lunedì 23 novembre 2015

STORIA VENETA – 103: 1571 - SI RESISTE A TUTTI I COSTI. DOPO NICOSIA FU LA VOLTA


Dal testo di Francesco Zanotto


" ... non sesso, non età, non carattere di persona ritenne alcun dalla pugna: i sacerdoti ed i monaci, prese le armi, ferocemente menarono le mani: le donne, i fanciulli, i vecchi domati dalla età, somministravano armi a' combattenti o lanciavano pietre. Alcune donne eziandio, superando la fiacchezza del sesso, coll'armi in pugno, eguagliarono la maschile virtù. I malati stessi ed i feriti pur anco, con nuovo esempio, non potendo si reggere nella persona, quale carpone, qual altro zoppicando, quale fasciato ... trascinaronsi in soccorso delle cadenti mura e chi non potea recare aiuto con altro, colle grida animava i parenti e gli amici ... "


ANNO  1571


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Conquistata la capitale di Cipro, Nicosia, i turchi vogliono completare al più presto l'operazione occupando anche l'altra importante città di Famagosta. Qui, però malgrado la disperata situazione e la pressoché totale mancanza d'aiuti esterni, la resistenza all'assedio turco si preannuncia subito decisa ...


LA SCHEDA STORICA  - 103


Lo scandaloso atteggiamento del comandante spagnolo Doria aveva dunque in larga misura contribuito a rendere del tutto superflua la spedizione navale di Venezia per tentare di impedire ai turchi di conquistare anche l'isola di Cipro. L'isola, era un dominio veneziano, ma anche l'ultima roccaforte cristiana nel Mediterraneo Orientale.
Sbarcate sull'isola le truppe del sultano non ci misero molto a conquistare la capitale Nicosia mentre la flotta cristiana era ancora al largo di Creta. Era ormai troppo tardi. La notizia della caduta di Nicosia raggiunse i veneziani al largo di Castellorizo.  Cosa fare? Continuare o fare ritorno a Creta, abbandonando l'impresa?
Il  morale, specie tra i veneziani, era a terra e negli altri equipaggi ben pochi uomini se la sentivano di rischiare la pelle per una causa che già gravemente compromessa nel suo esito finale. Meglio tornarsene indietro e questa fu infatti la proposta che venne accolta.
Solo Sebastiano Venier vi oppose una certa, orgogliosa resistenza, ma alla fine si ritrovò solo a sostenere l'impresa motivando che in quel momento i turchi potevano in fondo ancora essere sconfitti dovendo ancora ricevere il grosso dei rinforzi.
Anche il comandante Zane, intristito e senza alcun entusiasmo faticava a sostenere il Venier e si piegò infine al generale desiderio di fare ritorno alla base. Zane si limitò a proporre che durante il viaggio di ritorno si cercasse di arrecare dei danni alle coste e ai porti dei nemici. Ma il progetto era impraticabile, era meglio non provocare in alcun modo i suscettibili turchi e farsene ritorno a casa. A Girolamo Zane venne così anche negato l'ultimo tentativo di salvare la propria reputazione, il proprio onore e con essi il comando generale della flotta.
Giunto a Corfù, anzi, dopo essersi anche salvato da un'epidemia scoppiata nel frattempo sulle sue navi, fu egli stesso ad inoltrare la richiesta presso il senato veneziano affinché lo sollevasse dall'incarico. La richiesta ovviamente venne accolta e al suo posto venne prontamente nominato Sebastiano Venier.  Così, con ''la testa" del povero comandante Zane si concludeva l'inglorioso tentativo cristiano di difendere Cipro.
In un certo senso, e solo a posteriori, fu anche una fortuna, nel senso che così andando le cose venne probabilmente evitata una vera e propria carneficina. Le navi turche, infatti, ancorate lungo le coste cipriote non erano le 150 preventivate dal comandante pontificio, ma più del doppio, circa 350! Contro una tale potenza le poche navi cristiane, circa 200, poco avrebbero potuto concludere.
Cipro era condannata, tanto più che i rinforzi e i rifornimenti cristiani dovevano giungervi solo dopo aver attraversato il Mediterraneo, mare ormai infestato da pirati e turchi che invece potevano ricevere rinforzi e munizionamenti comodamente dai loro porti più vicini che distavano da Cipro poco più di 70 chilometri.
Inoltre solo le due principali città, la capitale Nicosia, già caduta, e Famagosta, erano dotate di possenti mura  difensive, gli altri centri minori dell'isola erano invece pressoché sguarniti di ogni difesa e perciò facili prede del nemico.
Ora, la capitale Nicosia era caduta. Restava però l'altra grande città, Famagosta e Selim non perse certo tempo. Due giorni dopo la presa di Nicosia, infatti, il sultano, come di consueto, fece pervenire alle autorità veneziane della città un ultimatum, di per sè tanto atroce e cinico quanto assai eloquente. Con la richiesta di resa, infatti, Selim fece recapitare anche la testa mozzata di Niccolò Dandolo, luogotenente di Nicosia.
Malgrado l'intimidazione - "arrendetevi o farete presto la stessa fine"-, la risposta dei difensori di Famagosta fu la stessa delle altre città assediate: resistenza ad oltranza. Le mura della città erano state da poco completamente rinnovate sulla base delle più moderne tecniche difensive militari e alimentavano la certezza di una lunga resistenza.
Ma se le mura potevano rassicurare le autorità veneziane e gli abitanti di Famagosta, è anche vero che i difensori pronti a combattere alloro interno erano in realtà molto pochi, neppure 10.000 uomini contro i quasi 200.000 soldati turchi comandati dal feroce Mustafà.
Famagosta poteva tuttavia contare oltre che sulle sue ciclopiche mura, anche su due uomini già noti e abilissimi comandanti, ma che l'assedio di Famagosta rese eccezionali: Astorre Baglioni, perugino inviato poco tempo prima nell'isola quale comandante supremo delle forze terrestri e il capitano della piazza, Marcantonio Bragadin.
E così, tutto era pronto nella città per ricevere a testa alta i primi assalti. I turchi ben consapevoli della dura prova che la conquista di Famagosta rappresentava anche per un esercito potente come il loro non persero tempo e iniziarono le operazioni il 17 ottobre del 1570. Per tutto l'inverno malgrado i ripetuti attacchi di artiglieria la città non dette segno di cedimento. Per quasi otto mesi i turchi si affannarono, tentando di tutto, sulle mura indistruttibili, ma senza alcun risultato.


Si combatte ormai solo per la  sopravvivenza


Solo verso primavera, tuttavia, apparvero i primi segni di debolezza. I viveri iniziavano a scarseggiare pericolosamente e da maggio i turchi avevano ripreso a bombardare le mura con rinnovata violenza e determinazione. Invano Bragadin scrutava l'orizzonte in attesa dei nuovi rifornimenti mentre con l'estate la situazione prese a precipitare.
Le artiglierie di Mustafà non dettero tregua. Per tre giorni consecutivi dal 29 al 31 luglio e senza interruzione continuarono a lanciare i loro proiettili contro le mura. Incredibile la risposta della popolazione in quei terribili giorni. Si narra che tutti, dai vecchi ai giovani, dagli uomini alle donne, si impegnarono a rafforzare come potevano le difese militari di Famagosta. Si tentò ovviamente di rinforzare le mura là dove i colpi dei cannoni avevano fatto maggior danno mentre tutti gli uomini in grado di reggersi in piedi si armarono per combattere.
Malgrado il generoso tentativo, tuttavia, in realtà l'ora della resa era ormai vicina.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  4,  SCRIPTA EDIZIONI



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