissima, tra funzione civile e dimensione ecclesiale; una commistione, che è la componente essenziale dell'Impero carolingio e della stessa Europa medievale - se si intende con questo termine la connessione tra latinitas e germanitas.  
Le radici del sistema carolingio sembrano affondare in quel sostrato gallo-romano del tardo antico, in cui vescovi, educati secondo la paideia ellenistico-romana, appoggiati alla istituzione regia, educarono le popolazioni germaniche fino a renderle degne rappresentanti di un impero occidentale, capace di reggere il confronto con la controparte orientale.  La conversione di Clodoveo, confortata dalla presenza del vescovo Remigio è l'immagine plastica di questo connubio tra episcopato e gerarchie civili.

Fin dall'epoca costantiniana il cristianesimo aveva sviluppato un rapporto con il mondo civile, dove le funzioni religiose non erano limitate al solo ambito del culto - come invece accadeva per tutte le altre religioni. Nel codice legislativo giustinianeo sono evidenti le funzioni civili del vescovo, in appoggio all'autorità laica. L'incontro di questa coscienza sociale dell'episcopato con i quadri militari dei Merovingi prima e Carolingi poi, con l'aggiunta, in seconda battuta, dell'azione riformatrice dei monaci Anglosassoni - che perseguivano una organizzazione ecclesiastica con chiara impronta romana - provocò la nascita di quella struttura, fondata sullo stretto legame tra episcopato-impero-papato, che caratterizza l'impero carolingio e come tale la stessa Europa alto-medievale. Diversamente accadde per i Longobardi, che, poco integrati con l'aristocrazia italo-romana, anche forse a causa della vicinanza della Sede Apostolica, non si preoccuparono mai dell'organizzazione ecclesiastica, lasciando l'elezione dei vescovi al clero e al popolo.

Tra i Franchi invece i vescovi erano reclutati nella stessa classe, eminente sul piano economico-sociale, da cui provenivano anche le gerarchie civili. Così si capisce perché l'episcopato veniva coinvolto nel riordinamento dell'esercito, allo stesso grado con cui si adoperava per la riforma ecclesiastica; e si potrebbe anche aggiungere, con la stessa energia, con la quale pure le autorità "civili" si impegnavano nella riforma della disciplina ecclesiastica. Al tempo di Carlo Martello i vescovi e gli abati erano impegnati a condurre in battaglia gruppi armati, secondo l'interesse delle famiglie da cui provenivano. Il divieto per i prelati di portare armi, esistente nella canonistica classica, non lo si vedeva in contraddizione, con l'attività organizzativa della forze militari da parte dei vescovi.

Non si ignorava per questo la diversità di fini tra l'ordine dei chierici e quello dei militari, attribuendo agli uni la forza della parola e agli altri la forza delle armi. Ma le due sfere si intersecavano a vicenda. Talvolta, come nel caso di Paolino d'Aquileia, c'era qualcuno che avanzava delle perplessità, sul modo di agire dell'autorità regia, a conferma della reale ambiguità delle relazioni tra gerarchia religiosa e civile.

Nella zona del Friuli, spesso avversata dall’invasione degli Avari, Carlo cercava un prelato di sua fiducia, che potesse far da ponte tra il regno franco e la potenza longobarda, ormai in fase decadente. Questa la motivazione che lo aveva spinto a designare Paolino d'Aquileia a quella sede patriarcale, conferendogli anche l'incarico di adoperarsi alla conversione degli Avari.  Fu in questa occasione che il prelato si era preso la briga di precisare i confini tra potere politico e azione pastorale, dichiarando che il re combatte per la Chiesa i nemici visibili, il sacerdote combatte spiritualmente, per il suo re, i nemici invisibili.

Ancora, le azioni politico militari erano decise dal re assieme ai prelati e spesso si legge, nei preamboli di tali delibere, come la decisione maturasse dall'incontro della linea regia con quella ecclesiastica.
Talvolta capitava addirittura che la decisione regia venisse subordinata a quella ecclesiastica: «congregatis in unum singolare concilium episcopis, abatibus virisque illustribus comitibus, una cum piissimo domino nostro secundum Dei voluntatem pro causis oportunis consenserunt decretum» (MGH, Capitularia, 47; CG MOR, Qualche problema circa le assemblee dell'età carolingia, Spoleto 1955, 115).
E non è da pensare che l'ordine di comparizione fosse posposto, rispetto alle decisioni di carattere militare, per il fatto che qui si era in presenza di un capitolare, perché nelle sinodi carolingie - da cui le deliberazioni sotto forma di capitolari - le decisioni non erano affatto soltanto di natura ecclesiastica. Nelle decisioni di natura pubblica, qualsiasi esse fossero, nessun sovrano germanico si sarebbe sognato di deliberare per iniziativa propria.

Se c’era questo coinvolgimento delle sfere episcopali in materia civile e anche militare, si verificava anche che, in senso contrario, il re entrasse in decisioni puramente ecclesiastiche. I riformatori anglosassoni della chiesa franca, che avevano preparato quell'incontro a doppia mandata tra papato e regno - Zaccaria-Stefano II e Pipino -, non avevano fatto altro che fomentare questo innesto tra gerarchie militari e religiose.  E se, secondo la Vita Caroli Magni di Eginardo, «Pipinus autem per auctoritatem Romani pontificis ex prefecto prelatiis rex costitutus», l'unzione regale, che venne poi conferita ai re, avrebbe qualificato con ancora maggior decisione la dimensione sacrale del re(2).

Non fa meraviglia, allora, che Carlo intervenga nella controversia teologica sull’adozionismo spagnolo o sul figlioque, o si “opponga” a Roma, mostrandosi contrario alle decisioni del concilio di Nicea sulle immagini.
Ma al di là di queste grandi prese di posizione, che coinvolgono un progetto ideologico-politico di ampia portata, la partecipazione regia alla gestione della realtà ecclesiastica, si coglie con maggior concretezza nella composizione dei concili, a cui assistevano prelati e laici, in cui venivano emanati dei decreti di riforma che avevano forza di legge civile, ed erano pubblicati da messi regi-imperiali, spesso un vescovo e un nobile, il pastorale e la spada.  La natura stessa dei capitularia, risultato essere dei sinodi, che producevano leggi civili, in genere di diritto consuetudinario, e normativa ecclesiastica: è l'immagine migliore della commistione tra sacerdotium e regnum.

Per entrare ancor più tra le pieghe della riforma promossa dai sovrani carolingi, basti ricordare che la normativa per l'amministrazione dei beni ecclesiastici veniva prescritta assieme alle ordinazioni della cura pastorale (la conoscenza del padre nostro, del credo, del decalogo, la frequenza alla messa, la predicazione e la cura dei rustici - sradicamento delle superstizioni popolari). Si aggiungano le prescrizioni sulla vita dei vescovi e dei preti, la cura della formazione intellettuale, la disciplina monastica, la prassi missionaria.

Quanto all'intervento nella nomina dei vescovi alle varie sedi, basti vedere gli interventi di Carlo Magno in Italia, all'indomani delle guerre longobardiche, in cui il sovrano franco non aveva scrupolo di porre, nelle sedi di maggior rilievo politico, prelati di sua fiducia.  Lo si è visto in parte con il caso di Paolino II di Aquileia, ancora più evidente appare nella vicenda di Waldo di Reichenau, collocato nella sede di Pavia, capoluogo longobardo, in cui il diritto di nomina spettava ai pontifici.  Evidente è ancora una volta lo scontro tra il sistema longobardico, che aveva permesso al papato libertà di manovra, nella gestione della gerarchia ecclesiastica, - diversamente era la questione dei conflitti per ragioni politico-territoriali - e la concezione ecclesiastica dell'Impero franco, geloso, per motivi socio-politici e patrimoniali, dei suoi diritti sull'episcopato. Anche la gestione della politica delle immunità, largamente concesse da Carlo agli episcopati del nord Italia - per aver in cambio favori a livello politico -, tanto da renderli delle signoria autonome, denota la particolarità della politica ecclesiastica franca.

Premesso questo, è più facile ora passare a questioni più teoriche, sulla concezione ecclesiologica nata in ambiente medievale. La chiesa medievale non può che apparire come la realtà che tutto comprende: il cosmo medievale, con a capo il Cristo pantocrator, non più nella sua dimensione escatologica, ultraterrena, ma pienamente immanente, di sovrano con funzione sacerdotale e regale, mediata dalle due istituzioni visibili di sacerdotium e regnum. In questo universo ecclesiale, che comprende anche angeli e santi e in senso negativo, naturalmente, demoni, si trovano i monaci, che lottano contro le forze del male, i sacerdoti che spargono la Parola e amministrano i sacramenti - corroboranti la lotta a favore della costruzione del regno -, i laici che partecipano alla lotta e aiutati da angeli e santi difendono la Chiesa da nemici visibili.

Questo impegno nel combattimento su diversi fronti, compare anche nell’architettura.  Le chiese appaiono come fortezze, i campanili, torri di difesa,  le campane, trombe per l'adunata di angeli e santi contro l'assedio dei demoni.  
Solo con la crisi dell’IX sec., nel disfacimento della struttura carolingia, con il ricorso sempre più frequente all'unzione papale, per ricevere dignità regale e imporsi sugli eredi al regno, il laicato perde il suo ruolo di fronte ai chierici.
La vittoria dell’ideologia papale, emergente in modo chiaro nell'unzione di Ludovico II, nell'850 a Roma, e teorizzata nella lettera di Anastasio Bibliotecario, segretario di Nicolo I, all’imperatore bizantino Basilio I, in cui emerge la forza ideologica del papato, che si fa artefice della translatio imperii, dai greci ai germani, collabora in parte ad una processo di allontanamento della sfera ecclesiastica da quella civile.
L'altare si addossa alla parete, la messa non si celebra più in faccia al popolo, ma in faccia all'abside. Il canone della messa si recita a bassa voce, iniziano le messe senza la partecipazione del popolo. Il carattere sacrale del laicato sembra essere rimasto solo sulla sua rappresentanza: l'Imperatore, vicario di cristo invisibile.

Nelle laudes regiae, che risalgono all'incirca all'epoca dell'unzione di Pipino, 751-754 (MGH IX, Ordines Coronationis imperialis), troviamo ancora tutto l'universo medievale. Iniziando con il Cristus vincit, esse proseguono con le acclamazioni al papa, ai santi, agli apostoli, al re, agli angeli, all'esercito franco e ai santi martiri.  Al linguaggio liturgico si può affiancare poi il ricorso all'esegesi biblica.
Nella facciata della cattedrale di Chartres le vicende dell'antico testamento si alternano a quelle dei re franchi, riproponendo così quasi una lettura tipologica della storia. D'altra parte era stato già il papa Paolo I a paragonare Pipino a Mosè legislatore e a Davide re. Successivamente, Amalario di Metz si indirizzerà a Ludovico il Pio come ad un novello Davide. Paolino azzarda a chiamare il re dei Franchi governatore del mondo cristiano, Sacerdos et rex, Alcuino addirittura pontifex in predicatione.

Al di là di queste affermazioni, che non hanno pretese sistematiche, riguardo alla concessione del potere e alla sua relazione con la Chiesa - ma fanno piuttosto vedere, ancora una volta, questa dualità al vertice della universalis Ecclesia con intrecci inestricabili tra l'una e l'altra componente -, ci si può chiedere quale fosse allora la dottrina del potere nel medioevo.

Certamente la struttura orientale in cui l'Imperatore sta al vertice della società e nomina il patriarca, su suggerimento del sinodo permanente (Endemusa), sembrerebbe assimilabile con quanto capita in Occidente. In realtà in Oriente i ruoli mantengono una certa distinzione. Se si analizza un testo occidentale, come ad esempio i documenti emanati dal sinodo di Parigi dell’829, si vede chiaramente la differenza con la Chiesa d'Oriente.

Nel concilio parisiense si parla della realtà sociale come di un unico corpo, con a capo Cristo. Assimilando poi questa immagine alla Chiesa si afferma che il potere in essa è diviso tra due "esimie persone", nelle quali si possono distinguere funzioni regali e sacerdotali. Al regale ministerium spetta il governo del popolo di Dio, da reggere con equità e giustizia, nella ricerca della concordia e della pace.
Spesso molti autori leggono erroneamente la realtà alto-medievale, perché ingannati da filtri pregiudiziali, provenienti da schemi che sono propri di epoche più recenti (si allude concretamente al modello ierocratico bonifaciano, in cui il sistema statale è inglobato nella Chiesa e gli è subalterno).
Per l'epoca medievale non c’è squilibrio tra ierocrazia papale e teocrazia imperiale, come nel XIII secolo; non c'è prevalenza del sacerdotium sul regnum. Le parti cominceranno a scontrarsi con Gregorio VII, che non chiedeva però di dominare sull'autorità civile, ma solo di avere piena libertà in ambito spirituale. Così facendo si arrivò ad una rottura dell'equilibrio fra le due sfere; rottura che si risolse a vantaggio della ierocrazia al tempo di Bonifacio VIII, che però politicamente ottenne risultati diversi da quelli sperati.

Lo schema allora potrebbe essere il seguente:

ECCLESIA UNIVERSALIS


Dentro l’Ecclesia universalis, i due organismi si trovano sullo stesso piano e ambedue condividono gli stessi fini. Vi è una certa distinzione fra i due, ma non a carattere ontologico, essa riguarda solo il piano funzionale. La distinzione sul piano pratico si può far risalire a Gelasio (492- 496), che sosteneva il divieto per l'imperatore di immischiarsi in questioni dottrinali-religiose e dei sacerdoti in quelle politico-militari, ma riteneva un dovere la collaborazione per il raggiungimento del medesimo fine.

Non si può ignorare a questo punto, quello che è stato denominato come l’agostinismo politico del medioevo, ossia l'interpretazione in termini concreti (grossolani) del concetto spirituale- teologico della Civitas Dei.
Agostino faceva una distinzione morale tra coloro che appartenevano al popolo eletto e quelli che erano sotto il potere del diavolo. Nel medioevo si pensò di semplificare la concezione agostiniana, identificando gli eletti con la Chiesa socialmente intesa. Agostino non intendeva naturalmente negare il diritto naturale dello stato, ma solo richiamare i sovrani ai loro doveri di difensori della pace e della giustizia.  Si tratta, come detto da alcuni, di un assorbimento dell'ordine naturale in quello soprannaturale. Ma l’influenza di Agostino non va tuttavia esagerata. Ci sono ben altri autori che sulla linea di Gelasio influiscono sulle dottrine politiche medievali: Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia.



NOTE


1) Cioè l’ “Ordinamento dell’Impero”. Esso è il provvedimento emanato dall'imperatore Ludovico il Pio per regolare la successione: assegnò il titolo imperiale al primogenito Lotario, mentre ai figli Ludovico e Pipino andarono rispettivamente le regioni nordorientali e sudoccidentali. Questa divisione non impedì dure lotte, concluse nell'843 con la spartizione dell'impero in tre aree.

2) Si leggano le sagge riflessioni di H. FICHTENAU, L'impero carlingio, Bari 1958, 75 a proposito dell'ambiguità insita nel concetto di “regalità sacerdotale” applicata ai sovrani carolingi.


Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011



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