martedì 31 agosto 2010

IL RITMO PIPINIANO O VERSUS DE VERONA


Iconografia-Rateriana


SOMMARIO.
- Prime pubblicazioni - I codici di Lobbes e di Rimini - Edizioni recenti - Autore - Epoca - Partizione del Ritmo - Sua importanza - Testo dei «Versus de Verona ».

Per la storia della chiesa veronese è di sommo interesse un  carme latino della fine del secolo VIII, o del principio del secolo IX, detto Ritmo Pipiniano, in alcuni codici Versus de Verona, in altri De laudibus Veronae. Una parte di esso fu pubblicato sulla fine del secolo XVI dal nostro storico Dalla Corte (1); più tardi fu pubblicato intiero, ma molto scorretto da Mabillon (2), indi da Muratori (3). Ma erano pubblicazioni molto imperfette: il merito d’averci procurato una pubblicazione abbastanza esatta fu del nostro Scipione Maffei.

Quando il nostro vescovo Raterio dal vescovado di Verona si ritirò nel monastero di Lobbes nel Belgio, portò con sè alcuni manoscritti preziosi per la storia della nostra chiesa; tra questi un codice contenente il carme in lode di Verona col titolo Versus de Verona. Il nostro Maffei nel 1736 si recò a Lobbes per aver notizie di Raterio e dei codici rateriani (4); ma non vi trovò l'abate Teodolfo: lo trovò più tardi a Bruxelles, e per mezzo di lui, oltre molti aneddoti veronesi, potè aver una copia del codice dei Versus de Verona accertata per conforme all'originale con postilla dello stesso abate Teodolfo.
Questa copia apparve ben presto ancor più preziosa, quando per la soppressione di quel monastero nel 1793 andò smarrito il codice originale. Secondo quella copia, che ora si trova nella nostra biblioteca Capitolare (5), il Maffei pubblicò il carme (6); e quella pubblicazione die' tosto causa ad alcune dispute tra gli eruditi.

Più tardi il carme fu nuovamente pubblicato da Biancolini dietro un codice che si trovava presso ai Celestini di Rimini e fu scritto da Peregrinus De Peregrinis sulla fine del secolo XV (7): una copia di esso, come accennava il Biancolini, si trovava presso il canonico Muselli arciprete della cattedrale. Anche questo codice dei Celestini differisce non poco da quelli pubblicati antecedentemente: noi non tenteremo di cercare qual codice meglio corrisponda all'originale; questione di poca utilità ed insolubile: soltanto accenneremo ad alcune varianti di maggior rilievo storico. Recentemente dietro ispezione di altri codici, con nuove varianti e secondo diversi principi di apprezzamento fu pubblicato da due eruditi tedeschi, Dümmler (8) e Traube (9).

Nel secolo XVIII si disputò molto fra i nostri sull’autore del ritmo. Alcuni vollero fosse un veronese: forse quel Gaidhaldus rector, ossia parroco di qualche chiesa veronese, al quale si attribuisce un ritmo acrostico « Gracia excelsa »(10). Secondo il Cenci sarebbe quell’Adaelardus monaco di Corbeja, che da Carlo Magno fu assegnato quale consigliere al figlio Pipino, quando questi risiedeva in Verona (11). Qualcuno stette per il monaco Alcuino; qualche altro per un anonimo autore eziandio del ritmo De Mediolano civitate (12).
Questa pure è una questione insolubile (13).

Quanto all'epoca, questa in generale è segnata dallo stesso autore « Magnus in te habitat Pipinus piissimus »; ora Pipino regnò dall'anno 781 all'anno 810. Entro questi limiti, parrebbe dover esser il Ritmo anteriore alla traslazione del Corpo di S. Zeno (807), che non vi è accennata. Qualcuno lo ritiene di poco posteriore al vescovo Annone: anzi qualcuno attribuisce all’epoca annoniana, e forse allo stesso Annone, la massima parte sino al verso « ab Austriae finibus »; l'ultimo tratto agli ultimi anni di Pipino.

Per il suo contenuto il ritmo si può dividere in tre parti.
La prima (terz. 1-8) dà la topografia profana di Verona, quale essa era all'epoca romana.
La seconda (terz. 8-18), dopo aver detto di Gesù Cristo sino alla sua ascensione, dà il catalogo dei vescovi di Verona da sant’Euprepio a S. Zeno: di questo santo racconta la predicazione ed alcuni miracoli: elogi a particolarmente i tre vescovi Euprepio, Procolo e Cricino.
Questa parte è assai importante per la storia di Verona; ed era importantissima verso la metà del secolo XVIII, quando non si conosceva ancora il Velo di Classe: fu essa, che indusse il Maffei ed altri con lui a correggere la serie dei nostri primi otto vescovi data dall’UghelIi (14); e la tesi del Maffei, dapprima poco gradita agli eruditi veronesi, ebbe poi una conferma decisiva nel Velo di Classe.
La terza parte (terz. 19-31) dà la topografia sacra di Verona, meglio, del contorno di Verona: designa la posizione delle sue chiese, a mattina, a mezzogiorno, a sera. Si diffonde molto intorno a sant’Annone ed ai santi martiri Fermo e Rustico, alla ricuperazione delle loro reliquie ed alla decorosa reposizione delle stesse nella nuova chiesa a loro dedicata nella parte meridionale di Verona: nominando poi le singole chiese, oltre il santo titolare, indica alcuni santi, dei quali si conservano in ciascuna chiesa alcune reliquie.

Da questa terza parte sappiamo di alcune chiese esistenti nel contorno di Verona verso la fine del secolo VIII. Ad oriente erano: S. Stefano ricco di reliquie di santi vescovi e martiri, S. Pietro in Castello, S. Giovanni in Valle, S. Faustino, S. Nazaro, S. Maria fuori porta Organa (15), S. Vitale.
Verso il mezzogiorno il nostro autore non indica che la chiesa dei SS. Fermo e Rustico, la quale dà a lui occasione opportuna per, diffondersi nelle notizie dei loro corpi, dell’urna preziosa in cui furono riposti dal vescovo sant'Annone.
Verso occidente nota le chiese di S. Lorenzo, SS. Apostoli, S. Martino in Aquario. L’autore tace delle chiese, che erano nel centro della città, e di quelle che ne erano molto discoste: era suo scopo dire di quelle che la circondavano per difenderla dall’oste maligno: « O felicem te, Verona, sic ditata et inclita - qualis es circumvallata custodibus sanctissimis - qui te defendant et expugnent ab hoste nequissimo ».

Termina con alcuni elogi al re Pipino, che allora dimorava in Verona, e chiude con questa doxologia: « Gloriam canamus Deo regi invisibili - qui talibus adornavit te floribus mysticis - in quantis et resplendes sicut sol irradians ».

Il canonico Dionisi opinava che la Verona descritta nel ritmo fosse quella figurata nella iconografia rateriana (16): ma il Cipolla pensa che questa sia posteriore al ritmo, e forse di circa un secolo (17).
Noi diamo il ritmo, quale esso è nell’edizione Dümmler; in calce noteremo solo quelle varianti, che possono aver qualche interesse nel campo della storia.

VERSUS DE VERONA

1. Magna et praeclara pollet urbs haec in Italia
in partibus Venetiarum, ut docet Isidorus (18),
que Verona vocitatur olim ab antiquitus.

Grande ed illustre sorge una città in Italia, nelle Venezie, come insegna Isidoro, che fin dall'antichità  si chiama Verona.

2. Per quadrum est compaginata, murificata firmiter:
quadraginta et octo turres fulgent per circuitum,
ex quibus octo sunt excelsae (19), quae eminent omnibus.

Di forma un quadrata, difesa da possenti mura; quarantotto torri risplendono in questa cortina, di queste otto superano  le altre in altezza.

3. Habet altum laberintum magnum per circuitum,
in quo nescius ingressus non valet egredere,
nisi igne cum lucerne, vel a filo glomere.

Ha un alto labirinto, che forma un grande anello : chi vi entra senza conoscerlo, non può uscirne, se non a lume di candela o con il  filo di un gomitolo

4. Foro lato spatioso sternuto lapidibus,
ubi quattuor in cantos magni instant fornices;
plateae mirae sternutae de sectis silicibus.

C'è una piazza larga e spaziosa, lastricata in pietra: su ciascuno dei quattro angoli sorge un grande arco; meravigliose strade lastricate con pietre squadrate:

5. Fana et tempIa constructa ad deorum nomina,
Lunis, Martis et Minervis, Iovis atque Veneris,
et Saturni sive Solis, qui prefulget omnibus.

Vi sono templi in stile antico dedicati agli dèi; Luna, Marte e Minerva, Giove e Venere, e Saturno, e il Sole che splende su tutto.

6. Et dicere lingua non valet hujus urbis scemata:
intus nitet, foris candet circumsepta laminis,
in aere pondos deauratos, metalla haud communia.

Nessuna lingua potrebbe narrare le bellezze di questa città: dentro brilla, fuori risplende, avvolta da un'aurea lumisosa; il bronzo ricoperto con l'oro è il metallo più diffuso;

7. Castro magno et excelso, et firma pugnacula,
pontes lapideos firmatos super flumen Atesis (20),
quorum capita pertingunt in orbem ad oppidum.

Ci sono un grande ed eccelso castello e poderosi bastioni; ponti di pietra su pile che poggiano sull'Adige, le cui estremità uniscono la città e la cittadella fortificata.

8. Ecce, quam bene est fundata a malis hominibus,
qui nesciebant legem dei nostri atque vetera
simulacra venerabant lignea, lapidea.

Ecco come si presenta:, ben fondata da uomini pagani, che non conoscevano la legge del nostro Dio e veneravano  vecchi idoli di legno e pietra.

9. Sed postquam venit ergo sacer plenitudo temporum,
incarnavit deitatem nascendo ex virgine,
exinanivit semet ipsum, ascendit patibulum:

Ma dopo che finalmente venne il Santo, nella pienezza dei tempi, che incarnò lo Spirito divino nascendo dalla Vergine, umiliò se stesso, salì al patibolo;

l0. Inde depositus ad plebem Iudaeorum pessimam,
in monumento conlocatus, ibi mansit triduo,
inde resurgens cum triumpho, sedit patris dextera.

Quindi fu deposto, fra la cattiva plebe dei giudei e collocato nel sepolcro in cui rimase tre giorni; quindi, risorto, siede trionfalmente alla destra del Padre.

11. Gentilitas hoc dum cognovit, festinavit credere,
quia vere deus caeli ipse terrae conditor,
qui apparuit in mundo per Mariae uterum.

I Gentili, saputo ciò, subito credettero che Egli stesso era Dio, creatore del cielo e della terra, che venne al mondo dal seno di Maria.

12. Ex qua stirpe processerunt martyres, apostoli,
confessores et doctores et vates sanctissimi,
qui concordaverunt mundum ad fidem catholicam.

Da quella stirpe vennero martiri e apostoli, Confessori e Dottori e santissimi profeti, che portarono il mondo alla fede cattolica.

13. Sic factus et adimpletus est sermo Daviticus,
quod coeli clariter enarrant gloriam altissimi,
a summo caelorum usque ad terrae terminum.

Così si compì la parola di Davide: "i cieli esaltano la gloria dell'Altissimo dall' alto dei cieli ai confini della terra".

14. Primum Veronae praedicavit Euprepus episcopus,
secundus Dimidrianus, tertius Simplicius,
quartus Proculus confessor pastor et egregius.

Per primo predicò a Verona  il vescovo Euprepio, per secondo Demetriano, per terzo Simplicio, per quarto Procolo, grande confessore e pastore;

15. Quintus fuit Saturninus et sextus Lucilius,
septimus fuit Gricinus doctor et episcopus,
octavus pastor et confessor Zeno martyr inclitus.

Quinto fu Saturnino e sesto Lucillo; settimo fu Cricino, dottore e vescovo; ottavo fu, pastore e confessore, Zeno, glorioso martire;

16. Qui Veronam predicando reduxit ad baptismum,
a malo spiritu sanavit Galieni (21) filiam,
boves cum homine mergentes reduxit a pelago.

Il quale, con i suoi sermoni, portò Verona al battesimo; liberò dal maligno la figlia di Gallieno; salvò i buoi con un uomo che affogava  nell'acqua alta;

17. Et quidem multos liberavit ab hoste pestifero,
et mortuum resuscitavit ereptum e fluvio,
idola multa destruxit per crebra ieiunia.

Ma anche liberò molte altre persone  dal nemico distruttore; risuscitò un morto tirato fuori dal fiume; distrusse molti demoni per mezzo di frequenti digiuni.

18. Non queo multa narrare hujus sancti opera,
quae a Syria veniendo usque in Italiam,
per ipsum omnipotens deus ostendit mirabilia.

Non posso raccontare le molte opere di questo santo, le meraviglie che, venendo in Italia dalla Siria, Iddio onnipotente mostrò attraverso Lui.

19. O felicem te, Verona, sic ditata et inclita,
qualis es circumvallata custodibus sanctissimis,
qui te defendant et propugnent ab hoste iniquissimo.

Felice te, o Verona ricca e gloriosa, poiché sei cinta da una corona di santissimi custodi che ti proteggono e liberano da un cattivissimo nemico. 

20. Ab oriente habes primum protomartyrem Stephanum, 
Florentium,  Vindemialem et Maurum episcopum, 
Mammam,  Andronicum et Probum
cum quadraginta martyribus

Ad oriente c'è  Stefano protomartire, Fiorenzo, Vendemmiale e il  vescovo Mauro, Mamma, Andronico e Probo coi Quaranta martiri;

21. Deinde Petrum et Paulum et lacobum apostolum, precursorem
baptistam lohannem, et martyrem Nazarium una cum Celso,
Vietore, Ambrosio (22),

quindi Pietro e Paolo, Giacomo apostolo,  il precursore Giovanni il battista; e il martire Nazario insieme con Celso, Vittore e Ambrogio; 

22. Inclitos martyres Christi Gervasium et Protasium, Faustinum
atque Iovitam, Eupolum, Calocerum Domini matrem Mariam, Vitalem, Agricolam;
il glorioso martire di Cristo Gervasio e Protasio, Faustino e Giovita, Eupolo, Calogero;  la madre del Signore, Maria, Vitale e Agricola.

23. In partibus meridianis Firmum et Rustieum,
qui olim in te susceperunt coronas martyrii, quorum corpora
ablata sunt in maris insulis.

 A mezzogiorno vi sono Fermo e Rustico, che un tempo in te ebbero le corone dei martiri; i cui corpi erano stati portati via nelle isole del mare.

24. Quando complacuit deo regi invisibili,
in te sunt facta renovata per Annonem presulem temporibus
principum regum Desiderii et Adelchis,

Quando piacque al Signore, invisibile re, in te furono di nuovo onorati dal vescovo Annone, al tempo che Desiderio e Adelchi erano a capo del regno.

25. Qui diu moraverunt sancti non (23) reversi sunt,
(quos egregius redemit cum sociis episcopus
Primo et Apollenare et Marco et Lazaro)

Quei santi che erano rimasti nascosti per lungo tempo, ora sono ritornati:
(li riscattò l'egregio vescovo, coi compagni Primo e Apollinare e Marco e Lazzaro):

26. Quorum corpora et insimul condidit episcopus,
aromata,  galbanum, stacten et argoido,
mirra et gutta et cassia et tus lucidissimum.

Sui loro corpi il vescovo cosparse aromi, e galbane e statte e argòido e mirra e ambra e cassia e incenso purissimo.

27. Tumulum aureum coopertum, circundat centonibus (24),
color interstinctus mire mulcet sensus hominum,
modo  albus, modo niger inter duos purpureos (25).

Ricopre e avvolge l'altare d'oro con le effigi degli araldi della fede; lo splendore della seta brilla ed incanta i sensi degli uomini; un listello bianco ed uno nero si alternano tra due di  porpora.

28. Haec, ut valuit, paravit Anno praesul inclitus,
proba cuius fama claret de bonis operibus
ab Austriae finibus terrae usque Neustriae terminos.

Annone, glorioso vescovo, stabilì di rendere questi onori nel modo più solenne; dalla sua cenere risplende la fiamma delle buone opere, dall'austro ai confini terrestri, fino alle nostre terre. 

29. Ab occidente custodit Syxtus et Laurentius,
Ypolitus, Apollinaris, duodecim apostoli
Domini, magnus confessor Martinus sanctissimus.

A occidente proteggono  Sisto e Lorenzo, Ippolito, Apollinare, i Dodici Apostoli del Signore,  il grande confessore Martino il santissimo.

30. Iam laudanda non est tibi urbs in Ausonia
splendens, pollens et redolens a sanctorum corpore,
opulenta inter centum sola in Italia.

Infine non c'è città che più degna di lode, in Ausonia, splendida, potente e redolente per le reliquie dei santi, ricca tra le cento città d'Italia.

31. Nam te conlaudat Aquilegia, te conlaudant Mantua,
Brixia, Papia, Roma, simul et Ravenna:
per te portus est undique in fines Liguriae.

Infatti ti onora Aquileia, ti onora Mantova e Brescia, e Pavia e Roma insieme con Ravenna. Da te passano tutte le strade fino ai confini della Liguria.

32. Magnus habitat in te rex Pipinus piissimus,
non oblitus pietatem aut rectum iudicium,
qui bonis agens semper cunctis facit prospera.

Un grande sovrano in te dimora , il piissimo Pipino, che mai trascura pietà e buon senso e che, ben agendo, fa il bene di tutti.

33. Gloriam canamus deo, regi invisibili,
qui talibus adornavit te floribus mysticis,
in quantis et resplendes, sicut sol irradians (26).

Cantiamo gloria  al Signore, re invisibile, che ti abbellì di questa mistica ghirlanda che ti rende bella e splendente come il sole sfolgorante.



Nel codice di Lobbes segue qui un’invocazione:

«Sancte Zeno ora pro me et cunctis hominibus ».

San Zeno, prega per me e per tutti i mortali

Prova evidente dell’origine veronese di quel codice (a).



Note:

l) DALLA CORTE, Istoria di Verona 1. Pag. 52 (Verona 1596).
2) MABILLON, Analecta vetera 1. 371 (Ed. l, 1675).
3) MURATORI, Rerum ltalic. Scriptores II. P. II. Pag. 1095.
4) Vedi BALLERINI, Ratherii opera pag. XII, seq. (Verona 1765);
SPAGNOLO, Scip. Maffei e il suo viaggio all'estero pag. 33 (Verona 1903).
5) Cod. CXVI. (106). - L'antichissimo codice zenoniano, dal quale s'eran fatte le edizioni precedenti, perì nell'incendio di quel monastero l’anno 1775.
6) MAFFEI, Istoria diplom. pag. 178, Verona illustr. I, 369, Ist. teologo Append. De priscis Veronre episcopls pago 237.
7) BIANCOLlNI, Chiese di Verona I. 160, Diss. sui Vesc. II. Docllm. I pag. 115. Egli usò pare il codice di Lobbes.
8) DUEMMLER, Poëtae latini cevi Carolini I. pag. 118-121, tra i Monum. Germ. (Berolini 1880).
9) TRAUBE, Karolingische Forschungen pag. 114, seg. (Berlin 1888).
10) Codice Capito XC (85) della fine del secolo IX. MURATORI, Antiqu. /tal.  III. 677.
11) CENCI, Dissert... intorno all'epoca dei santi Euprepio,... pago 185-198. Vedi anche DIONISI, Il ritmo dell'anonimo pipiniano volgarizzato... (Verona 1773).
12) Si trova presso DUEMMLER, op. cito pag. 24.
13) Vedi BRUNATI, Vite dei santi veronesi pag. 52. Ms. della Comunale.
14) MAFFEI, Istoria teologica Append. Pag. 239, seg.
15) MAFFEI Verona illust. Storia, Lib. XI, e CIPOLLA, L’ant. iconogr. di Verona, pag. 14, vorrebbero veder qui indicata la chiesa di Santa Maria Mater Domini: ma è troppo chiaro che ben altra è la località indicata dal ritmo.
16) DIONISI, Il ritmo ecc.
17) CIPOLLA. Op. cit. pag. 10-14.
18) «De Verona nihil habet Isidorus ". DÜMMLER. pago 119.
19) DIONISI, Il ritmo pipiniano…vorrebbe che le quarantotto torri fossero i quarantotto vescovi, e per ciò preferisce la voce «excelsi» data da qualche codice. La variante «excelsi» è pure accettata da Traube.
20) Di un ponte «ingens marmoreus miri operis mirreque magnitudinis» ci attesta anche LIUTPRANDUS, Antop.. Lib. II. cap. 40, presso PERTZ III. 295.
21) Dei codici, alcuni hanno «Galli»; qualche altro «AEliani».
22) In qualche codice questi due versi sono: «Precursorem baptistam Joannem et martyrem Nazarium - una cum Celso Victore, Ambrosio et Blasio ». Ma probabilmente il nome «Blasio» fu un'aggiunta posteriore.
23) Il codice di Rimini omette «non »; omissione di massima importanza nella questione agitatasi nel secolo XVIII tra veronesi e bergamaschi. Vedi BIANCOLINI, Chiese di Verona II. 775, segg.
24) Il codice di Lobbes ha «preconibus ». Il Maffei un po' arbitrariamente vi ha sostituito «centonibus »; nella quale voce egli e poi Biancolini «intendevano tre pezzi di drappo d’oro, ornati a ricamo colle immagini e coi nomi dei diversi vescovi veronesi... lavorati per ornamento dell'altare o del sepolcro dei santi Fermo e Rustico nella nostra chiesa di S. Fermo Maggiore ». Cosi DÜMMLER, Op. cit. pag. 119. Però vedi CIPOLLA, Il Velo di Classe pag. 56 in calce.
25) LUD. TRAUBE da altri codici cosi riferisce questa terzina:
Tumuli aureum coperclum circumdat preconibus;
color serici distinctus mulcet sensus hominum,
modo albus, modo niger, inter duos purpureus.
26) Altri codici hanno: «sicut solis radiis ».


ANNOTAZIONI AGGIUNTE AL CAP. II (a cura di A. Orlandi)

(a) Pag. 171. - Dopo il tempo in cui scrisse mons. Pighi, il celebre «Ritmo pipiniano» fu studiato e integralmente o parzialmente pubblicato più volte. Vale la pena di riportare qui la bibliografia utile a lettori e studiosi:
SIMEONI, Luigi - Veronae rythmica descriptio, in «Rerum ltalicarum Scriptores» - Nuova edizione riveduta e corretta con la direzione di Giosuè Carducci e Vittorio Fiorini. Bologna, 1920, Tomo II, parte I.

De Laudibus Veronae - Il ritmo pipiniano. A cura di E. Rossini, Verona, Vita Veronese, 1956, pp. 71 (Collana «Lo Scrigno, 16 »). Utile per una rapida lettura del testo e informazioni essenziali.

G. B. PIGHI, Versus de Verona. Versus de Mediolano civitate. Bologna, Zanichelli, 1960, pp. 153. (Studi pubblicati dall'Istituto di Filologia Classica, VII). Questa è l’ultima autorevole edizione critica della celebre composizione.

Per completezza diamo anche altre pubblicazioni in cui si trova stampato o si parla del ritmo:
G. B. PIGHI, Verona nell'VIII secolo. Testi raccolti ed illustrati. Verona, Valdonega, 1963, pp. 60; M. CARRARA, Verona medioevale. Gli scrittori latini, in «Verona e il suo territorio », II, Verona, 1964, pp. 351420.


Fonte: srs di GIOVANNI   BATTISTA  PIGHI;  da CENNI  STORICI SULLA CHIESA VERONESE, VOLUME 1


lunedì 30 agosto 2010

Verona. Chiesa di San Lorenzo, uno scrigno del Medioevo


IN CORSO CAVOUR. Di origini antichissime, la chiesa è un patrimonio architettonico che affonda le sue radici nel quinto secolo e si snoda in una storia millenaria. San Lorenzo, uno scrigno del Medioevo. Dai matronei ai capitelli, ci sono tanti motivi per visitare questo gioiello d’arte che conserva tracce romane e longobarde

Ci sono mille motivi per andare a visitare la chiesa di San Lorenzo, in corso Cavour: i matronei (cioè gli ambienti sopraelevati sulle navate, riservati alle donne), il transetto esteso su due campate, le cinque absidi tutte nella stessa direzione, i capitelli con le aquile. E poi quella penombra animata dall’effetto dei colori dei mattoni, dei ciottoli e del tufo dei suoi muri.

Ma ce n’è uno su tutti: le torri cilindriche della facciata con, all’interno, le scale di accesso ai matronei. Le torri scalari costituiscono una soluzione architettonica di origine romana, ma è rarissima in Italia. Anzi si tratterebbe di uno dei pochissimi esempi di influenza nordica, nella tradizione padana. Per entrare a San Lorenzo, si passa sotto un arco a sesto acuto, costruito nel 1476, in piena Rinascenza, sormontato dalla statua del santo, con una graticola in mano. Qui si è in un cortile, ricco di reperti antichi, che dà direttamente sull’ingresso laterale. Del resto, la chiesa è stata edificata nel XII secolo, usando materiale di spoglio.

Infatti, tracce di pavimentazione musiva del V secolo, simili a quelle scoperte presso il Duomo, sono venute alla luce, nell’Ottocento, durante un restauro. Di una seconda costruzione furono ritrovati, invece, frammenti di plutei a tenie di origine longobarda, di pilastri, di capitelli e di transenne, ora visibili nel cortile. Per quanto riguarda l’origine di questo edificio sacro, la presenza di una chiesa altomedioevale ci è testimoniata dal Ritmo Pipiniano, il poemetto su Verona, scritto da un monaco alla fine dell’VIII secolo, che ci descrive la città prima del Mille.

Dopo il terremoto del 793, l’arcidiacono Pacifico provvide alla sua ricostruzione, come è ricordato nell’epitaffio dedicato al canonico e murato presso la porta nord del Duomo. A San Lorenzo, il terremoto del 1117, provocò nuovi danni, risparmiando la parte inferiore della muratura e alcuni capitelli, ora all’interno della chiesa.

Per cogliere l’originalità maggiore, è necessario proseguire lungo il fianco e giungere alla facciata, che è animata sui lati dalle due massicce torri cilindriche, costruite a file alterne e regolari di tufo e cotto, che si elevano oltre il muro della facciata stessa. Non sono uguali e non hanno il coronamento, come se dovessero continuare.

Le due torri, illuminate da strette finestre strombate, sorgono su grosse basi di pietra, di cui la destra, con una doppia ghiera rotonda, è rozza, mentre la sinistra, formata con pietre squadrate di recupero di origine romana, presenta una fascia decorativa scolpita. Le due torri sarebbero posteriori alla facciata che subì, nei secoli, così profonde trasformazioni da non consentire, oggi, di rilevare tracce della sua forma primitiva, se non nell’alzato ad una sola cuspide della parte centrale.

I fianchi presentano, alla base, altro materiale di spoglio, cui seguono filari multipli di ciottoli a spina di pesce, intercalati da altri filari multipli di tufo e di cotto. All’altezza delle finestrelle, invece, file di conci bianchi di tufo si alternano a file di mattoni rossi. I muri terminano con un semplice fregio di archetti a segmenti di cotto, su piccole mensole di tufo. Dunque, i materiali di costruzione sono stati usati anche con intento decorativo.

La funzione delle torri cilindriche è attualissima, in quanto con le scale interne permettono di accedere ai piani superiori della chiesa. La torre sinistra è anteriore al XII secolo e la destra è del XIII secolo.

Proprio queste torri indicherebbero che la chiesa riprende l’austerità dell’architettura nordica, ispirata alla riforma di Cluny, così come il bellissimo interno a corsi di tufo e cotto, diviso in tre navate con un ampio transetto (la navata trasversale), esteso su due campate.

Splendido lo slancio ascensionale della navata centrale, mentre le strutture murarie sembrano animarsi per l’effetto coloristico delle fasce di mattoni, del tufo e dei ciottoli.

La navata centrale, inoltre, è molto alta per la presenza dei matronei, posti nelle navate laterali, sorretti da volte a crociera, con il prospetto scandito da una successione di bifore, intervallate da pilastri cruciformi.

Questi pilastri che sono in filari alternati di tufo e mattoni e salgono fino alla base del tetto, sono intervallati da un doppio ordine di archi su colonne marmoree, che si fermano all’altezza di un solo piano e terminano con capitelli diversi l’uno dall’altro. Le navate sono concluse da altrettante absidi.

Ai lati, due cappelle absidate con lo stesso andamento di quelle maggiori. Un particolare: nel transetto si trovano, uno per parte e in posizione simmetrica, due capitelli con aquile, tutto attorno. Ad ali aperte, con la testa di profilo e con una preda fra gli artigli, costituiscono un mistero, dal punto di vista della simbologia cristiana. Ma è indubbia la loro bellezza e raffinatezza.
Insomma, in questa chiesa, le tante suggestioni architettoniche sembrano avere uno stesso fine: condurre lo spirito all’armonia con il divino.

Le aquile simbolo laico e religioso


Per quanto riguarda i due capitelli con le aquile, sono divisi a due zone: su un giro di otto basse foglie di acanto, le aquile, disposte agli angoli, in corrispondenza degli spigoli dell’abaco (la parte più alta del capitello), che ha i lati concavi. Le aquile sono ad ali aperte e con testa di profilo: stringono fra gli artigli una lepre o un coniglio. Il piccolo spazio che rimane libero fra le ali dei due volatili è ornato con uno zampillo di elici, terminanti in un fiore, che si intrecciano sopra le teste dei rapaci. Le aquile non sono identiche: diverso l’animale che ghermiscono, diversa la loro posizione e il capitello di destra sembra più rozzo di quello di sinistra.

Ma in una chiesa, cosa ci fa un’aquila con il rostro rivolto all’altare maggiore? Si pensa a un collegamento con un passo di sant’Ambrogio, quando parla di un neofita che si accosta al battistero per diventare figlio di Dio.

Fonte: srs di Emma Cerpelloni  da L’Arena di Verona di Sabato 28 Agosto 2010, CRONACA, pagina 21

domenica 29 agosto 2010

Verona. Il Battistero di San Giovanni in Fonte, dove si risolvevano le contese


TESORO NASCOSTO. La pianta di San Giovanni in Fonte, accanto alla Cattedrale, è a tre navate, ognuna termina in un’abside che sporge verso il cortile del Vescovado. Nel «giudizio di Dio» le parti sostenevano prove di forza e coraggio. L’edificio restaurato e riaperto al culto cinque anni fa

È tra gli edifici sacri più importanti del cristianesimo veronese, ma è il capolavoro posto nel luogo più nascosto che ci sia a Verona e, per questo, è poco noto alla maggior parte dei veronesi.

Stiamo parlando della chiesa di San Giovanni in Fonte, che è il battistero della Cattedrale. Sono nascosti perfino i suoi due accessi: la porta sottostante l'organo, nella navata sinistra del Duomo, attraverso il cosiddetto atrio di Santa Maria Matricolare, oppure il piccolo cancello tra l'abside esterna della Cattedrale e il palazzo vescovile, in piazzetta Vescovado.

Il Battistero di San Giovanni in Fonte è citato solamente nel 837, in una notizia che racconta di una contesa tra i canonici e i cittadini, per la suddivisione degli oneri di rifacimento e manutenzione delle mura veronesi: vinsero i primi, con un giudizio di Dio, effettuato «nella chiesa di San Giovanni Battista presso il Duomo».

Il giudizio di Dio permetteva di risolvere le controversie più spinose, facendo sostenere a due rappresentanti delle parti avverse alcune prove di forza, di coraggio o di resistenza; chi vinceva rappresentava la parte che aveva ragione. Tornando al battistero, è verosimile che un edificio destinato ai battesimi, nel complesso della Cattedrale, dovette esserci già dalla fine del IV secolo, sebbene non sia rimasta alcuna traccia. Probabilmente venne distrutto dal terremoto del 1117 e fu ricostruito nelle forme romaniche, che possiamo ammirare ancora oggi, nel 1123, dal vescovo Bernardo.

Per quanto riguarda le architetture, la chiesa attuale ripropone se non l'impianto, almeno la collocazione della chiesa del IV-V secolo, intermedia tra la cattedrale e il palazzo vescovile: presenta una facciata in tufo, che finisce a punta, dove sono visibili i resti di un protiro pensile e di un nicchione affrescato, che, seppur molto deteriorato, fa ancora intuire la figura di una Madonna col Bambino.

Questo edificio è stato restaurato, negli anni scorsi, dall'architetto Giorgio Forti e riaperto al culto nel 2005. L'occasione del restauro ha visto anche uno studio storico-architettonico estremamente accurato.

La pianta è a tre navate, ognuna conclusa da un'abside semicircolare che sporge verso il cortile del Vescovado. Queste navate presentano murature e pilastri in conci di tufo, mentre i fianchi sono costituiti da conci di tufo, alternati a filari di cotto.

All'interno, le navate sono scandite da una serie di archi a tutto sesto che appoggiano alternativamente su pilastri e su colonne con capitelli. Tra le strutture di sostegno è possibile riconoscere alcuni elementi più antichi, probabilmente del precedente battistero e riutilizzati nella rifabbrica romanica, quali un sottile pilastro scanalato, decorato in alto, con motivi fogliacei di gusto bizantino, attribuibile al VI secolo, e due capitelli dell'VIII secolo.

È comunque indubbio che l'opera più importante della chiesa è il monumentale fonte battesimale a pianta ottagonale, capolavoro della scultura romanica veronese, risalente alla fine del XII secolo, attribuito allo scultore Brioloto, che lavorò anche a San Zeno.

Le otto facce del fonte con bassorilievi sono delimitate, ai lati, da esili colonnine con diversi motivi ornamentali e, in alto, da una serie di archetti pensili.
I vari temi scolpiti sulle facce appartengono alla storia della vita di Cristo: l'Annunciazione, la visitazione e Natività, l'annuncio ai pastori, l'adorazione dei Magi, Erode ordina la strage degli innocenti, la strage, la fuga in Egitto e il battesimo di Cristo.

L'ispirazione religiosa, l'intento narrativo e la perizia esecutiva dell'artista hanno creato un'opera di grande valore. Osservando queste sculture a rilievo, si nota che sono straordinariamente vive ed espressive, anche se le figure, i gesti, i particolari delle immagini (le pieghe delle vesti, i capelli e le barbe) sono disegnati con una geometria di linee che rimanda all'arte bizantina.

La più bella di queste scene? Certamente la Fuga in Egitto, che è una poetica scena familiare, intima e piena di religiosità. San Giuseppe vi appare per ben due volte: a sinistra, mentre riceve l'avviso dell'angelo che gli suggerisce la fuga, e, di nuovo, a destra, quando procede con passo stanco, voltandosi a guardare la Madonna che lo segue sull'asinello. Il fonte è monolitico e la vasca ricavata all'interno ha una curiosa forma quadrilobata; attualmente è montato su due gradini che ripropongono la pianta.

Per quanto riguarda la pittura, nella navata sinistra e nelle absidi sono visibili i resti di affreschi, dal XII al XV secolo.

Al centro della navata destra sono state poste alcune opere pittoriche: un affresco staccato della seconda metà del XV secolo, raffigurante la Deposizione, e tre tele: il Battesimo di Cristo di Paolo Farinati, datata 1568, la Madonna col bambino e santi Michele, Girolamo e Giorgio, di Michelangelo Prunati, del 1700 e l'Immacolata con san Domenico, il beato Enrico da Bolzano e san Giovanni Battista, nella navata sinistra, di pittore anonimo degli inizi del Seicento.

Un complesso architettonico-artistico di indubbio pregio, che è ritornato, anche grazie alla sensibilità liturgica e pastorale di monsignor Antonio Finardi, parroco della Cattedrale, a servire come battistero per i bambini veronesi del Duemila, con una continuità di storia cristiana di oltre 16 secoli.

CURIOSITÀ. Durante i restauri, il direttore, l’architetto Giorgio Forti, ha fatto alcune scoperte

Durante i restauri, il direttore, l’architetto Giorgio Forti, ha fatto alcune significative scoperte. In particolare ha appurato che il blocco di marmo della vasca battesimale è un pezzo unico di dimensioni tali che probabilmente l’edificio vi è stato costruito attorno, oppure, una volta collocata la vasca, sono state ristrette le porte. Un modo di procedere decisamente inconsueto.
Ma anche per quanto riguarda l’aspetto «idraulico» del fonte battesimale, c’è una curiosità: sotto il grande blocco di marmo, è stata rinvenuta una vasca con un foro e una serie di argille. Si presume che si tratti di una vasca di decantazione, dove passava l’acqua prima di approdare nel battistero.
In questa zona, in età romana vi erano le terme e, dunque, questa struttura potrebbe essere legata ad un sistema di trasporto dell’acqua di età romana.  (E.C.)

Fonte: srs Emma Cerpelloni da L’Arena di Verona di Giovedì 19 Agosto 2010, CRONACA, pagina 17



sabato 28 agosto 2010

Verona. Quando a Ponte Garibaldi tassavano anche i pedoni

Ponte Garibaldi negli anni Trenta con le statue dei «strachi»

COSTRUZIONE D’AVANGUARDIA. Per tenere il conto degli incassi, gli addetti alla riscossione mettevano in un recipiente un fagiolo per ogni palanchetta incassata
I più giovani, per risparmiare, si portavano a spalle l’un l’altro Ma c’era chi sceglieva di fare il giro passando da Ponte Pietra

Perché inserire il notissimo ponte Garibaldi, che collega il centro storico con il quartiere di Borgo Trento, nella «Verona nascosta»? Decisamente per la sua curiosa storia che è ignorata da gran parte dei veronesi. Il ponte fu la sintesi dell'ingegneria in ferro più futuristica e di un sistema di conteggio con i fagioli, che sembrerebbe riportare alla preistoria.

Dove è stato gettato il ponte Garibaldi, fino a metà dell'Ottocento, vi era un traghetto, riprodotto in una celebre veduta paesaggistica di Verona nel Settecento, una grande tela che si trova a Firenze, dipinta dal pittore olandese Gaspar Van Wittel (1653-1736). Il traghetto cessò l'attività all'inizio dell'Ottocento. Poi, nel 1855, un ingegnere inglese, Alfredo Enrico Newille, presentò alle autorità municipali della Verona austriaca, un progetto per la costruzione di un ponte in ferro che fu subito approvato.

Casper van Wittel - Verona: San Giorgio in Braida. 1710.


Tuttavia, solo il 22 maggio 1861, Newille sottoscrisse il contratto davanti al notaio Giuseppe Donatelli: la costruzione era a sue spese, ma otteneva dal Municipio un diritto di pedaggio per pedoni e veicoli, con tariffe da stabilire di comune accordo. Newille costruì anche un palazzo, a sinistra della testata dalla parte della città, destinato a uffici e ad abitazione dell'amministratore, al quale competeva il controllo dei pedaggi.

Il 16 agosto 1864, il vescovo Luigi di Canossa inaugurava il ponte. Era una grande opera di ingegneria, del tutto nuova per la città: 75 metri di lunghezza per 8,90 di larghezza, aveva tre arcate e tubi di ferro come piloni. I marciapiedi ai lati erano separati dalla carreggiata con tralicci in ferro, mentre la pavimentazione era formata da tavole di legno. L'incasso dei pedaggi del 17 agosto, primo giorno di transito, fu di 20 fiorini, che furono dati in beneficenza agli Asili infantili.

Assai curiose anche le tariffe di transito: un soldo e mezzo a persona, 2 soldi per bue, cavallo o manzo; 3 per un carretto trainato a mano e da un asino, 7 soldi per il carretto trainato da due cavalli, 8 soldi per una carrozza a due cavalli o per un carro tirato da due cavalli o buoi e mezzo soldo per una pecora, un maiale o una capra. Se erano previsti i pedaggi, vuol dire che allora passavano anche questi animali. Ma l'aspetto più originale riguardava il metodo di controllo dei passanti. Gli addetti alla riscossione erano sistemati in due garitte alle testate del ponte, mentre nella loggetta pensile, costruita all'angolo di palazzo Newille, un incaricato, al passaggio di ogni persona, animale o mezzo di trasporto, metteva in un apposito recipiente un fagiolo per ogni «palanchetta» della tariffa.

Tanti fagioli dovevano corrispondere ad altrettanti soldi: questo rudimentale sistema di contabilità pare funzionasse molto bene. Fino al 1890, vi era anche un corpo di guardia, mentre un robusto portone di ferro sbarrava il ponte dalla parte della città: veniva chiuso, alle 8 di sera, dopo il suono di una campanella, e riaperto all'alba, in modo che nessuno potesse passare di notte.
Quando Verona divenne italiana, le tariffe aumentarono e furono incluse le automobili, che pagavano 10 centesimi, la metà, se erano vuote. Si dovevano sborsare due centesimi per ogni due piedi, che toccavano il piano del ponte. Così per risparmiare, i ragazzi si portavano a spalle l'uno con l'altro.

C'era anche chi faceva il giro del ponte Pietra, ma si consumavano le suole e, dunque, non si sapeva con certezza quale delle due soluzioni fosse più conveniente. Le ragazze si lamentavano perché rovinavano i tacchi e le punte delle scarpe nelle assi di legno, che spesso erano sconnesse.

Il ponte venne intitolato a Garibaldi, dopo che l'eroe dei due mondi vi passò il 7 marzo 1867: andò a trovare un amico Carlo Sega, che abitava nella zona del Cesiolo, sulla strada per Avesa.

Nel giardino di casa Sega, che oggi non c'è più, quel giorno furono poste a dimora due piante e l'edificio fu chiamato, come ricordava un'altra lapide, «villa Caprera». Ma torniamo al ponte Garibaldi.

Superò le più terribili alluvioni di quegli anni, compresa quella del 1882, che mandò sott'acqua l'intera città. Intanto nasceva e si ingrandiva il quartiere di Borgo Trento: il pedaggio cominciava a pesare nei bilanci dei veronesi. Vi furono proteste e si formò un comitato che aprì una sottoscrizione tra i maggiori utenti: furono raccolte 1.625 lire. Finalmente, nel 1915, il Municipio cittadino ottenne da Newille il privilegio, versando 180 mila lire, e così il pedaggio fu tolto. Il ponte in ferro, ormai insufficiente e di bassa portata, venne demolito nel 1934. L'anno dopo, fu inaugurato il nuovo ponte in cemento armato, abbellito da quattro grandi statue sedute, in pietra, opera di Ruperto Banterle, famoso scultore del tempo: rappresentavano Garibaldi, il nocchiero, Anita e l'agricoltura.

Dai veronesi furono ironicamente battezzate «i strachi». Anche questo ponte venne fatto saltare in aria la notte del 25 aprile del 1945 dai tedeschi in fuga e le statue rimasero nel greto del fiume, per tantissimo tempo. Fu ricostruito e riaperto al transito, il 10 novembre 1947.

Fonte: srs di Emma Cerpelloni, da L’Arena di Verona di Sabato 21 Agosto 2010, CRONACA, pagina 19



Giuseppe Garibali:  L’eroe dei due mondi venne in visita ufficiale a Verona, il 7 e l’8 marzo 1867

Giuseppe Garibaldi

L’eroe dei due mondi venne in visita ufficiale a Verona, il 7 e l’8 marzo 1867: la nostra città era italiana da soli cinque mesi e altri tre mesi prima, il 3 dicembre 1866, gli vennero intitolate dal Consiglio comunale due strade, via San Pietro in Monastero e via San Fermo di Cortalta, che da via Rosa portavano all’Adige. La sua visita ufficiale fu un avvenimento. Il suo treno arrivò alle cinque e mezza del pomeriggio del 7 marzo, con un’ora e mezza di ritardo: la folla, impaziente, aveva riempito la stazione ferroviaria già alle tre. Il giorno dopo, dal balcone di casa Canestrari in piazza Bra pronunciò, davanti a una grande folla, le celebri parole «O Roma, o morte».
Il giorno dopo, quando ripartì, Garibaldi lasciò alla giunta comunale un autografo firmato: «Serberò eterna memoria dell’accoglienza superiore ad ogni merito mio, ricevuta in Verona», con la data dell’8 marzo.

Fonte: da  L’Arena di Verona di Sabato 21 Agosto 2010, CRONACA, pagina 19

venerdì 27 agosto 2010

Adolf Hitler aveva origini ebraiche e la prova è nel suo Dna


Uno studio genetico condotto sui parenti del Führer dimostra in modo scientifico che il dittatore non era affatto ariano. Ben 39 discendenti del fondatore del Reich sono stati sottoposti a esami

Ebreo e pure nordafricano. Algerino, magrebino, come uno dei tanti poveracci che oggi la povertà spinge verso l’Europa. Popoli «inferiori» che non devono contaminare la purezza della «superiore razza ariana». Se qualcuno avesse voluto immaginare un «contrappasso» per Adolf Hitler nello sconosciuto girone infernale in cui si trova, non ne avrebbe potuto trovare uno più crudele. Per lui, ovviamente.
Che Hitler avesse sangue ebreo nelle vene era voce da tempo circolante, con svariate e talvolta fantasiose ipotesi. Ma ora sembra che sia la scienza a dimostrare, senza possibilità di confutazione, l’origine ebraica e forse anche nordafricana del Führer. Lo dimostrerebbe l’analisi del Dna.

A indagare sono stati due belgi, il giornalista Jean-Paul Mulders e lo storico Marc Vermeeren che, con somma pazienza hanno rintracciato ben 39 discendenti di Hitler (cosa non facile dato che tutti costoro cercano in ogni modo di nascondere l’imbarazzante parentela) dai quali hanno ottenuto altrettanti campioni di saliva. Rigorose analisi di laboratorio - scrive l’inglese Daily Telegraph che riprende la notizia dalla rivista belga Knack - avrebbero rintracciato il cromosoma Aplogruppo Eib 1b1, rarissimo fra gli occidentali e comune invece fra gli ebrei ashkenaziti e sefarditi, nonché fra i berberi del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia. I risultati hanno ottenuto l’avallo della prestigiosa Università Cattolica di Lovanio.

Vedi un po’ le sorprese che ti riservano le indagini cromosomiche, a conferma, come ben sanno i genetisti, che di razze «pure» non ne esistono al mondo ma siamo tutti frutto di milioni di incroci. Lo sostiene anche il genetista italiano Guido Barbujani, autore nel 2003 di un sarcastico romanzo intitolato per l’appunto Questione di razza (Mondadori). E tanto più difficile è separare le origini dei cittadini in quel crogiuolo di etnie fra occidente germanico ed Europa orientale che era l’impero austroungarico dove Adolf nacque il 20 aprile 1889 a Braunau am Inn, cittadina nei pressi del confine bavarese. Klara era la terza moglie di Alois, dal quale ebbe sei figli. Sopravvissero solo Adolf e la sorella Paula.

Fra i tanti misteri che hanno circondato la figura di Hitler in vita e in morte c’è anche quello della sua famiglia. Si è accertato che Alois, padre detestato da Adolf, era figlio illegittimo: da ragazzo portava il nome della madre, Anna Maria Schicklgruber, modesta cameriera in una locanda di Graz. Più tardi adottò il nome del padre naturale (che però pare non lo abbia mai voluto riconoscere), Johann Georg Hiedler o forse Hüttler, che successive trascrizioni trasformarono in Hitler. Altre fonti sostengono che Anna Maria rimase incinta di un giovane ebreo di nome Frankenberger, ma pare si tratti di notizia infondata.

Dove sta il mistero? Sta nel cognome Schicklgruber, comune fra gli ebrei ai quali l’imperatrice Maria Teresa concesse la cittadinanza austriaca dopo la loro conversione al cattolicesimo. Dunque la nonna paterna di Hitler molto probabilmente era un’ebrea convertita. Hitler aveva almeno un buon quarto di sangue ebreo nelle vene.

Secondo mistero: la causa dell’odio folle che il Führer portò agli ebrei fin dagli esordi in politica. Anche qui le ipotesi sono le più svariate. C’è chi, come il «cacciatore di nazisti» Simon Wiesenthal, ha sostenuto che una prostituta ebrea contagiò il giovane Adolf con la sifilide al tempo del suo soggiorno viennese. Altri dicono che portasse tenace rancore ad un medico ebreo, Eduard Bloch, che sottopose a cure sbagliate la madre Klara. Ma storici più accurati avrebbero invece appurato che la povera Klara, affetta da un carcinoma al seno diagnosticato troppo tardi che la uccise a soli 47 anni, fu invece curata con grande dedizione e capacità professionale dal dottor Bloch al quale Hitler - profondamente legato alla madre - professò sempre eterna riconoscenza. Che cosa ne fu poi del medico ebreo al tempo della persecuzione antisemita, questo non si sa. Forse, per sua fortuna, morì prima.

Un’altra spiegazione potrebbe essere l’inesausto rancore che Hitler portò sempre al padre, uomo rozzo e incapace di affetto, che non credeva in lui né tantomeno nelle sue capacità artistiche (non gli si può nemmeno dar torto), e dal quale si sentì sempre incompreso e disprezzato. Il suo odio avrebbe incluso anche l’incolpevole nonna, che portava la vergogna di essere una ragazza madre, cosa che, in tempi di rigidi costumi, la collocava in fondo alla scala sociale, sia come ebrea che come cattolica.
Altrettanto fantasiosa è la spiegazione che Hitler fornisce in Mein Kampf in cui sostiene di essere stato scioccato dall’incontro a Vienna con un «Ostjude», un ebreo dell’Europa orientale dall’aspetto stregonesco. Più probabile è invece la precoce influenza subita a Monaco negli anni Venti delle idee antisemite del giornalista-editore Dietrich Eckart con il quale strinse una duratura amicizia. Dopo tutto, l’antisemitismo non lo inventò Hitler. Lui vi aggiunse solo le contorte pulsioni che si aggiravano negli oscuri meandri della sua psiche.

Fonte: srs di Domizia Carafoli,  dal il Gionale  di giovedì 26 agosto 2010

Il furto dell’anima indiana


Bob Dylan che usciva da un istituto tecnico ad indirizzo agricolo,  ruba dalla grande anima indiana Knocking On Heaven's Door.
Lo spirito gueriero Sciamanico del grande popolo dei nativi america frettolosamente eliminati dalla Democrazia americana che attraverso i campi di sterminio, quali erano le riserve ha allegramente eliminato il sacro popolo dei nativi indiani rubandone le terre, uccidendo i bisonti e carpendone i sacri riti.
Pensano di avere cancellato la memoria, ma il GRANDE DIO DELLE PRATERIE respira e il vento porta sempre le anime immortali.
Si parla dei lagher nazisti, e delle riserve americane? e della Union Pacific?
La tua notorietà o Bob Dylan è un furto come la Palestina!

Fonte: srs di Luigi Pellini.   16 giugno 2010

giovedì 26 agosto 2010

Tutankhamon Un segreto da nascondere

Carter e  Carnarvon davanti all'ingresso della tomba 


Lo scrittore statunitense Arnold C. Brackman, nel suo libro “The search for the gold of Tutankhamon” (1976), si diceva convinto che all’epoca dell’apertura della tomba l’unico reperto archeologico che avrebbe potuto costituire un “grave scandalo politico e religioso” fossero dei documenti storici risalenti all'epoca di Tutankhamon. Brackman suggeriva che grazie ad essi sarebbe stato possibile dimostrare in maniera inequivocabile la stretta relazione tra il primo faraone monoteista della storia, “l’eretico” Akhenaton (probabile padre di Tutankhamon) e Mosè [38], il legislatore israelita che secondo la tradizione dell’Antico Testamento "condusse il popolo d’Israele fuori dall’Egitto"

A conferma di tale ipotesi troviamo una importante testimonianza di Lee Keedick, che lo scrittore Thomas Hoving ha riportato testualmente in un suo volume del 1978, “Tutankhamon-the untold story”. Keedick ha raccontato di aver assistito ad una animata discussione tra H. Carter e un alto funzionario inglese, avvenuta nel 1924 all’ambasciata britannica del Cairo [38]. Durante l'acceso scontro Carter minacciò di rivelare pubblicamente “lo scottante contenuto dei documenti che aveva trovato nella tomba”, documenti che - stando a quanto lo stesso Carter affermava - “raccontavano il vero e scandaloso resoconto dell’esodo degli Ebrei dall’Egitto” [1]. Tuttavia, pare che al termine della discussione Carter abbia trovato un accordo vantaggioso per tacere, e di fatto, da allora, dei papiri non si è più saputo nulla.


I documenti scomparsi



Carte avvolge delle bende funerarie ritrovate nella tomba. Davvero possibile confonderle   con un papiro?


L’esistenza di tali reperti venne registrata e catalogata durante la stesura del primo inventario ufficiale, ma fu clamorosamente smentita da Howard Carter  - quando già si iniziava a parlarne dappertutto - poco dopo la morte improvvisa di Lord Carnarvon (quella “dovuta alla puntura di zanzara”). Carter spiegò che aveva erroneamente classificato alcuni bendaggi del faraone come papiri, a causa dell'assenza di luce elettrica nella cripta.

Ma la sua spiegazione era decisamente fragile: se infatti si fosse trattato di una semplice svista nella catalogazione, i membri del suo team se ne sarebbero dovuti accorgere molto presto, visto l’interesse che nel frattempo i preziosi documenti avevano suscitato. La palese bugia di Carter ebbe quindi l'effetto opposto a quello desiderato: invece di seppellire per sempre la notizia del ritrovamento, i "papiri scomparsi” di Tutankhamon divennero oggetto di pettegolezzi e speculazioni [2], che si trasformarono in sospetti veri e propri, quando fu accertato che Carter e Carnarvon avevano più volte rilasciato false dichiarazioni alla stampa.

Si seppe inoltre che i due protagonisti del ritrovamento erano entrati furtivamente nei locali della tomba prima dell' apertura ufficiale, trafugando nell’occasione numerosi oggetti del corredo funebre appartenuto al faraone.

Una conferma del ritrovamento dei papiri si trova in una lettera che Carnarvon inviò nel novembre del 1922 a un suo amico, l’egittologo Alan H. Gardiner. Nella riservata missiva Lord Carnarvon descriveva dettagliatamente gli oggetti scoperti nella tomba, e fra le altre cose affermava: “c’è una scatola con dentro alcuni papiri” [3]. Tale presenza venne poi confermata da una successiva missiva di Carnarvon a Sir Edgar A. Wallis Budge, il custode delle antichità egizie del British Museum, datata 1 dicembre 1922. Nella lettera Carnarvon affermava di avere trovato nella cripta del faraone alcuni documenti di notevole importanza storica [4].



Durante gli scavi, Carter segue da vicino il trasporto di una scatola simile a quella in cui sarebbero stati ritrovati i preziosi documenti



L’esistenza dei papiri era confermata anche da uno dei bollettini ufficiali che partivano quotidianamente da Luxor, durante gli scavi. Nel dispaccio telegrafico inviato da Arthur Merton il 30 novembre 1922, si leggeva: “... una delle scatole trovate nella tomba conteneva dei rotoli papiracei da cui ci si attende di ricavare una grande mole di informazioni storiche”[5].

Come noto, nei casi di un importante ritrovamento archeologico, lo scopritore evita di rilasciare dichiarazioni ufficiali fino a quando non a potuto verificare a fondo l’autenticità della propria scoperta.

E’ quindi poco credibile che quattro giorni dopo la scoperta nessun membro del team avesse ancora provveduto ad effettuare gli accertamenti. Sappiamo inoltre che Howard Carter non smentì mai le dichiarazioni fatte da Lord Carnarvon, e tanto l’inventario, quanto la prima versione dei fatti, vennero modificati solo dopo la morte di quest’ultimo [6].

Secondo alcune fonti [7], il conte di Carnarvon avrebbe addirittura confermato la scoperta dei papiri in un’intervista rilasciata il 17 dicembre 1922 - quindi 21 giorni dopo la scoperta ufficiale - ad un inviato speciale del Times.

Ulteriori indizi importanti arrivano dall’egittologo Alan Gardiner, che all’epoca venne avvisato del ritrovamento direttamente da Carnarvon, e pubblicò le proprie opinioni sull’effettivo valore della scoperta sul “Times” del 4 dicembre 1922. Nell’intervista Gardiner dichiarava: “Le mie preferenze mi portano ad essere particolarmente interessato alla scatola dei papiri che è stata ritrovata... D’altra parte, questi documenti potrebbero in qualche modo fare luce sul cambiamento dalla religione degli eretici (cioè i faraoni di El Amarna) verso la precedente religione tradizionale, e ciò sarebbe straordinariamente interessante…” [8].


La “scandalosa”storia di Israele


Pur non potendo disporre dei preziosi documenti, la maggior parte degli storici è giunta ormai ad un passo dalla soluzione del mistero che circonda sia il periodo storico di Tutankhamon (presunto figlio del faraone eretico) sia la nascita del popolo ebraico. Tali conclusioni confermano le voci che già trapelarono al tempo, quando lo stesso Carter ammise davanti ad alcuni testimoni, durante una animata discussione, che il segreto da nascondere riguardava la vera storia d’Israele.

I più recenti studi condotti in materia dimostrano infatti che con ogni probabilità il popolo d’Israele trae origine dal processo di mescolanza razziale avvenuto tra le tribù semite Hyksos e le altre minoranze etniche che seguirono il faraone eretico Akhenaton con la sua casta sacerdotale Yahùd [20]. Peraltro, è sin dai tempi dell’occupazione napoleonica dell’Egitto, che l’erudito Jean-François Champollion suggerì l’esistenza di uno stretto legame del vecchio testamento con il periodo egiziano di El Amarna e il suo faraone monoteista. Si tratta quindi di una ipotesi già largamente condivisa in passato da illustri egittologi, e confermata persino da Sigmund Freud. Il padre della psicoanalisi, che era ebreo, aveva studiato a fondo i testi sacri alla ricerca delle vere origini del popolo israelita [21], e al termine delle sue ricerche aveva scritto: “Vorrei arrischiare una conclusione: se Mosè fu egizio, e se egli trasmise agli ebrei la propria religione, questa fu la religione di Akhenaton, la religione di Aton”.

Altri insigni ricercatori di origine ebraica, come ad esempio Messod e Roger Sabbah (“I segreti dell’esodo”), sono arrivati alle stesse conclusioni sull’origine del popolo ebraico.

Le nuove scoperte archeologiche hanno quindi costretto i ricercatori a rivedere drasticamente le proprie posizioni.


Rotolo di rame


Robert Feather, autore dell’importante libro “L’ultimo mistero di Qumran”, ha mostrato in maniera esauriente come il cosiddetto “rotolo di rame” del Mar Morto (i “rotoli” furono nascosti nelle grotte di Qumran dalla comunità ebraica degli Esseni) sia indubbiamente di origine egizia, e come buona parte della redazione dell’antico testamento sia in realtà da attribuire alla casta sacerdotale del faraone eretico Akhenaton (Amenofi IV), i sacerdoti Yahùd.

Tali affermazioni vengono a convergere con le più recenti teorie ([31] [32] [33]), che identificano le prime tribù d'Israele con gli Shasu-Hyksos (etnia semita originaria dell’area Mesopotamica), i quali adottarono la potente casta sacerdotale egiziana degli Yahùd sotto la guida del monarca monoteista Amenofi IV/ Akhenaton, che regnò nello stesso periodo in cui sarebbe vissuto il biblico. Mentre il patriarca degli ebrei Abramo, stando alla fonte biblica, proveniva proprio dalla città di Ur (poi Babilonia, oggi Baghdad), ed aveva quindi origini mesopotamiche.


Akhenaton e la negletta storia del suo popolo


Il nord dell'Egitto venne invaso dagli Shasu-Hyksos intorno al XVII sec. a.C., e i loro re si insediarono come legittimi faraoni egizi per ben due dinastie, la XV e la XVI. Gli Hyksos erano un popolo semita culturalmente molto avanzato, che disponeva di tecnologie belliche d'avanguardia, come i poderosi carri da guerra mesopotamici (bighe, cavalleria pesante, elmi e corazze), a cui dovettero certamente il loro rapido successo militare.


La scoperta ebbe una forte eco sui giornali dell'epoca

Alla fine però i re Hyksos vennero sconfitti e cacciati definitivamente oltre il delta del Nilo, mentre parte del loro popolo venne catturata e costretta a rimanere in condizioni di schiavitù. I profughi Hyksos passarono così dallo status di dominatori a quello di prigionieri, e la loro permanenza in Egitto si estese per circa 400 anni: lo stesso periodo di tempo indicato dalla bibbia come “cattività egizia degli ebrei”.

Con l'avvento del faraone eretico Amenofi IV (rinominatosi Akhenaton), la minoranza Hyksos si convertì al culto monoteista di Aton, seguendo la sorte del suo breve regno. Cosa accadde dopo la caduta di Akhenaton ancora oggi non è chiaro, poiché i regnanti che gli succedettero ne cancellarono ogni traccia dalla storia. L’esodo biblico appare quindi inequivocabilmente connesso alle vicende del faraone eretico Akhenaton (le uniche idonee a garantirne un fondamento storico), il quale instaurò una nuova fede monoteista dedita al culto dell’ineffabile Dio Aton.

Ad esso Akhenaton dedicò la costruzione di una città intera, Akhet.aton (poi Tell el Amarna), il luogo dove radunò il suo nuovo popolo attorno al culto del sole. Molto si è discusso e scritto sull'eresia di Aton, un monoteismo in realtà molto atipico che racchiudeva in sé, senza rinnegarlo, il complesso politeismo egizio. Molti studiosi preferiscono quindi utilizzare il termine di “enoteismo”, spiegando che Aton non sarebbe stato l'unica divinità, ma bensì il dio supremo la cui venerazione avrebbe potuto sostituire tutte le altre in quanto derivanti da esso.

Tra i convertiti a tale forma di monoteismo vi furono anche altre minoranze etniche allora presenti in Egitto, che una volta riunite nel culto di Aton diedero luogo alla nascita di un popolo cosmopolita e multirazziale, in cui i membri di origine semita costituivano la maggioranza. All'interno di questa nuova nazione vi erano anche razze tipicamente africane, come quella dei Falashà etiopi che ancora oggi rivendicano la propria origine ebraica. Questi ultimi tuttavia, una volta cessato il regno di Akhenaton sull’Egitto, tornarono nella regione africana di appartenenza (l’Etiopia), separando così il proprio destino da quello degli altri profughi eretici.

I due esodi quindi - quello storico del faraone monoteista Akhenaton da una parte, e quello biblico di Mosè dall’altra - si verificarono esattamente nello stesso periodo storico, al punto che le due vicende narrative risultano fra loro perfettamente sovrapponibili. La stessa Bibbia inoltre ci informa che Mosè crebbe come un principe alla corte dei faraoni, dopo essere stato trovato in una cesta che galleggiava lungo il Nilo. Un episodio fiabesco che ha l'inconfondibile sapore di una invenzione letteraria volta a giustificare la presenza del proprio patriarca nella casa del faraone. Sembra quindi evidente che gli scribi dell'Antico Testamento vollero celare la vera origine di Mosè e del suo popolo ai loro stessi posteri.


L’indagine di Messod e Roger Sabbah


Ciò che sembra ormai certo, in ogni caso, è la corrispondenza tra l’esodo multi-etnico avvenuto ad El Amarna, al termine del regno di Akhenaton in Egitto, e quello descritto dalla Bibbia con la figura di Mosè. Tra le numerose prove raccolte in tal senso nel corso degli anni, ve ne sono alcune particolarmente significative, come ad esempio il Salmo 104 dell’Antico Testamento: secondo l’interpretazione più diffusa fra gli studiosi laici, il Salmo non è altro che una rielaborazione “del Grande inno ad Aton”, un testo fatto redigere dal faraone eretico in persona (il Grande inno ad Aton è stato rinvenuto nella tomba del faraone Ay ad Akhet-Aton/ Tell el Amarna).

Secondo l'autorevole interpretazione di Messod e Roger Sabbah, inoltre, il termine ebraico “adonai”, utilizzato per intendere “signore mio”, tradotto nel linguaggio dei geroglifici egizi corrisponde alla parola Aton, mentre una parte degli studiosi la traduce in adon-ay, ovvero, signore “Ay”, il nome del primo successore di Akhenaton.

Anche la controversa origine della preghiera cristiana del Pater Noster ("Padre nostro che sei nei cieli..."),  nonostante quanto lasciato intendere dalla Chiesa Cattolica, sembra essere, secondo alcuni studiosi (34), un inno religioso che risale all’antico Egitto, e precisamente al periodo in cui vigeva il culto del Dio-sole (da cui sarebbero nati termini come "l'altissimo" o "il signore dei cieli").

Un secolo fa Albert Churchward, studioso esperto di mitologia, affermava: "I Vangeli canonici possono essere considerati come una raccolta di detti prelevati dai miti e dalla escatologia degli Egizi". Assai più recentemente i co-autori de “I segreti dell’esodo”, Messod e Roger Sabbah, sono arrivati a sostenere la stessa tesi partendo dall’esame rigoroso delle fonti più antiche a disposizione, come alcuni testi sacri scritti in aramaico.

In tal modo hanno evitato di consultare testi già tradotti o deformati da interpretazioni precedenti, recuperando il prezioso significato originale. (E’ bene sapere infatti che l’aramaico non usava le vocali, e tradurlo significa sempre in qualche modo interpretarlo a propria discrezione.

Gli autori in questione hanno eseguito un rigoroso e approfondito lavoro esegetico, che si è avvalso degli autorevoli studi ermeneutici di Salomon Rashì, un traduttore ebraico medioevale molto noto e rispettato anche in ambiente ebraico ortodosso, soprattutto per essere diventato l’esclusivo depositario della loro perduta tradizione orale.


Il segreto della scatola n.101



Una delle scatole ritrovate nella cripta del faraone


Una volta chiarita l’importanza storica di papiri eventualmente presenti nella tomba di Tutankhamon è possibile tornare ad esaminare gli indizi che suggeriscono che questi siano stati occultati, mentre dovrebbe risultare sempre più chiaro il motivo per cui documenti del genere erano, e sono ancora considerati, politicamente esplosivi.

Lasciamo per un momento da parte la vicenda del ritrovamento, e facciamo un breve salto indietro nella storia.


La nascita del Sionismo



Theodor Herzl


 Le idee sioniste cominciarono a diffondersi in seno alla comunità ebraica attraverso le pubblicazioni e i discorsi di Binjamin Ze’ev, meglio noto come Theodor Herzl. Il suo volume “Der Judenstaat” (lo stato ebreo) del 1896 divenne così una sorta di “testo sacro” tra tutti i più ferventi militanti sionisti. Theodor Herzl è passato alla storia come il fondatore ufficiale del World Zionist Organization (la prima organizzazione sionista a livello mondiale), un movimento che propagandava sostanzialmente due istanze fondamentali: il concetto di “razza ebraica”, e il suo imprescindibile legame storico con la Terra Promessa, Eretz Israel (che non significa “Terra di Israele” in senso geografico, ma Terra dei discendenti di Giacobbe, ovvero “israeliti”). La lobby sionista non fù mai un movimento politico qualsiasi, in quanto potè contare sin dall’inizio sull'esclusivo appoggio dei poteri forti di allora.

Il supporto finanziario ai futuri coloni ebrei infatti venne assicurato dallo storico summit tra insigni banchieri e massoni che si tenne a Basilea nel 1897, durante i lavori del Primo Congresso Sionista. Il convegno era presieduto dal barone Edmond de Rothschild, il quale mise all’ordine del giorno la nascita di un istituto di credito che avesse il precipuo scopo di sostenere la causa sionista.



Edmond de Rothschild


Nacque così il Jewish Colonial Trust, uno strumento finanziario creato dai banchieri più ricchi e potenti del mondo, con lo scopo di provvedere all’acquisto di importanti porzioni di territorio arabo da concedere poi ai nuovi coloni. Il 2 novembre 1917 (quindi appena cinque anni prima della scoperta della tomba) il Segretario di Stato britannico(Ministro degli Esteri), ovvero il
massone Lord Balfour inviò la storica missiva al barone Walter de Rothschild, un altro insigne massone banchiere del suo stesso casato ebraico.

In quest’ultima si affermava testualmente quanto segue: “Il governo di Sua Maestà guarda con favore all’instaurazione in Palestina di una patria nazionale per il popolo ebreo, e farà del suo meglio per facilitare il raggiungimento di questo scopo purché sia ben chiaro che non sarà fatto niente che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebree esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico di cui godono gli ebrei degli altri paesi”.

A partire da tale data dunque le condizioni necessarie alla nascita dello stato d'Israele erano state già poste in essere, avendo i sionisti “incassato” l'appoggio ufficiale del governo britannico. Ma nonostante le enormi pressioni esercitate dall’alta finanza, e i successi politici da essa ottenuti in campo internazionale, la propaganda sionista (che aveva appunto come principale obiettivo la costituzione dello stato di Israele in Palestina) non riscosse inizialmente alcun successo degno di rilievo all’interno della stessa comunità ebraica. La maggior parte degli ebrei e dei rabbini d’altronde si erano perfettamente integrati nei propri paesi di residenza e non avevano nessuna intenzione di trasferirsi a vivere in Palestina.

I sionisti viceversa, nonostante la mancanza di fondatezza sia storica che biologica, cercavano a tutti i costi di validare e diffondere il concetto di “razza ebraica”:  una ideologia che venne propagandata attraverso opere [25] come quelle di Vladimir Jabotinsky (uno dei massimi attivisti storici del sionismo revisionista).  Costoro infatti, proprio a causa del processo d’integrazione effettivamente in corso a quell’epoca, consideravano la purezza etnica degli ebrei in grave pericolo, arrivando a sostenere che l’unica soluzione possibile per porvi rimedio fosse l’edificazione di uno stato ebraico.

A questo punto non è difficile immaginare come l’eventuale diffusione del contenuto dei papiri, che riscrivevano alla radice la storia dell’origine del popolo ebraico, avrebbe nuociuto alla causa sionista in maniera probabilmente letale. (Come già detto, in quel periodo la causa non aveva ancora riscosso molto successo. Fu solo negli anni '30, con l’ascesa al potere di Adolf Hitler, che la politica sionista cominciò ad ottenere largo consenso anche all'interno della comunità ebraica. A seguito della propaganda anti-semita del dittatore tedesco, molti ebrei accettarono di buon grado la proposta di traslocare definitivamente in Palestina, innescando quel consistente processo di immigrazione che portò poi alla nascita dello stato ebraico. Paradossalmente quindi la politica di segregazione razziale messa in atto dal Fuhrer giocò a favore dei sionisti che premevano per un emigrazione ebraica di massa verso la Palestina. La storia deve ancora chiarire fino in fondo i diversi punti di contatto che di fatto si registrarono fra nazisti e sionisti, in questa paradossale convergenza di interessi).


CONCLUSIONE


Siamo quindi di fronte ad una terza ipotesi, per cercare di spiegare la serie impressionante di morti sospette che sta alla base di questa vicenda: casualità statistica, maledizione del faraone, o “intervento umano”, teso a impedire la diffusione dei contenuti dei preziosi papiri?


Alfred de Rothschild


Per quanto il cui prodest suggerisca chiaramente la terza ipotesi, non esistono prove concrete che legittimino tale accusa verso i sionisti dell’epoca. Esiste però una curiosa connessione, ben difficile da ignorare: la presenza del barone Edmund de Rothschild  nella cerchia delle persone che seppero per prime la verità sullo scottante contenuto dei documenti. L’insigne banchiere godeva infatti di una canale d’informazioni privilegiato, essendo parente stretto di Alfred de Rothschild, il finanziere che coprì i debiti dello squattrinato conte di Carnarvon.

A. de Rothschild, a sua volta, era il padre naturale della moglie di Carnarvon, Lady Almina, la figlia di Marie Felice Wombwell, una donna regolarmente sposata con l’inglese George Wombwell [26]. Tale grado di parentela di uno dei massimi esponenti del potente casato ebraico con Lady Almina - anch'essa fra le vittime della “maledizione” - è autorevolmente testimoniato dalle memorie del VI conte di Carnarvon [27], ed appare quindi evidente che, se davvero fosse stato trovato il resoconto storico sulle vere origini del popolo ebraico, un influente membro della lobby sionista come E. Rothschild lo avrebbe certamente saputo.

Da qui in poi, lo spazio è delle illazioni. I fatti sono quelli che abbiamo presentato.


Fonte: srs di Marco Pizzuti per luogocomune.net del  6/12/2007




NOTE:

[1] da “La cospirazione di Tutankhamon”, Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald, Newton & Compton, p.171).
[2] Ibid p.164.
[3] ibidem
[4] ibidem
[5] ibid p.165
[6] ibidem
[7] ibidem
[8] ibid p.166
[9] ibid pp.132-133
[10] ibid p.118
[11] ibid p.120
[12] LINK
[13] LINK
[14] "La cospirazione di Tutankhamon”, Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald, Newton & Compton p.125
[15] ibid p.120.
[16] ibid p.125.
[17] ibid p.120 - LINK
[18] ibidem
[19] citaz. “A Passion for Egypt: A Biography of Arthur Weigall” by Julie Hankey Author of Review: Herbert W. Mason.
[20] citaz. Aldred, “Akhenaton: King of Egipt” – citaz. Assmann, Moses the Egyptian: "The memory of Egipt in Western Monotheism” - Weigall, “Tuthankhamen and other Essays”, pp. 108-109.
[21] S. Freud, Opere, Vol.11,. “L’uomo e la religione monoteista e altri scritti”, Torino, Bollati Boringhieri, 1979.
[22] da “La cospirazione di Tutankhamon”, Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald, Newton & Compton.
[23] da: G.Herbert, V conte di Carnarvon, “Resoconto della scoperta della tomba di Tutankhamen”, British Library Manuscript Collection, RP 17991.
[24] “La cospirazione di Tutankhamon” p.168.
[25] "Dialogo sulla razza e altri scritti", Vladimir Jabotinsky, traduz. effettuata da V.Pinto per M&B Publishing ediz., 2003
[26] citaz. Nial Ferguson, “The House of Rothschild: The world’s bankers”, Londra, Penguin, 2000, p.247.
[27] citaz. The 6° Earl of Carnarvon, “No regrets, Memoirs of the earl of Carnarvon”, Londra Weidenfeld and Nicolson, 1980, p.6.
[28] “La cospirazione di Tutankhamon” pag 312.
[29] ibidem
[30] ibid. pag. 314.
[31] “Mosè l'egiziano”, J.Lehmann, Garzanti, Milano
[32] “I segreti dell’esodo”, Messod e Roger Sabbah
[33] “L’ultimo mistero di Qumran”, Robert Feather
[34] "The Origin and Evolution of Religion" di Albert Churchward"
[35] G. Hancock e R. Bauval “Talismano”.
[36] Arthur C. Mace, “The Tomb of Tut.ankh.Amon”.
[37] Arnold C. Brackman “The search for the gold of Tutankhamen”
 [38] Lee Keedick , 1978, “Tutankhamen-the untold story”.