giovedì 31 dicembre 2015

STORIA VENETA – 138: 1759 - DOPO ALCUNE TENSIONI COL PAPATO. IL DONO DEL PAPA

''Fissato il giorno 3 giugno alla solenne funzione della pubblica consegna della Rosa, imbarcati nei peattoni dorati della Signoria quaranta senatori, tra' quali erano i due cavalieri Giovanni Alvise IV Mocenigo, e Giovanni Antonio Diedo, e giunti alla abitazione del predetto nunzio apostolico, ed unitisi ivi col nunzio prefato e col portatore della Rosa monsignor Firrao, trasferironsi quindi nella Basilica di S. Marco, ove trattenuto si il nunzio per assumere i paludamenti sacerdotali affine di celebrare solennemente i divini misteri, recaronsi i senatori ed il Firrao nel Ducale Palazzo ... ".


ANNO 1759


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Chiuso lo scontro con i Turchi Venezia trova subito nuovi problemi in Italia dove si rifanno tesi i rapporti con il Papa. Alla fine però, sarà Venezia a dover cedere.


LA  SCHEDA STORICA  - 138


Con il trattato di pace firmato a Passarowitz nel 1718, si chiudeva per l'Europa Cristiana l'incubo della minaccia turca. Da allora infatti, l'impero ottomano non avrebbe mai più costituito una seria minaccia nè per l'Europa nè per la repubblica di Venezia.
Per la Serenissima veniva meno il suo storico nemico, quella paura che ciclicamente negli ultimi quattro secoli dilagava puntualmente nella città.
Con il nuovo secolo la repubblica aveva pagato anche il suo ultimo tributo di sangue nel duro scontro con gli "infedeli", ma tutto questo portava con sè imprevedibili conseguenze sul piano del prestigio interno e internazionale.
Venezia non era più la grande potenza marittima indispensabile baluardo contro gli eserciti turchi e nella penisola nessuno degli altri stati italiani o delle potenze straniere poteva dire di aver bisogno di Venezia, anzi!
L'Adriatico stesso, trascurato per molti decenni a causa del continuo impegno in Oriente, non era più il regno privilegiato di Venezia che ne perse il monopolio a favore delle imbarcazioni di altre e più concorrenziali potenze europee.
Inutili le continue proteste del governo veneziano in proposito, prive di ogni realistico sussidio.
Alla repubblica veneta, insomma, scomparsi i turchi, restavano ben poche ragioni di orgoglio e di vanto se non la sua storia, la sua bellezza e i suoi ricordi legati ad un glorioso passato.
Ma Venezia non era ancora pronta a cedere il passo alla storia e reagisce come di consueto con quello che le apparteneva e da sempre la caratterizzava, con lo sfarzo più sfrenato, con le feste, le mascherate e gli immancabili intrighi." …[...] si è ridotta ad una esistenza passiva, non ha più guerre da affrontare, trattati di pace da concludere o desideri da esprimere ... ": queste le parole di uno storico francese coevo su Venezia nel suo secolo d'oro.
Già perchè se il Settecento fu l'anno della crisi e della fine stessa della Repubblica, fu anche il periodo di maggior splendore, non solo vano e superficiale, ma anche culturale e artistico. Bastino i nomi di Tiepolo, Canaletto, Guardi, Longhi per la pittura, o di Vivaldi, Benedetto Marcello, Albinoni per la musica.
Insomma, a Venezia, esaurito lo storico ruolo di difesa contro i turchi, restava sempre una sorprendente capacità di reagire e di esprimersi.
Alla città restavano pur sempre anche i suoi dogi che rapidamente si susseguirono nei primi vent'anni del nuovo secolo. Giovanni Corner, Alvise III Mocenigo, Carlo Ruzzini fino ad Alvise Pisani e Pietro Grimani.
Il dogato di quest'ultimo doge non si sarebbe contraddistinto per nulla di particolare, se non per il ritorno sulla scena storica di un antico problema che sin dalle sue più lontane origini aveva tormentato la vita politico-religiosa di Venezia: il Patriarcato di Aquileia.


La questione del patriarcato di Aquileia ...


 La parte friulana della diocesi era infatti tagliata dal confine con l'Austria tanto che si era arrivati all'accordo che il Patriarca di Aquileia sarebbe stato eletto alternativamente da Venezia e da Vienna, accordo di fatto sempre ignorato dalla Serenissima almeno fino all'avvento al trono austriaco di una donna: l'imperatrice Maria Teresa che ora aveva tutte le intenzioni di esercitare il suo diritto di elezione.
Appellatasi così al Papa Benedetto XIV questi alla fine fece la sua proposta: dividere in due il Patriarcato e Venezia avrebbe avuto autorità solo sulla parte che rientrava nei suoi confini dovendo anche spostare la sede a Udine.
Per la Serenissima era una proposta inaccettabile! Aveva praticamente perso tutto e ora anche la giurisdizione sul Patriarcato di Aquileia veniva messa in discussione. Era troppo! Eppure alla fine dovette cedere anche su questo versante.
Non era più nelle condizioni di dettare le regole, regole che anche questa volta vennero scritte altrove grazie ad un altro Savoia, Carlo Emanuele III, la cui proposta di abolire il Patriarcato per sostituirlo con due autonomi arcivescovadi, veneziano ed austriaco, venne alla fine accettato anche da Venezia.
E così, dopo dodici secoli di vita, il Patriarcato di Aquileia veniva cancellato a tavolino. Un altro pezzo di storia di Venezia che se ne andava.
E ad andarsene fu anche il doge, presto sostituito con un nuovo eletto nella persona di Francesco Loredan.
Non doveva essere piaciuta troppo la vicenda del Patriarcato al nuovo doge che, come primo atto, dal sapore di una ritorsione, firmò infatti un editto nel quale inficiava tutti i privilegi, le indulgenze o le dispense che i veneziani avrebbero chiesto ed ottenuto dal Papa, il quale, ovviamente, rispose duramente ed estremamente irritato al governo veneziano.
A complicare le cose ci si misero poi anche due sovrani, Maria Teresa d'Austria e Luigi XV di Francia che si schierarono con il pontefice contro le posizioni del governo ducale.
Destino volle che il Papa poco dopo morisse, nel 1758, lasciando il posto proprio ad un veneziano: Carlo Rezzonico che salì al soglio pontificio con il nome di Clemente XIII.
La festa esplose in laguna alla notizia dell'elezione e tutte le tensioni, come era prevedibile, rientrarono improvvisamente.
La cortese e conciliante richiesta del nuovo papa al "suo" governo di ritirare l'editto sulle indulgenze, trovò questa volta facile accoglienza in Senato.
La ritrovata serenità nei rapporti fra Venezia ed il Papato trovò anche tangibile espressione in un dono del tutto speciale ed eccezionale al doge Loredan da parte del papa veneziano.
Fra le molte onorificenze della Santa Sede, una delle più antiche era quella della Rosa d'Oro, in genere conferita a coloro che si erano distinti in opere magnanime o virtuose. La rosa veniva benedetta dal pontefice in persona ogni quarta domenica di Quaresima e così fu anche in quell'occasione.
Il 3 giugno tutto era pronto per la cerimonia che si sarebbe svolta naturalmente in S. Marco alla presenza del Nunzio Apostolico. La saggia scelta del doge veniva così generosamente ricompensata dal suo pontefice.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  5,  SCRIPTA EDIZIONI




mercoledì 30 dicembre 2015

STORIA VENETA – 137: SI AVVIA A CONCLUSIONE LO SCONTRO COI TURCHI. LA MORTE DELL'ULTIMO EROE


Dal testo di Francesco Zanotto


"Sul rompere dell'alba del dì appresso, uditi alquanti colpi di cannone, si tenne che il nemico non fosse lungi: ordinò pertanto il Flangini moribondo di scioglier tosto la flotta, e dar la caccia a' nemici. - E perchè i suoi ordini non soffrissero dimora, quantunque presso a morte, volle essere recato sopra il cassero della propria  nave per ordinare egli stesso le manovre e la pugna; ma nello scuotimento del mare e della nave spirò egli tra le braccia de' suoi soldati,  lasciando un nobilissimo esempio di valore ... ".


ANNO 1717


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Nel 1717 si avviava verso la fine il secolare scontro tra Venezia e i turchi. La Repubblica paga il suo ultimo tributo di sangue per la salvaguardia di un impero ormai inesistente ...


LA SCHEDA STORICA – 137


L'effetto della straordinaria vittoria sui turchi a Corfù, fu a dir poco esaltante per la Repubblica veneta. I turchi vi avevano subito una dura ed umiliante sconfitta, ma ancora la partita non poteva ritenersi conclusa.
E così per tutto l'inverno l'Arsenale veneziano lavorò a pieno ritmo sfornando per la primavera del 1717 una flotta nuovissima di 27 navi pronte a scendere in mare quanto prima.
Il comando venne allora affidato ad un giovane ammiraglio, Lodovico Flangini, l'ultimo eroe della Serenissima nel suo secolare scontro con l'impero turco.
Il  Flangini aveva assunto la carica straordinaria al posto di Andrea Cornaro e prontamente si diresse con le sue 27 navi alla volta dell'arcipelago greco. Il 6 giugno era a Stalimente spostandosi successivamente verso lo stretto dei Dardanelli, passaggio obbligato per le navi turche d'uscita dal porto di Istanbul.
I turchi avvistate le navi veneziane, uscirono presto con 34 delle loro raccogliendo l'invito alla battaglia. Era il 12 giugno del 1717 e mancavano appena due ore al tramonto.
Otto navi turche attaccarono subito tre vascelli veneziani che tuttavia riuscirono a respingerle mentre il capitano turco puntava decisamente contro la capitana comandata dal Flangini.  La battaglia scoppiò a quel punto furiosa e senza esclusione di colpi coinvolgendo completamente entrambe le flotte.
All'alba i veneziani si ritrovarono alla punta di Lemno a circa 15 miglia dal nemico al quale mancavano all'appello due navi e altre più piccole imbarcazioni. Pur intravvedendosi, tuttavia, le due flotte non si muovevano, scoprendosi paralizzate dalla totale mancanza di vento che le rese inoperose ed immobili per alcune ore.
Al primo alito di brezza, la situazione prese a muoversi. I turchi infatti puntarono immediatamente contro due navi veneziane di retroguardia costringendo il capitano Flangini a manovrare per poterle soccorrere. A quel punto però i turchi decisero per il ritiro non volendo ancora rischiare. Lo scontro decisivo infatti sarebbe scoppiato solo due giorni dopo, il 16 giugno, quando i turchi poterono contare sul vento a favore.
La battaglia che ne seguì si protrasse per circa tre ore durante le quali il Flangini animò continuamente i suoi uomini riuscendo alla fine a fracassare la capitana nemica e ad affondare tre grossi vascelli.
La vittoria a quel punto era in pugno, ma sarebbe costata cara al giovane comandante veneziano che venne infatti improvvisamente colpito.  Lo sconcerto che presto si diffuse tra le fila veneziane fu tale da consentire ai turchi di ritirarsi momentaneamente.
Il giorno dopo lo scontro riprese su ordine dello stesso Flangini ormai moribondo. La sua condizione infatti, non gli impedì di farsi condurre sopra il cassero della sua nave per poter assistere alle ultime, vittoriose fasi della battaglia alla  quale volle partecipare fino all'estremo respiro. Morì così fra le braccia dei suoi uomini, certo della vittoria che aveva portato alla Repubblica.
Se per lo sfortunato Flangini la partita poteva considerarsi conclusa, non così per i turchi e la flotta veneziana, impegnate in un altro scontro solo un mese dopo allargo di Matapan dove ancora una volta comunque la flotta nemica venne battuta e costretta al ritiro dalle navi comandate da Andrea Pisani.
Il comandante veneziano riuscì anche, prima dell'arrivo della nuova stagione invernale, a riconquistare Prevesa e Vonitsa mentre anche in Dalmazia Alvise Mocenigo infilava una vittoria dietro l'altra in nome di S. Marco.
Ma il colpo decisivo per i turchi arrivò dal principe Eugenio di Savoia che già li aveva duramente sconfitti alcuni anni prima nelle pianure ungheresi.
Anche in quell'occasione il Savoia riuscì nell'impresa conquistando niente meno che la roccaforte dei turchi nei Balcani: Belgrado. A quel punto i turchi, che battevano in ritirata su tutti i fronti, si videro costretti a chiedere la pace.
 La riscossa dell'Europa cristiana, seppur tardiva, si dimostrò sul campo in tutta la sua efficacia. Le parti in causa si incontrarono questa volta a Passarowitz nel maggio del 1718 per le trattative di pace. Mediatori: Inghilterra e Olanda, ma per Venezia si stava preparando un'amara sorpresa.
Il suo maggior alleato, l'impero, era troppo impegnato altrove per rivolgere una seria e motivata attenzione al tavolo delle trattative lasciando solo il rappresentante veneziano, Carlo Ruzzini a difendere gli interessi della Serenissima di fronte agli altri paesi europei. Agli occhi di questi ultimi il vero ed unico eroe della situazione non era Venezia, bensì Eugenio di Savoia.
E così Venezia non riotteneva nè la Morea, nè Suda o Spianlonga, nè la possibilità di espandersi in Albania come richiesto dal povero Ruzzini che invano per sei ore parlò animatamente in favore del suo governo.
Venezia dovette accontentarsi, così, solo di alcune isole di scarso valore strategico - eccetto Corfù naturalmente - e di alcune fortezze lungo il confine dalmata in una scomoda convivenza con i turchi. Questo era tutto quello che la Serenissima portava a casa dopo quattro anni di guerra e di esaltanti vittorie!
Quelli furono anche i suoi ultimi e mai più modificati confini fino alla caduta. Il 21 luglio del 1718 la firma del trattato sanciva infatti questo stato di cose. Era un boccone amaro da mandare giù per la Repubblica, un'umiliazione alla quale ben presto avrebbe fatto seguito anche la beffa.
Esattamente due mesi dopo la firma del trattato, Venezia, dopo l'irriconoscenza degli uomini, doveva infatti fare i conti con le forze del destino e della natura. Un fulmine durante uno spaventoso temporale, colpì in pieno la polveriera del castello di Corfù. Ne seguirono esplosioni a catena in tutti gli altri depositi. Un inferno che devastò completamente l'antica cittadella provocando numerosi morti e feriti. Quello che non era riuscito ai turchi solo due anni prima, riuscì nelle sue conseguenze molto più devastanti alla natura, quella stessa natura che allora si era scatenata sui turchi in fuga.
Quella tragedia dovette risuonare funestamente a Venezia, quasi un'ulteriore conferma della precarietà e dell'inconsistenza del suo ormai esiguo e fantomatico impero.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  5,  SCRIPTA EDIZIONI


martedì 29 dicembre 2015

STORIA VENETA – 136: 1716 - RIPRENDE ANCORA LO SCONTRO CON I TURCHI. SI DIFENDE CORFU’


Dal testo di Francesco Zanotto


" Fulminava dalle mura il cannone, la moschetteria non faceva mai tregua: erano lanciati sui Turchi sassi, bombe, granate ... Durava già da sei ore quell'ostinata tenzone, e i Turchi raddoppiavano l'impeto. Allora il valoroso Schoulembourg si pose alla testa di ottocento uomini ed andò ad assalirli di fianco; cosicchè non potendo costoro  resistere al nuovo conflitto, a cui costringevali il prode comandante, si diedero alla fuga abbandonando il rivellino. Vi si trovarono venti bandiere e duemila morti: i fuggitivi furono inseguiti fino alle loro trincee".


ANNNO 1716


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Con il Settecento Venezia inaugura in Europa una politica di neutralità ritrovandosi invece nuovamente impegnata nelle acque egee contro i turchi che riconquistano gran parte dei territori persi 15 anni prima.  A Venezia non resta che difendere l'ultima roccaforte ...


LA SCHEDA STORICA  -  136 


 E la pace arrivò. Impero e Francia avevano bisogno di dedicarsi ora alle loro faccende dinastiche che preoccupavano non poco altre due potenze europee quali l'Inghilterra e l'Olanda. Venezia dal canto suo poteva ritenersi soddisfatta dopo le ultime rivincite sui turchi, ugualmente il re di Polonia.
Vennero così aperte le trattative con il Sultano incontrato dai "Grandi" d'Europa a Karlowitz il 13 novembre del 1698.  Il Sultano era ben disponibile, ma non certo a svendersi e così le trattative si rivelarono molto più complesse del previsto. In fondo l'Impero turco non si era affatto arreso e la pace stava a cuore tanto a questo che ai cristiani.
Per quanto riguardava i veneziani in particolare, la Serenissima poteva tenersi la Morea e alcuni centri fortificati nell'Egeo, ma il Sultano rivoleva assolutamente Atene. Scelta non facile per il governo veneziano che alla fine, tuttavia optò per la soluzione più saggia accogliendo la richiesta del Sultano.
Il secolo si chiudeva così con buone prospettive di pace per l'Europa, ma i fatti ancora una volta e molto presto avrebbero riconsegnato la parola alle armi.
Il 7 febbraio del 1700 infatti, moriva il doge Silvestro Valier, ma anche l'inetto re spagnolo Carlo II aprendo così uno dei più funesti periodi di guerra della  storia europea che si trovò nuovamente spaccata e belligerante su due opposti fronti, quello francese e quello imperiale con i suoi alleati per il possesso del trono di Spagna.
Quattro anni di guerra aspettavano l'Europa alla fine dei quali, a Utrecht, veniva ridefinita la carta geo-politica del Vecchio Continente.
La Serenissima era riuscita con grandi acrobazie a mantenersi neutrale per tutta la durata del conflitto malgrado il suo entroterra fosse stato lo scenario di duri scontri fra gli eserciti stranieri in contesa. Poco male, dal momento che le sue attenzioni venivano invece nuovamente richiamate nell'Egeo dove la pace firmata con il turco 14 anni prima, stava pericolosamente scricchiolando.
Era ancora infatti una prospettiva di guerra quella che si dischiudeva per Venezia verso la fine del 1714.  
Allora il Gran Visir turco fece sapere al governo veneziano che, a seguito di gravi incidenti occorsi a delle loro navi nel Mar Adriatico, il Sultano dichiarava guerra alla Repubblica. Al di là delle scuse, il fine apparve subito chiaro: riconquistare al più presto la Morea perduta 25 anni prima.
Per Venezia si trattava della sua ultima grande affermazione in Oriente. Perderla significava un grosso colpo alla sua immagine e al suo prestigio.
I turchi non persero certamente tempo muovendosi rapidamente con un esercito in Tessaglia e con una flotta nelle acque egee.
La Serenissima colta di sorpresa da questa rapida iniziativa, invano chiese aiuto ad un'Europa distratta subendo così nel corso di tutto il 1715 una serie di cocenti sconfitte.
Egina e Corinto vennero infatti facilmente riprese dai turchi e così gli ultimi importanti possedimenti veneziani in quelle acque, le isole di Spinalonga e di Suda. Tutta la Morea alla fine del 1715 era stata così riconquistata dai turchi.
L'impresa peloponnesiaca che tanto aveva esaltato i veneziani e il comandante Francesco Morosini, veniva vanificata nel giro di un anno.
Mentre i turchi tornavano ad essere i padroni delle porte dell'Adriatico (Morea e Candia) a Venezia cadevano le prime teste. Il comandante Dolfin venne infatti destituito e rimpiazzato con Andrea Pisani nel 1716. A questi spetterà l'arduo compito di difendere l'ultima roccaforte veneziana nell' area egea: Corfù.
L'isola era già oggetto di attenzione da parte del Sultano che infatti vi stava spedendo 30.000 uomini per conquistarla. Il 5  luglio la flotta turca entrava nel canale di Corfù dove si registrarono i primi scontri.
Malgrado le navi del Cornaro tenessero testa alla flotta nemica, i turchi riuscirono però a spostarsi sul lato settentrionale dell'isola, accampandosi presso le saline di Potamò. Da lì mossero presto l'assedio alla città difesa dal provveditore Antonio Loredano ma soprattutto dalle eccezionali e nuove opere di fortificazione fatte realizzare dal maresciallo Johan Matthias Von der Schulenburg, entrato al servizio della Repubblica.
E così l'assedio si protrasse per tutta l'estate senza alcun esito definitivo, fino almeno al 18 agosto quando il comandante turco decise all'improvviso di sferrare l'attacco generale. Decisione appunto improvvisa dettata probabilmente dalla notizia che l'Impero stava scendendo in guerra a fianco di Venezia. Si dovevano assolutamente accelerare i tempi della conquista.
Quel giorno, così, un esercito di 30.000 uomini al suono di trombe, tamburi, fucili e grida terrificanti,  si scaraventò contro le fortificazioni della città dove tutta la popolazione civile, uomini, donne, vecchi e fanciulli veniva intanto mobilitata.
Dopo sei ore di irrisoluto scontro, lo Sculenburg decise con 800 uomini scelti di aggredire il nemico sul fianco. Sorpresi dall'attacco i turchi si diedero presto a precipitosa fuga lasciando sul campo comunque 2000 uomini. Il resto dell'esercito impegnato nell'assedio vista la rotta della guarnigione decretò la ritirata.
La notte successiva iniziarono le operazioni d'imbarco per abbandonare l'isola, ma ancora non era finita. Un furioso temporale infatti, si abbattè sulla zona investendo in pieno Corfù e il campo dei turchi che si trasformò presto in una palude dove gran parte dell'artiglieria pesante si ritrovò immobilizzata nel fango mentre le navi attraccate allargo, sbattute l'una contro l'altra dalla burrasca, si sfracellavano sotto gli occhi dei turchi impotenti.
Tutto sembrava congiurare contro di loro. Corfù si era trasformata da una facile conquista in una trappola dalla quale i turchi non vedevano l'ora di uscire. Quel temporale sancì ulteriormente la vittoria sul campo di Venezia e dell'abilissimo e temerario maresciallo Von Schulenburg.
Questi venne generosamente ricompensato al suo rientro con una spada d'oro e una pensione vitalizia di 5000 ducati d'oro. Poteva essere generoso il governo ducale, in fondo il maresciallo aveva garantito il possesso dell' importante isola.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  5,  SCRIPTA EDIZIONI


lunedì 28 dicembre 2015

STORIA VENETA – 135: 1698 - DOPO GLI ONORI RIPRENDONO LE BATTAGLIE. VITTORIA A METELLINO!



Dal testo di Francesco Zanotto


''Non è a dire qual nuovo e sanguinoso combattimento si ridestasse giacche' prossimi i barbari a montare sulla puppa, facean cadere i marinai ed i soldati che resistevano. Nulla però valse loro per conseguirla; imperocchè animati tutti dall'intrepido valore del Cornaro, col fuoco incessante dei bronzi e dei fucili non poterono vincerla, e si  chè gloriosamente uscita da quella orrida mischia, potè collo aiuto del Cielo e per l'indomito animo de' suoi difenditori, giungere ed unirsi alla flotta ormai per lungo tratto da essa divisa".


ANNO 1698


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Dopo la morte di Francesco Morosini, Venezia prosegue nello scontro contro i turchi nell'Egeo.  A procurare una straordinaria vittoria alla Serenissima il nuovo comandante Jacopo Cornaro ...


LA SCHEDA STORICA  - 135


 La situazione per le navi veneziane di stanza nell'Egeo, si era dunque sensibilmente aggravata tanto da dover richiedere ancora una volta la presenza dell'ormai malato ed anziano Morosini. Questi nel 1690 aveva lasciato il comando della sua flotta a Girolamo Cornaro, che pur avendo conquistato la fortezza di Malvasia, mori poco dopo, a Valona, di malattia.
Il suo successore, Domenico Mocenigo, si rivelò ben presto un incapace e nel 1692 abbandonò l'impresa di conquista della Canea.
I turchi intanto, approfittando della pausa invernale (92-93), avevano rinforzato le difese proprio di quella regione intuendo le intenzioni dei veneziani. Non solo. Anche a Negroponte e a Corinto gli ottomani si erano ulteriormente organizzati mentre anche dei forti venti contrari persuasero il Morosini a non intraprendere alcuna azione.
I mesi intanto trascorrevano vuoti e nell'immobilismo più totale, quasi un triste preludio all'imminente fine dello stesso comandante veneziano.
Per l'inverno del 1693 i veneziani ripararono a Nupulia dove, dopo un mese di sofferenze causate da calcolosi biliare, il vecchio doge infatti si spegneva il giorno dell'Epifania del 1694.
Con lui sembrò spegnersi anche l'ultima speranza per Venezia di concludere dignitosamente la campagna nel Peloponneso che aveva avuto proprio nel Morosini il suo principale e più valoroso protagonista.
Moriva da comandante, Morosini, nelle zone che lo avevano visto solo pochi anni prima trionfatore ed ora invece spegnersi nel silenzio delle armi.  
Venezia perdeva così uno dei suoi ultimi eroi, sicuramente il suo ultimo doge-guerriero.
La Serenissima infatti, non perdeva allora solo il suo comandante generale, ma anche il proprio doge, cariche che Francesco Morosini infatti aveva praticamente riunito nella sua persona.
Per ovviare quindi al ripetersi di questo inconveniente - erano in molti fra l'altro a vederne una pericolosa concentrazione di potere -, si pensò bene d'ora in poi di tenere accuratamente separate le due cariche.
E così, se il nuovo doge di Venezia fu Silvestro Valier, il comando della flotta venne invece conferito ad Antonio Zen che imbarcatosi nell'estate del 1694 approdò all'isola di Scio i primi giorni di settembre.
Attese a lungo tuttavia il nuovo comandante prima di scontrarsi con i turchi, scontro che ebbe inizio infatti solo il 9 febbraio dell'anno successivo, il 1695.
Fu una battaglia durissima che contò solo nella sua prima fase 465 morti tra le fila dei veneziani una battaglia incerta fino alla fine nel suo esito, quando, il 19 febbraio i capitani veneti decisero di abbandonare ai turchi l'isola conquistata neppure sei mesi prima.
L'inettitudine e la codardia del comandante Antonio Zen, vennero severamente punite dal Senato della Repubblica. Tradotto in ceppi a Venezia, lo Zen morirà  infatti in prigione nel 1697.
Morto un comandante, se ne fece un altro. Ad Alessandro Molin spettò l'arduo compito di ridare fiducia ai veneziani e possibilmente altre vittorie.
L'abilità del nuovo comandante rispose in parte a queste aspettative sbaragliando una flotta nemica al  largo di Scio e respingendo poco dopo un tentativo di sbarco nell'Argolide da parte dei turchi che vennero nuovamente sconfitti nel settembre del 1698.
Venezia riacquistava così, grazie alle nuove vittorie, il parziale controllo dell'Egeo.
In quel medesimo anno però, per il Molin scadevano i tre anni previsti per la carica di comandante, carica che veniva assunta ora da Jacopo Cornaro.
Questi riunì subito un consiglio generale di guerra per stabilire le future strategie. Il cavaliere Dolfin prendeva così il comando delle navi che condusse fino all'isola di Lemno mentre anche i turchi iniziavano a loro volta a muoversi nuovamente uscendo con una flotta, comandata da Capitan Bassà, detto Mezzomorto, dal porto di Istanbul.
Nel frattempo si ricongiungevano alle navi del Dolfin quelle del comandante generale Cornaro, pronte a dar battaglia alla flotta nemica che sembrava più temporeggiare che cercare lo scontro con le navi venete numericamente molto superiori.
Tanto indietreggiò la flotta turca da arrivare in prossimità dello stretto dei Dardanelli dove per le secche, la capitana di Tunisi si ritrovò irrimediabilmente incagliata e quindi persa.
Trascorse comunque ancora un mese durante il quale le due flotte, pur non perdendosi mai di vista, evitarono lo scontro.
Solo il 21 settembre del 1698 le navi veneziane presero finalmente l'iniziativa stringendo quelle turche nelle acque presso Metellino dove scoppiò presto una furibonda battaglia.
Tuttavia a mettere in difficoltà le navi veneziane, non furono solo le navi nemiche, ma incredibilmente anche una nave veneta, quella comandata da Marc'Antonio Diedo che incocciando di poppa con quella del Dolfin nella mischia della battaglia, si ritrovò sospinta dall'urto nel bel mezzo del fuoco nemico, in uno scontro che si protrasse per circa due ore.
Fortunatamente arrivarono i primi soccorsi, con la nave comandata da Fabio Bonvicini.
Non andavano meglio nel frattempo, le sorti per la nave ammiraglia comandata dal Cornaro che quasi subito dopo l'inizio della battaglia, era stata gravemente danneggiata in più punti, tanto da dover iniziare le manovre di ritiro.
I turchi accortisi delle disastrate condizioni della nave veneziana, malgrado fosse ormai imminente la sera, decisero di attaccarla a suon di cannonate.
Si scatenò così un'ultima, cruenta battaglia, che vide trionfare alla fine il valore ed il coraggio degli equipaggi veneziani che riuscirono, seppur malconci, ad imboccare la rotta del ritorno riagganciando il resto della flotta ormai già a debita distanza.
Ma altre questioni in quel momento stavano surriscaldando l'orizzonte politico in Europa, questioni dinastiche relative al trono spagnolo al quale aspiravano contemporaneamente due alleati della Lega cristiana: l'imperatore ed il re di Francia, Luigi XIV.
Una profonda crepa si stava aprendo così nel fronte anti-turco mentre anche Venezia, dopo molti anni di rinnovato impegno militare, anelava ad una pace duratura.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  5,  SCRIPTA EDIZIONI



domenica 27 dicembre 2015

STORIA VENETA – 134: 1690 - E' VENEZIANO IL NUOVO PAPA ALESSANDRO VIII . ONORI PAPALI Al DOGE


Dal testo di Francesco Zanotto


Quindi apparecchiata la Basilica di S. Marco a festa, il dì 7 maggio 1690, discese il Morosini dal Palazzo Ducale. Allora l'arcivescovo lesse le preci di metodo sul rituale sostenuto dal proprio cappellano che faceva l'ufficio di suddiacono, ed il diacono lesse poi il breve pontificio, datato 2 aprile 1690, col quale Alessandro conferiva al Doge quell'onore, e quindi pose in capo al donato il pileo; intanto che Michel Angelo Conti che stava alla destra del celebrante, denudato lo stocco, attendea che si compisse quell'atto per cingerlo poi al fianco del Doge medesimo.


ANNO 1690


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


Nel 1689 saliva al soglio pontificio il veneziano Pietro Ottoboni che pochi mesi dopo invierà al doge Morosini  le onorificenze dello stocco e del pileo quale riconoscimento del suo decennale impegno in difesa della cristianità. Giusto il tempo di ricevere i due doni benedetti, che Morosini dovrà ripartire per un nuovo,  estremo impegno bellico nell'Egeo ...


LA SCHEDA STORICA  - 134


L'anno in cui Francesco Morosini si vide costretto ad intraprendere la strada del ritorno in patria abbandonando le acque egee, era il 1689. In quel medesimo anno, il 12 agosto, moriva intanto a  Roma il pontefice Innocenzo XI.
Gli alti prelati si riunirono così per eleggere il nuovo papa che, forse non casualmente, venne scelto tra le fila dei cardinali veneziani nella persona di Pietro Ottoboni.
Scegliere un veneziano quale nuovo pontefice ebbe il sapore di un voluto ed altissimo riconoscimento dato alla Serenissima Repubblica per il suo continuo e generoso impegno nella lotta contro i turchi. Una lotta che specialmente negli ultimi anni si era fatta particolarmente delicata per l'arrivo degli eserciti ottomani fin sotto le mura di Vienna, la capitale dell'impero asburgico e ultimo baluardo della cristianità.
Conferire allora l'alta carica al rappresentante di una potenza, quella veneziana, che più di qualunque altra si era da sempre spesa nei tentativi di fermare l'avanzata nemica, sembrò allora un ufficiale ed unanime riconoscimento di questo suo impegno.
E così, un veneziano saliva sul trono pontificio con il nome di Alessandro VIII.
L'Ottoboni, patrizio veneziano, oltre che papa, non perse certo tempo una volta assunta l'alta carica, ad esercitare tutta la sua autorità a favore in particolare di due suoi nipoti Pietro ed Antonio. Entrambi vennero creati Cavalieri di San Marco, mentre Antonio l’Ottoboni  lo volle  con sè a Roma dove gli conferì la carica di principe del soglio e Generale delle Armi di Santa Madre Chiesa.
Non si dimostrò generoso solo con i suoi parenti Pietro Ottoboni.  Benchè fosse diventato Papa non poteva infatti di certo scordarsi di essere anche e innanzitutto un veneziano e in virtù di questo anche verso la sua patria e il proprio doge, non mancò di dimostrare presto tutta la sua riconoscenza.


Ma Morosini deve partire per contenere il nemico di sempre ...


Francesco Morosini si era da sempre distinto quale valoroso comandante della flotta veneziana, per il  suo coraggioso e disinteressato impegno nella lotta contro i turchi.
Fu lui a resistere fino all'ultimo in Candia assediata, fu sempre lui a portare 15 anni dopo la flotta veneziana a nuove ed insperate vittorie sull'eterno nemico arrivando a conquistare in nome della repubblica, la stessa Atene.
La nomina ducale era stato il massimo che la sua città poteva offrirgli in segno di gratitudine, ma ora anche la Chiesa doveva fare la sua parte in nome dell'intera cristianità che comunque il papa rappresenta.
Alessandro VIII  fece così recapitare al doge  due simboli che la Santa Chiesa consegnava per tradizione  agli  eroi  che avevano combattuto gloriosamente in difesa della religione cristiana: il pileo e lo stocco ovvero un copricapo riccamente decorato e una specie di spada entrambi benedetti dallo stesso pontefice.
A ricevere il sacro dono in precedenza erano stati solo altri due illustri veneziani: i dogi Francesco Foscari, nel 1450, e Cristoforo Moro, nel 1463.
Per la nuova occasione la Basilica di S. Marco venne magnificamente addobbata a festa il 7 maggio del 1690. Il Morosini uscì allora da Palazzo Ducale accompagnato dai Senatori e dai Magistrati e si recò nella chiesa dove si sarebbe svolta la solenne cerimonia.
Compiuti i sacri riti l'arcivescovo pose sul capo del doge il pileo benedetto mentre il cameriere di onore del pontefice, Michelangelo Conti, sfoderato lo stocco, lo cinse alla vita del Morosini.
Ultimata la cerimonia, i due doni vennero depositati nel Tesoro della Basilica dove rimasero fino alla caduta della repubblica. Purtroppo il pileo, ornato d'oro e di perle preziose, venne successivamente trafugato mentre a testimonianza della suggestiva investitura restarono solo la spada e la cintura di velluto ricamata col duplice nome di Pietro Ottoboni e di Alessandro VIII.


Il vecchio doge ritorna a fare il guerriero...


Tuttavia, le mutevoli circostanze storiche, costringeranno ben presto Francesco Morosini a reindossare  ben presto un altro e ben più "pesante" copricapo e ad impugnare non un'elegante spada ma il bastone del comando.
La guerra con il Turco infatti era tutt' altro che conclusa nel 1690 ed il Morosini, solo tre anni dopo, si vide nuovamente proiettato su uno scenario di guerra.
Nelle acque dell'Egeo infatti, dopo la partenza dello stesso Morosini, le cose non stavano andando certo per il meglio per le navi veneziane. L'impresa peloponnesiaca, iniziata sotto i migliori auspici, stava pericolosamente ripiegando verso situazioni dagli sviluppi imprevedibili e assai incerti.
I veneziani, a quel punto, tornarono a guardare alloro valoroso doge-comandante come ad una sicura risposta. Malgrado la salute ancora malferma e l'età di 74 anni, Morosini non poteva certo deluderli.
E così, nel maggio del 1693, il vecchio doge deponeva le insegne del potere ducale per ripresentarsi al suo popolo in veste di comandante generale.  Morosini tornava così a S . Marco, ma in ben altra veste e impugnando questa volta il bastone del comando.  
Ad attenderlo dentro e fuori la Basilica, una folla echeggiante e fiduciosa. Nella Piazza, una serie di archi trionfali che il doge attraversò compiendo l'intero giro della stessa piazza in una sorta di investitura collettiva.
L'indomani mattina, il comandante Francesco Morosini era pronto per il nuovo imbarco. Salito sul Bucintoro Morosini, attraversando una laguna punteggiata di gondole e di veneziani festanti, venne accompagnato a S. Nicolò di Lido.
Lì lo attendeva la sua galea, la "Generalizia", che lo avrebbe ricondotto nelle turbolente acque del mare greco, alla volta di Malvasia dove già lo attendeva il grosso della flotta veneziana.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  5,  SCRIPTA EDIZIONI


sabato 26 dicembre 2015

STORIA VENETA – 133: 1690 - MOROSINI E' IL NUOVO DOGE. VENEZIA RINGRAZIA IL SUO COMANDANTE


Dal testo di Francesco Zanotto


"Il  Senato ed il popolo veneziano preparato era a riceverlo con tutta la pompa dovuta al suo grado ed ai suoi meriti.  […] Sbarcava quindi il Doge venuto al Lido, al suono festivo de' sacri bronzi, ed al tuonare delle artiglierie de' legni pubblici e del castello di Santo Andrea; ed era incontrato dall'abate di quel monastero di San Nicolao, e dal  corpo intero de' Senatori; e ivi giunto il bucintoro, questo saliva, al continuo fragore de' bronzi guerrieri.  Vestiva egli ricchissimo manto aurato, ed avea sul capo il berretto in costume di generale supremo del mare, ed il bastone, accennante cotal  grado, impugnava nella destra."


ANNO 1690


Giuseppe Gatteri


Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.


L'11 gennaio del 1690, Francesco Morosini fa finalmente rientro a Venezia dove lo aspetta un accoglienza trionfale.  A ritornare infatti non era solo un comandante, ma anche il nuovo doge.


LA SCHEDA STORICA - 133


Dopo  la conquista di Napoli di Romania, le armate e le navi cristiane proseguirono anche per tutto l'anno seguente nella loro vittoriosa avanzata in territorio nemico. Lepanto, Patrasso e Corinto vennero conquistate proprio in quell'anno dalle navi dell'inarrestabile ed intrepido Morosini, le vittorie scatenarono ovviamente l'entusiasmo a Venezia e procurarono allo stesso comandante un busto bronzeo in Palazzo Ducale.
Sull'onda delle inattese conquiste, le navi del Morosini si portarono così lungo le coste dell'Attica puntando niente meno che su Atene.  
L'antica città da secoli ormai seguiva il suo triste destino di decadenza. Dell'antica e splendida città antica, culla della cultura e della civiltà occidentali, era rimasto poco più che il ricordo.
Eppure questo da solo bastava per fare della conquista di Atene un motivo di forte e profonda emozione. Tuttavia a prevalere non furono certo gli aspetti emozionali quanto quelli militari.
Una volta posto l'assedio alla città da parte dei Veneziani, infatti, accadde poco dopo il fattaccio. Morosini aveva fatto puntare un mortaio proprio sul Partenone, l'antico tempio della città sull'acropoli.
 Dal mortaio il 26 settembre del 1687 verso le sette di sera partì improvviso un micidiale colpo che prese  in pieno lo storico monumento simbolo di Atene e della sua passata grandezza. Non bastava. I danni dell'esplosione infatti vennero ulteriormente ingigantiti dal fatto che i turchi a loro volta avevano trasformato il Partenone in una polveriera. L'esplosione ebbe così proporzioni devastanti e deturpò per sempre il tempio distruggendone completamente la cella e numerose colonne con la loro trabeazione a rilievi.
Non contento, il Morosini, una volta conquistata la città, volle recuperare i cavalli e il carro di Atena che si trovavano sul frontone del tempio, ma al momento dello sciagurato furto, il gruppo scultoreo andò in mille pezzi.  
Lo scempio di uno dei più antichi monumenti d'Europa e simbolo stesso della sua civiltà, si era miseramente compiuto.
Poco importava in quel momento ai soldati veneziani la misera fine di tanta bellezza sopravvissuta nei secoli. Troppo grande e cieco era l'entusiasmo per la vittoria che procurò al Morosini niente meno che la nomina a nuovo doge nel marzo del 1688, nomina avvenuta eccezionalmente all'unanimità e al primo scrutinio.
Il segretario Giuseppe Zuccato venne incaricato di portare le insegne ducali al neo eletto dal momento che neppure l'alta nomina sembrò distogliere il Morosini dal suo impegno nell'Egeo che anzi proseguì a pieno ritmo.
L'8 luglio del 1688 infatti, il comandante veneziano fece uscire le sue navi dal porto di Atene puntando dritto su Negroponte. Veneziana per oltre 200 anni, Negroponte venne strappata alla Serenissima dai turchi nel 14 70 con orribile strage della popolazione civile  il cui ricordo veniva ora ravvivato dalla possibilità della sua riconquista.
Ma ad attendere i veneziani e le truppe del conte svedese Von Konigsmark, non c'erano questa volta solo i turchi - numericamente molto, molto inferiori ai cristiani -, ma anche un imprevisto destino di morte che avrebbe infatti ben presto sterminato l'esercito alleato con una terribile epidemia, forse di malaria.
Lo stesso comandante svedese finì la sua esistenza in quelle tragiche circostanze e neppure l'arrivo di 4000 soldati freschi da Venezia mutò la situazione che si fece veramente tragica anche a seguito di una ammutinamento degli uomini. Morosini a quel punto fu costretto a retrocedere dall'intento e a toglier l'assedio.
La sconfitta dovette risultargli tanto più bruciante per essere stata causata da agenti esterni -l'epidemia - e di fatto dal tradimento dei soldati. Doveva assolutamente recuperare la faccia, tanto più ora che era anche diventato doge!
E così, l'orgoglioso comandante veneziano decise di puntare su di un altro obbiettivo: la fortezza di Malvasia nel Peloponneso sud-orientale. Tuttavia anche Malvasia si trasformò per il Morosini in un altra cocente sconfitta personale.
Fiaccato nel fisico da una grave malattia, Morosini si vide infatti costretto a cedere il comando a Girolamo Cornaro. Questi conquistò alla fine la cittadella fortificata che tornò così veneziana dopo 150 anni, ma Francesco Morosini allora era già sulla nave che lo avrebbe riportato a Venezia.


E Venezia si dimostra magnanima con quel suo condottiero ...


Era il mese di gennaio del 1690 quando il comandante veneziano rimise piede nella sua città.
Ad accogliere  il ''Peloponnesiaco'', come ormai era chiamato dal popolo il Morosini, c'erano i membri del Senato e una moltitudine di persone, oltre a vari rappresentanti stranieri.
Le ultime tristi vicende avevano appena offuscato lo splendore delle precedenti imprese e in fondo a fare ritorno a Venezia non era solo un comandante alquanto provato, ma anche il doge di tutti i veneziani.
Malgrado questo, l'indole guerriera aveva fatto indossare al Morosini in quella giornata gli abiti del comandante anche se ora si trovava nel più rassicurante Bucintoro, la nave ducale.
Risalito con questo il Canal Grande fino alla Piazzetta, Morosini venne accolto da un folla festante e da un arco trionfale fatto erigere per l'occasione. Un corridoio di colonne, con armi, trofei e scudi lo condusse poi fino a Palazzo Ducale, splendidamente addobbato a festa.
Morosini si accingeva così dopo anni e anni spesi al servizio della Repubblica ad impugnare le redini del potere supremo, dismettendo le vesti del comandante per indossare quelle del doge.
Con l'assunzione alla massima carica dello stato, Francesco Morosini poteva ritenersi soddisfatto. In quelle ore di giubilo e di calorosa riconoscenza anche le umilianti operazioni di Negroponte e Malvasia gli dovettero sembrare alquanto lontane.


Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,  volume  5,  SCRIPTA EDIZIONI