lunedì 30 novembre 2015

STORIA VENETA – 110: 1577 - DOPO LEPANTO IL TRONO DUCALE. VENIER DIVENTA DOGE


Dal testo di Francesco Zanotto


"Quindi fu spettacolo commoventissimo l'osservare non appena eletto il Veniero, recarsi alla presenza di lui dieci Turchi, i quali, a nome di tutti i loro nazionali allor dimoranti in Venezia, presentarongli omaggio prostrandosi ai di lui piedi al modo orientale, e questi baciandogli ossequiosamente prorompere nelle seguenti formali parole: Non poter la corona ducale esser collocata meglio che sul capo di chi avea debellato l'ottomana potenza. Il quale atto e le quali espressioni affatto singolari, riempì di giustissima maraviglia tutti gli astanti, ma vieppiù il Doge, il quale rispose a que' generosi con molto affetto ... "


ANNO 1577


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Nel 1577 Sebastiano Venier viene scelto quale nuovo doge. Il vecchio comandante riceve anche gli onori dei mercanti turchi di Venezia, gli antichi nemici ...


LA SCHEDA STORICA  - 110


L'epidemia di peste che sconvolse l'atmosfera fiabesca di Venezia nel 1576, si esaurì finalmente verso la fine dell'estate. I Veneziani stavano erigendo la loro chiesa - il Redentore - a ringraziamento della fine della pestilenza e la vita stava recuperando, seppur lentamente, i ritmi e le abitudini di sempre.
Il  doge Alvise Mocenigo che si era salvato dalla peste, non fece comunque in tempo a vedere la chiesa finita, dal momento che il 4 gennaio del 1577 moriva e veniva poco dopo sepolto nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo.
Mocenigo, prima di salire sul trono ducale era stato anche ambasciatore presso l'imperatore Carlo V, che aveva profondamente apprezzato la sua abilità diplomatica, ma il suo dogato, complessivamente, fu estremamente sfortunato o comunque segnato da alcuni fra i più tragici eventi della storia veneziana. Si era infatti aperto con la vergognosa, fallita spedizione di Venezia, Spagna e papato per soccorrere l'isola di Cipro assediata dai turchi e si era concluso praticamente con una città devastata dalla peste.
Tuttavia Alvise Mocenigo ebbe anche il merito, o la fortuna, di legare il suo nome e il suo governo anche alla insperata vittoria di Lepanto. Per quest'ultimo episodio l'anziano doge poteva morire soddisfatto.
E proprio fra gli uomini  che contribuirono in maniera determinante a quella vittoria, ora il Senato rinnovava la sua scelta con l'elezione del nuovo doge. In realtà, uno era il personaggio sul quale inevitabilmente e sin da principio si concentrarono, unanimi, le preferenze: Sebastiano Venier.


Sulla fama di Lepanto vola il Venier


Il comandante veneziano, l'eroe di Lepanto, colui che aveva saputo condurre la propria flotta in modo eccelso contro i turchi, era rientrato a Venezia solo nel 1573, giusto il tempo per attraversare, indenne, la terribile pestilenza del 1576.
Pochi mesi, dopo alla morte di Alvise Mocenigo, Sebastiano Venier poteva così salire sul trono ducale. Era la naturale ma anche la massima ricompensa che il Venier poteva sperare. Probabilmente l'ormai anzianissimo comandante la vide più come una cosa dovutagli, l'ovvia chiusura di una vita spesa al servizio della repubblica.
Il carattere del Venier infatti era notoriamente irascibile, pieno di sè e orgogliosissimo, in particolare della sua eroica impresa. Non fu certo un caso, quindi, che tra i primi provvedimenti che prese, non appena sedette sul trono ducale, uno fosse relativo proprio alla memorabile battaglia. Tutti i nobili, infatti, che vi avevano preso parte, dovevano indossare degli abiti rossi per un'intera settimana quale alto segno distintivo e malgrado fossero passati ormai già più di sei anni dall'evento.


Pure i mercanti turchi gli fanno omaggio ...


Una circostanza curiosa si verificò il giorno del suo insediamento. Dopo aver ricevuto l'omaggio dei  nobili e degli elettori, al vecchio doge si presentarono davanti dieci rappresentanti dei mercanti turchi residenti a Venezia.
L'omaggio, non certo privo di interesse e di secondi fini, primo fra tutti quello di garantirsi comunque la benevolenza del doge e della città, non mancò certo di colpire, dal momento che proprio l'uomo che pochi anni prima aveva contribuito ad infliggere ai turchi una sonora sconfitta, ora li accoglieva e li riceveva con la massima cortesia e gentilezza. Sei anni, almeno in questo caso, erano passati per qualcosa! Lepanto comunque era veramente ormai lontana, un bel ricordo nel quale il doge non trascurava certo d'indugiare.
Ma un evento drammatico pensò a richiamare il Venier all'attualità. Il 20 dicembre del 1577, per la seconda volta nel giro di pochi anni, un incendio si propagò nel Palazzo Ducale. Questa volta, tuttavia, a differenza delle precedenti, le fiamme produssero danni' inestimabili e purtroppo per certi versi irreversibili al palazzo e alle opere in esso contenute.
La Sala del Maggior Consiglio e quella dello Scrutinio vennero infatti inghiottite completamente dalle fiamme e con esse i preziosi affreschi dei massimi maestri del Quattro-Cinquecento veneziano, dal Gurianto, al Bellini, da Tiziano a Tintoretto e Veronese. Tutti infatti, avevano lasciato nello storico Palazzo la loro firma.
I danni poi alla struttura stessa del palazzo fecero per un momento temere il peggio, ovvero una sua totale distruzione per far posto ad una costruzione ex novo. La richiesta in tal senso era appoggiata anche da alcuni fra i massimi architetti dell'epoca, Palladio in prima fila.
Fortunatamente questa drastica soluzione, alla fine, venne accantonata procedendo invece ad una accurata ristrutturazione che mantenne sostanzialmente inalterata la struttura antica del palazzo. Non è dato sapere se e come il Venier sia intervenuto nella questione.
Resta il fatto che, al momento dell'incendio, il vecchio doge si rifiutò di abbandonare il palazzo. Lo spirito del comandante, che affonda con la sua nave, riemerse in quell'occasione che per Sebastiano Venier sarebbe stata anche l'ultima. Appena tre mesi dopo, infatti, la morte lo costrinse a lasciare per sempre il "suo" palazzo.
Con la morte di Venier si chiudeva un'epoca per Venezia, un burrascoso periodo che l'aveva vista in prima fila e finalmente vittoriosa nella lotta contro i turchi. Venier era stato l'uomo del momento, ma con il nuovo secolo arrivavano anche per Venezia nuovi e delicati problemi che nemmeno il turco "infedele" le aveva mai procurato.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  4,  SCRIPTA EDIZIONI




domenica 29 novembre 2015

STORIA VENETA – 109: 1576 - ARRIVA LA PESTE. NON C'E' SOLO LA GUERRA A SPOPOLARE ...


Dal testo di Francesco Zanotto


"Ivi medici, chirurghi, farmacisti, mammane e sacerdoti trovavansi; ivi stavano aperti immensi magazzini provveduti a dovizia di medicamenti, di panni e di vettovaglie, per soccorrere, per vestire e per pascere la moltitudine del popolo; ivi del continovo, per dissipare l'aria contaminata, ardeva, accolto in altissime pire, l'odoroso ginepro.  All'apparire dell'aurora portavansi colà alcuni ministri, detti visitatori, i quali trascorrendo il lido, l'isola e la flotta informavansi dello stato della salute, provvedevano ai bisogni e tradur faceano al vecchio Lazzaretto coloro che fossero stati colpiti dal contagio ... "


ANNO 1576 


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


La Serenissima dopo la pace coi turchi può tirare un sospiro di sollievo tornando teatro di feste e di divertimento, ma un nemico ancor più subdolo ed invisibile riesce a sconvolgerne la vita e la ritrovata serenità ...


LA SCHEDA STORICA   -  109


Enrico III re di Francia lasciava dunque Venezia nel luglio del 1574 dopo una settimana durante la quale aveva potuto ammirare tutta la magnificenza e tutto quello che la città era in grado di offrire quanto a cultura, bellezza, arte e ricchezza. Niente in quei giorni, o al momento della partenza di Enrico, poteva far immaginare che da lì a pochi mesi tutto quell'incantevole sfarzo si sarebbe tramutato in un terrificante scenario di morte.
La città aveva fatto del suo meglio in quei giorni per apparire come il volto di uno stato efficiente, ricco e potente agli occhi del neo sovrano francese. Tutto questo era finalizzato a persuadere Enrico III sulla opportunità di un'alleanza con Venezia, alleanza tanto più preziosa per la repubblica veneta, rimasta ormai senza potenti referenti in Europa.
Sicuramente in quei giorni il doge Mocenigo trovò il modo tra una festa, un banchetto e una passeggiata di parlare a questo proposito con il re che, molto probabilmente, si mantenne sul vago. In fondo doveva ancora accogliere sul suo capo la preziosa corona francese che lo aspettava al suo ritorno da Venezia.
Intanto poco dopo la partenza del sovrano, nella città si verificò un terribile incendio in Palazzo Ducale, che distrusse i locali del Collegio, del Senato e alcuni  ambienti privati del doge. Ma questo incendio doveva essere solo un vago presagio di un'altra e ben più terrificante sciagura: la peste.
Le prime avvisaglie si erano già avute alla fine del 1575, ma ad esse non venne data particolare importanza. Da almeno due secoli e più l'Europa aveva preso "confidenza" con il terribile morbo che, dalla Peste Nera del 1348, si ripresentava ciclicamente in forme più o meno gravi, estese o durature.


La malattia viaggia nelle merci e con gli uomini ...


Quella che investì Venezia nel 1575 aveva ancor una volta origini lontane. Si pensa che dall'Ungheria dei mercanti tedeschi abbiano importato mercanzie infette nel 1572 portando con sè quindi la peste che già nel 1575 faceva strage a Trento, dove infatti erano giunte parte delle merci infettate.
Nell'estate di quell'anno la peste era scesa anche in Lombardia e a Verona. Da queste aree arrivò presto ed inesorabile anche in laguna, probabilmente portata da un cittadino trentino che a Venezia sperava di trovare scampo all'epidemia. Nel dicembre del 1575 tuttavia, i casi erano talmente sporadici e circoscritti da far pensare che il morbo fosse già estinto.
Era solo l'inizio di una serie di fatali errori di valutazione che contribuirono in maniera determinante alla larga diffusione dell'epidemia.
Con l'arrivo della primavera, intanto, la pestilenza infatti esplose in tutta la sua violenza tanto da trasformare nel giro di poche settimane la città in un vero e proprio lazzaretto. Non si salvò dal contagio nessun ceto sociale. Nobili e popolani, vecchi e giovani, donne e bambini di qualunque età o condizione vennero indistintamente colpiti dal morbo. La struttura stessa della città con le sue viuzze strette, le case una affiancata all'altra e le scarse condizioni igieniche, contribuirono ad accelerare il contagio. Ben presto il Vecchio Lazzaretto non fu più in grado di accogliere un numero sempre crescente di moribondi.
Vennero anche chiamati due dei più famosi dottori dell'epoca dalla vicina Università di Padova, Girolamo Mercuriale e Girolamo Capodivacca, che, coscientemente o per ignoranza, tacquero inizialmente sulla vera natura del morbo e sui rimedi o precauzioni da prendere, contribuendo all'aggravarsi della situazione che si fece tragica con l'arrivo dell'estate.
Il senato emanò allora i primi provvedimenti: chi si fosse scoperto ammalato di qualunque malattia doveva recarsi nella propria parrocchia e dar nota del suo stato con la descrizione accurata dei sintomi. Dopodiché lui e i suoi famigliari dovevano rinchiudersi in casa ed aspettare la visita di un medico. Se l'ammalato veniva riconosciuto appestato, veniva immediatamente trasportato nel Lazzaretto di S. Maria costruito ancora nel secolo precedente per accogliere i marinai o i mercanti che giungevano dall'Oriente e che venivano trattenuti lì in quarantena prima di poter entrare in città.
In quelle settimane venne tuttavia eretto un nuovo Lazzaretto, ma anche questo ben presto fu insufficiente e così si provvide a costruire delle baracche anche sulla vicina spiaggia di S. Erasmo. Ancora non bastò.
Venne così decretato che da tutte le isole vicine venissero mandate a Venezia barche, galee, imbarcazioni di qualunque tipo da poter predisporre presso il Lazzaretto, quali ulteriori siti d'accoglienza.
Sorgeva così a poco a poco un'altra città di gente disperata ed ammalata, moribonda, ma non certo abbandonata a sè stessa. Puntualmente venivano infatti portati i rifornimenti di cibo e di acqua mentre medici e chirurghi lavoravano intensamente. Anche le funzioni religiose venivano regolarmente svolte da sacerdoti coraggiosi che si recavano fra gli appestati.
L'estate intanto era trascorsa e con l'inizio dell'inverno fortunatamente la virulenza del morbo calò sensibilmente. Tuttavia, solo il 21 luglio dell'anno successivo, il 1577, il governo veneziano potè dichiarare ufficialmente che l'epidemia era finita.
Un'epidemia che era costata alla città ben 50.000 persone, forse più e fra queste anche un nome eccellente, quello del Tiziano.
La città usciva da un vero e proprio incubo e per ringraziare Dio dell'avvenuta e sperata liberazione, si decise di far erigere uno splendido tempio sull'isola della Giudecca dedicandolo al Redentore. L'architetto al quale venne affidato l'importante incarico, non poteva che essere il massimo che Venezia potesse scegliere: Andrea Palladio.
Da allora, ogni terza domenica di luglio il doge in corteo e tutta la cittadinanza, si recavano alla chiesa del Redentore, a memoria di quella lontana calamità e dell'avvenuta sua fine, circostanza che ancora oggi viene magnificamente festeggiata in laguna.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  4,  SCRIPTA EDIZIONI




sabato 28 novembre 2015

STORIA VENETA – 108: 1574 - VENEZIA ACCOGLIE IL SOVRANO FRANCESE ENRICO III DI VALOIS. IL RE VISITA TIZIANO.

Dal testo di Francesco Zanotto


"Enrico adunque recava si a visitarlo nel proprio di lui studio, e lo accompagnarono i duchi di Ferrara, di Mantova e di Urbino; e pervenuto colà, non potea stancarsi dall'ammirare il vecchio famoso, che lo intertenne non breve ora colla narrazione degli onori ottenuti dall'imperatore Carlo V, e dal re Ferdinando il Cattolico, e parea  ritornare egli nella fresca sua età rammentando e raccontando le antiche sue glorie.  Ad accrescer la gioia nel vecchio, d'altra parte, Enrico gli manifestava la soddisfazion sua, e gli diceva di aver voluto veder e conoscere un uomo insigne, di cui la fama avea riportato novelle fino nel Settentrione ... "


ANNO 1574 


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Enrico III di Valois si ferma a Venezia nel suo viaggio che lo avrebbe portato a sedere sul trono francese. Nella città trova una straordinaria atmosfera carica di lusso, sfarzo e bellezza, ma anche di arte e cultura ...


LA SCHEDA STORICA - 108 


Il  tre marzo del 1573 Venezia firmava la pace con il sultano Selim I. Inutilmente la repubblica aveva tentato, negli ultimi 18 mesi - tanti ne erano trascorsi dalla battaglia di Lepanto -, di rinsaldare e rilanciare la Sacra Lega.  Filippo II, mai troppo convinto dell'alleanza con Venezia, ben presto tornò ad occuparsi delle sue faccende interne, mentre il nuovo pontefice Gregorio XIII non dimostrava certo quell'entusiasmo e quell'interesse che avevano spinto il suo predecessore a creare l'alleanza anti-turca.
Ancora una volta Venezia non aveva scelta. Ad una guerra senza speranza preferì così l'accordo di pace con il quale rinunciava ufficialmente e definitivamente ad ogni pretesa su Cipro impegnandosi a versare al sultano 300.000 ducati nei prossimi tre anni.
I più indignati della cosa si dimostrarono proprio gli spagnoli, coloro che più di chiunque altro avrebbero dovuto prendersela solo con sè stessi. Dei veneziani, disse Filippo II, non ci si poteva proprio fidare e il trattato con il Turco ne era un'evidente prova!
Ma da un altro stato il re spagnolo faceva bene a guardarsi. Nella vicina Francia, Enrico III, infatti, già da anni tramava ai danni della Spagna, come nel 1570, quando avrebbe dovuto sposare la regina inglese Elisabetta I, progetto poi comunque naufragato.
Enrico era uno dei figli di Caterina dé  Medici e di Enrico II e sarebbe anche stato l'ultimo rappresentante della dinastia dei Valois. Con la madre Caterina, Enrico fu uno dei principali promotori della tristemente famosa strage di S. Bartolomeo (23-24 agosto 1572) nella quale vennero sterminati senza pietà famiglie intere di protestanti Ugonotti.


Enrico arriva a Venezia, tappa del suo ritorno in Francia nelle vesti di re ...


 E proprio mentre si accingeva a porre l'assedio alla roccaforte degli Ugonotti a La Rochelle, gli giunse l'offerta della corona del regno di Polonia, vacante per l'estinzione della locale dinastia.
Ma la situazione nel regno polacco non era certo delle più rosee e così, dopo pochi mesi, Enrico si premurò di abbandonare lo scomodo impegno e di farsene ritorno in Francia dove, nel frattempo, il trono si era liberato per l'improvvisa morte del fratello, Carlo IX. Enrico lasciò la Polonia, di nascosto, trafugando i diamanti della corona. Da lì si diresse poi in Austria, a Vienna, da dove raggiunse infine Venezia.
Perchè questa scelta? Probabilmente fu il governo ducale  a voler ospite per alcuni giorni nella città il nuovo sovrano francese. La Serenissima infatti, dopo la definitiva rottura dell'alleanza con la Spagna e con lo stesso imperatore, guardava con crescente interesse alla Francia.
E così Enrico III giungeva in una città che difficilmente si sarebbe fatta scappare una tale occasione per poter sfoggiare ed esibire tutta la magnificenza di cui era capace.
Enrico venne accolto a Marghera da 60 senatori e da lì venne trasferito a Murano scortato da un seguito di gondole dorate. Nell'isola lo attendevano 60 alabardieri vestiti in alta uniforme con i colori e il giglio dorato francesi. La mattina dopo lo raggiunse anche il doge Mocenigo e da lì il corteo si portò sul Canal Grande fino a raggiungere Cà Foscari completamente ricoperta da drappi azzurri ricamati d'oro.
Per una settimana il re francese ebbe modo di ammirare e di vivere la Venezia del lusso, quella dei broccati e delle sete più pregiate, dei gioielli e della ricchezza ostentata in un turbinio di colori, volti, musiche e giochi.
In uno dei rari momenti liberi, il re riuscì anche a far visita alla più famosa, corteggiata e desiderata donna veneziana dell'epoca: Veronica Franco. Famosa per la sua incredibile bellezza, Veronica era altresì nota per le sue rime d'amore, oltre che per la sua libera condotta sentimentale. Il sovrano francese venne ben volentieri accolto dalla donna che dovette colpirlo non poco se Enrico volle portare con sè un ritratto di Veronica che ricambiò la cortesia reale con un paio di sonetti.
Enrico volle poi assolutamente incontrare un altro famoso personaggio del mondo artistico veneziano: Tiziano Vecellio.
Il  vecchio pittore, ormai novantasettenne, si era stabilito definitivamente a Venezia da molti anni e, proprio  nella città lagunare, aveva lasciato alcune delle più significative opere del periodo giovanile. La sua fama attraversava allora tutta l'Europa, ed Enrico non poteva certo mancare a questo appuntamento.
Si recò dunque nella casa del pittore, in San Canciano, accompagnato dai duchi di Ferrara, Mantova ed Urbino. Il sovrano francese non potè certo fare a meno di intrattenersi con Tiziano che gli ricordò orgogliosamente tutti i riconoscimenti e gli onori ricevuti dall'imperatore Carlo V e dal re di Spagna Ferdinando.
Dopo Tiziano fu la volta dell'altro grande pittore veneziano, Tintoretto, per il quale accettò anche di posare.
Il giorno della partenza, a questi ritmi e con giornate così piene, non poteva che giungere in un batter d'occhio per il giovane sovrano, per salutare il quale venne imbandito uno straordinario banchetto. Ultimato questo, il doge in persona si scomodò per accompagnare il re francese fino a Fusina. Enrico ricambiò comunque generosamente l'ospitalità e la cortesia ricevute durante quella settimana straordinaria, facendo dono al doge di un'enorme pietra preziosa.
Dopo i regali, le cortesie ricambiate e la festa, il doge Mocenigo si aspettava tuttavia qualcosa di più concreto e necessario per il suo stato: un'alleanza politica con la Francia. In fondo tanto sfarzo non era stato esibito per niente! La città, tuttavia, da lì a pochi mesi avrebbe avuto ben altri e più tragici problemi da affrontare che non l'alleanza con Enrico, che ebbe infatti giusto il tempo di ammirare Venezia nel suo massimo splendore prima che il suo volto venisse infatti devastato da un terribile, invincibile nemico: la peste.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  4,  SCRIPTA EDIZIONI




venerdì 27 novembre 2015

STORIA VENETA – 107: 1573 - DOPO LEPANTO E' FESTA GRANDE A VENEZIA. Il RITORNO DEll'EROE



Dal testo di Francesco Zanotto


"Entrava quindi nel porto del Lido il Veniero con la sua capitana parata a festa, ed incontrava nel luogo accennato sulle lor barche i cinquanta Senatori, i quali scortavanlo fino alla Piazzetta, ove smontato, veniva accolto dai Patrizii, fra le acclamazioni giulive del  numeroso popolo, nel mentre lo precedevano le turche spoglie, e le conquistate bandiere, e le armi,  ed i prigioni quasi a modo di trionfo.  Egli vestito con le assise proprie de' generali supremi, col manto fermato agli omeri con fibbie d'oro, augusto in volto, procedeva maestoso ... "


 ANNO 1573


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


La straordinaria vittoria conseguita sui turchi dalle navi cristiane a Lepanto, aveva nel comandante veneziano Sebastiano Venier il suo principale regista giustamente festeggiato al suo rientro in patria ...


LA SCHEDA STORICA  - 107


 La battaglia di Lepanto si era chiusa con una schiacciante vittoria della navi cristiane.
Malgrado l'atteggiamento alquanto irresponsabile del comandante Doria che rischiò all'ultimo minuto di compromettere l'esito finale dello scontro, alla fine della storica giornata don Giovanni d'Austria e tutti gli altri che avevano contribuito alla vittoria, potevano esultare dalla gioia.
Le perdite materiali non furono eccessive. Si parla di 13 navi perse contro le 113 affondate dei turchi e 117 catturate. Diversamente, purtroppo, i conti delle perdite umane furono altissimi da entrambe le parti. Del resto lo scontro si era risolto prevalentemente con dei durissimi corpo a corpo, ma anche in questo campo le 15.000 vittime cristiane non furono niente (si fa per dire!) rispetto alle 30.000 del nemico alle quali si aggiungevano 8.000 prigionieri.
Ad accrescere l'entità della vittoria dei cristiani si aggiunse infine uno straordinario bottino. Solo nella nave di Alì infatti, vennero ritrovati ben 150.000 zecchini d'oro! I turchi evidentemente si ritenevano sicuri della vittoria.
Ma un' altra piacevole sorpresa si realizzò quel giorno, ovvero la liberazione di ben 15.000 schiavi cristiani utilizzati quale forza motrice nelle galee turche. Anche per loro, sicuramente, quel giorno diventò immemorabile, un giorno di grande gioia che arrivava dopo lunghi anni di incontrastate conquiste turche, dopo lunghi anni di divisioni interne alla cristianità che questa volta aveva dimostrato tutta la sua capacità offensiva, unita nel comune scopo. L'abilità di comando e militare di don Giovanni d'Austria aveva fatto il resto.
Il 18 ottobre del 1571 Giuffredo Giustinian con la galea dal significativo nome di "Angelo", portò così finalmente notizia a Venezia della vittoria. Venezia era sicuramente lo stato, fra Spagna e papato, che aveva maggiormente sofferto e pagato per l'avanzata turca e per l'inerzia degli stati europei. Il ricordo della terribile fine del Bragadin che certamente poteva essere evitata se solo le navi della Sacra Lega si fossero riunite e mosse pochi mesi prima, era ancora troppo forte e recente perchè il sapore della notizia di Lepanto non assumesse anche il sapore di una giusta vendetta.
E così la città esplose in un impeto di gioia incontrollata e le calli, le piazze, i canali, si riempirono presto di gente festante. A memoria dell'insperata vittoria, molte furono le iniziative intraprese da parte del senato. Il  portale del Gambello all'Arsenale si trasformò in monumento mentre ogni 7 ottobre da quell'anno fino alla caduta della repubblica venne festeggiato con una processione del doge fino alla Chiesa di S. Giustina nel cui giorno, il 7 ottobre, appunto, era avvenuta la vittoriosa battaglia che venne anche rappresentata in due diverse opere pittoriche, di cui una del Veronese nella sala del Collegio.
Lepanto rappresentò sicuramente una straordinaria vittoria militare e morale, attesa forse per troppi anni, ma le premesse che una simile circostanza implicava erano destinate purtroppo a svanire a poco a poco, tradite ancora una volta dagli egoismi anche degli altri stati cristiani (Portogallo, Polonia, Francia e l'Impero) che non entrarono infatti nemmeno ora nella Sacra Lega.
Morto poi il suo principale promotore (1572), il pontefice Pio V, l'alleanza tra Spagna e Venezia, già di per sè difficile ed eccezionale, saltò completamente e, con essa, le premesse per poter continuare un'efficace azione di contrasto contro i turchi.
Già i primi sentori della crisi si registrarono agli inizi del nuovo anno, il 1572, quando Venezia dimostrò tutte le più serie intenzioni di continuare ad affrontare i turchi magari costringendoli allo scontro approfittando del ''vento'' favorevole che la battaglia di Lepanto aveva portato con sè.
In più occasioni le navi veneziane si scontrarono vittoriosamente con quelle nemiche realizzando anche qualche sporadica conquista, ma alla prima rilevante occasione di dare ai turchi una seconda, esemplare lezione, gli spagnoli si tirarono improvvisamente indietro.
I turchi erano praticamente intrappolati nel porto di Navarino (od. Pylos). Si doveva solo attendere che finissero i rifornimenti per attaccarli, ma don Giovanni fece sapere che le sue navi dovevano rientrare assolutamente in Spagna. Dello stesso avviso fu anche il comandante pontificio Colonna e così Venezia si ritrovava nuovamente sola di fronte al nemico e il nuovo comandante veneziano, affiancato all'ormai anziano Venier, fu costretto a dare l'ordine del rientro.
Venezia rientrava intanto anche lo stesso Sebastiano Venier, dopo due anni e dopo aver comandato magistralmente le sue navi nella battaglia di Lepanto. Uomo orgoglioso del suo passato, il Venier era ormai l'eroe del giorno.
Era il 1573 quando il vecchio comandante approdava in laguna a punta Sant'Antonio venendo accolto da una cinquantina di senatori vestiti in pompa magna. Da lì entrò nel porto del Lido con la sua nave parata a festa, venendo poi scortato fino al Canal Grande. Da qui approdò infine in Piazza S. Marco. Qui, nella Piazzetta, lo aspettavano patrizi e gente comune del popolo, un popolo ancora festante anche se ormai dalla vittoriosa battaglia erano trascorsi circa 15 mesi. Bastava comunque il solo ricordo per riaccendere gli animi e gli entusiasmi dei veneziani attorno alloro eroico comandante.
Questi, giunto all'ingresso della Basilica di S. Marco, incontrò il doge Alvise Mocenigo, accompagnato dai membri del senato, che si rallegrarono con il Venier per la vittoria conseguita e per il suo meritato trionfale ritorno in patria. Infine, entrarono tutti nella Basilica ed assistettero alla sacra cerimonia in ringraziamento della vittoria.
Venezia almeno, si consolava nel ricordo della gloriosa battaglia, ma da lì a pochi mesi le circostanze l'avrebbero presto indotta a firmare una pace separata con il sultano turco, suscitando le sdegnate reazioni di mezza Europa, quella stessa Europa che al momento di agire contro il comune nemico, non aveva fatto altro che girare le spalle alla Serenissima che trovava invece nel trattato di pace l'unica strada per evitare ancore inutili e solitarie sortite contro un nemico sempre potente e minaccioso.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  4,  SCRIPTA EDIZIONI