lunedì 31 dicembre 2018

ERANO CRIMINALI E SAPEVANO DI ESSERLO



ISTRUZIONE

DEL DIRETTORIO ESECUTIVO

AL CITTADINO SCHERRER

General in Capo dell’Armata d’Italia



L’importante Commissione che vi affida  la Patria, cittadino Generale, non tende a  niente  meno,  che a rendere per l'avvenire la Repubblica  Francese arbitra del destino delle Nazioni  dell' Universo. Sin dal momento della caduta di Cartagine previde Roma la conquista dell’ Oriente; nella  totale sommessione  dell’ Italia sono compresi li nuovi trionfi riservati all' eroismo della  gran Nazione  dalla forza  insuperabile del destino.  Li soldati che andate voi a comandare, contano le vittorie  col numero delle battaglie che han date; non è permesso  dubitare per un solo  momento  del felice successo delle nostre armi:  continuate intanto ad incoraggiare le truppe con tutti que' modi proprj , e condurle a de' nuovi trionfi. 

Le Provincie e le Città da sottomettersi  abbondano di tutto.   Elleno vi offrono degli innumerevoli mezzi per ricompensare li pericoli, e le fatiche dei soldati della Repubblica, e noi ve ne facciamo un dovere di servirvene in nome   della Patria.
 Ma non basta che li   Tedeschi  siano scacciati dal suolo italiano;   è necessario trarre  da questa bella parte d'Europa tutto il possibile  vantaggio  per l' ingrandimento ulteriore della Repubblica. 

La Francia, non ha bisogno di braccia forestiere  per soggiogare, li suo; nemici, ma  ha ella bisogno delle ricchezze dei popoli  vinti. 
Li Figli della gran  Nazione devono occuparsi, che di fare la guerra e di comandare, tocca alle Nazioni conquistate il mantenerli, e obbedire.




Il Direttorio Esecutivo ha  giudicato necessari  sin  ora di tener nascosto il vastissimo oggetto, che s'era proposto, e di abbagliare le teste Italiane col fantasma della Sovranità  e della indipendenza  nazionale: quest' idea seducente, secondate da   persone ambiziose,   ed avide  di questo paese, ebbe tutta quella riuscita che conveniva   ai nostri interessi: sedici milioni di uomini furono sottomessi da un  numero di combattenti,  che si poteva  chiamare  corpi volanti  piuttosto  che armate. 
Li  monumenti delle Arti, e delle scienze, che decoravano questi paesi , ebbero una più nobile   destinazione, essi  sono venuti a decorare li vincitori,  li  soli degni di possederli:  l'oro  e l’argento di cui l’Italia abbondava fu tutto versato nelle Casse delle nostre Armate. Fosse stato possibile di impiegarlo tutto in ricompense, o a riempire il vuoto del tesoro  nazionale! ma convenne  prodigalizzare a corrompere gli amministratori dei differenti stati, a stipendiare li faziosi, gli allarmisti, gli spioni e presso li forastieri, gli entusiasti apostoli dei nostri principi.

Un tal sistema utile per le circostanze del momento,  deve cessare subito dopo che  le Truppe Austriache saranno cacciate da quel cantone d’Italia, che la generosità Francese ha voluto cederli e il nostro Governo deve ritirare dei più solidi frutti da un così prezioso stabilimento. Voi siete quello, Cittadino  Generale, che il Direttorio Esecutivo ha scelto per organizzare il governo politico d’Italia, di cui voi siete destinato a terminare la conquista.

Crediamo inutile di ricordarvi, che la Repubblica Francese essendo unica, tutte le  Repubbliche Italiane infantate, e tollerate a causa soltanto dell’imperiosità delle circostanze, devono sparire.  L’esistenza dei vinti non consiste  che in  una tranquilla servitù,  e non devono conoscere altre leggi, che quelle che gli verranno dettate dal conquistatore. Il Direttorio si riserva a far decidere con più maturità la futura  sorte di queste  provincie, e frattanto voi stabilirete, Cittadino Generale,  in tutte le Città un Governatore, tratto dal seno dell’Armata, che sarà Capo del Corpo Politico che voi istituirete, di una municipalità, e di una commissione economica. Dipenderanno dalla prima la giudicatura Civile, e  criminale come pure l’amministrazione particolare di cadauna Città,  o distretti,  quella degli Ospitali, delle fabbriche pubbliche, e cose simili; apparterrà alla seconda l’esazione delle imposte, e il maneggio di esse in conformità degli ordini che riceverà dal Direttorio.

Li membri delle rispettive Municipalità  saranno scelti dai Cittadini del Paese, li  più ricchi, e li più onesti, e sopra tutto ragionevoli abbastanza per conoscere, che la loro felicità dipende  dalla  pronta obbedienza alle legge  del più forte.  Vi si commette  precisamente di non lasciare  entrare in quei onorevoli impieghi, alcuno di  quegli esseri immorali, che colla loro ambizione secondarono li nostri progetti, o mostrarono un’inclinazione di opprimere, e di arricchirsi.

Da uomini di tal sorta la Repubblica non può aspettarsi una miglior condotta di quella che hanno essi tenuta per li suoi interessi verso i loro concittadini: il lasciarli in posto  non potrebbe che disonorare  il nome Francese, ch’essi soli han reso odioso ai deboli italiani: Questo colpo d’Autorità così  necessario alla tranquillità, e all’economia pubblica, e che ridona alle arti e ai mestieri dei loro padri una folla di scellerati che si impinguavano del Patrimonio pubblico non mancherà di formare dei malcontenti, ma voi saprete contenerli col rigore, e questa misura sarà altrettanto più utile quanto che ella ci  concilierà la stima di quelli, che vendicati degli insulti  sofferti riputarono sinora tal razza di uomini dispregievoli.

Nella Commissione economica dovranno essere ammessi li soli Cittadini Francesi. Fate in maniera, che cada la scelta sopra degli uomini degni della pubblica fede; poiché è stata  sin ora ingannata di troppo. Sopprimere al più presto le così  dette Guardie Civiche,  e legioni nazionali;  soffocate ne’ cuori Italiani qualunque di ardor marziale.  La Romana  Potenza si è indebolita   subito che ha permesso  ai Forestieri  l’uso dell’armi.  Approfittiamo de’ suoi esempj.  L’agricoltura, il commercio, le arti, sono le sole professioni, che voi dovete incoraggiare in una provincia soggiogata, destinata a nutrire li suoi Padroni, e ad esserne il granaio.

Abbandonate in conseguenza a loro stessi li letterati,  e le scientifiche istituzioni, affine di ottenerne senza violenza e senza  una scossa sensibile l’annichilamento.   La scienza deve essere esclusivamente  riservata ai soli Cittadini Francesi come lo era ella in Egitto ai Sacerdoti di Menfi, e di Heliopoli.   Nel mentre che  cercherete voi di  umiliare i sapienti, classe inutile  per lo meno, se anche non sia pericolosa in un popolo  destinato ad obbedire, vi darete  tutta la cura possibile per onorare, è premiare l’industria, e gli uomini che coltivano le Arti, e l’Agricoltura somministrano  alla Repubblica colle produzioni della terra e con l’argento che ne ritraggono al di fuori li mezzi di mantenere, e di estendere il dominio.

La mollezza e il lusso non mancheranno d’introdursi in una nazione esclusa dall’esercizio delle armi, e delle scienze sublimi, che coltiva un suolo fertilissimo.  Sarebbe impolitico, se non fosse ancora impossibile,  il pretendere dei costumi austeri dagli abitatori dell’Italia.  E’ perciò che in luogo di arrestare l’amore dei piaceri, e dei divertimenti voi dovete proteggerli,  ed eccitarli affine di distorre gli spiriti dal peso della dipendenza, e  per renderli sempre più impotenti a tentare delle novità.  Per domare le Città della Grecia, e dell’Asia che soffrivano con impazienza di essere state private della lor libertà, e sempre pronte a una rivolta, li Sovrani dell’Oriente non trovarono  miglior mezzo, che quello di immergerli nei piaceri con spettacoli magnifici, con sontuosi festini e con amori li più sregolati.    Questo regolamento  pieno di saggezza  riescirà assai più facile per voi che dobbiamo impiegarli con dei popoli avviliti dall’ozio, da una lunga pace, e molto più dall’infingardagine    de’ loro imbecilli Governatori che abbiamo abbattuti

Qualunque sia il numero dei Capi d’Opera delle Arti,  e delle scienze trasportati dall’Italia nel seno della Repubblica; è certo che te ancora colà tanto nei luoghi pubblici,  quanto nelle Case dei particolari una quantità enorme di Quadri, di Statue, di Libri, e di Medaglie;  vi si trovano ancora delle collezioni di ogni spezie di vasi, di urne, di colonne, e di obelischi, oggetti preziosi in ogni senso, e molto proprj  a far preponderare sopra tutte le altre quella Nazione  che li possiede.  Ella è una massima del Direttorio, che questi monumenti passino un poco per volta sotto nome di dono, o di tributo a nobilitare la Repubblica, e verrà rimarcata come una luminosa prova della vostra desterità, Cittadino Generale, se persuaderete gli italiani a farne una volontaria cessione, che non si lascierà  di esigere colla forza nel caso che non vi rerti altro mezzo per ottenerlo.

Nello scrupoloso adempimento della delicata commissione che vi si affida, sta appoggiata la grandezza della nostra Patria, Voi non potete rinunziare  alla gloria di avere un grado così eminente ben meritato di essa. Salute e considerazione



1799

DALLO STATO IMPERIALE


Fonte: (Fonte codice 989091 Biblioteca Museo Risorg. Roma)





BARTHÉLEMY LOUIS JOSEPH SCHÉRER




Barthelemy Louis Joseph Schérer. Ritratto di Paulin Guérin



Barthélémy Louis Joseph Schérer (Delle, 18 dicembre 1747 – Chauny, 19 agosto 1804) è stato un generale francese del periodo rivoluzionario.


Dopo aver servito per undici anni nell'esercito austriaco, disertò passando al servizio della Francia col grado di maggiore in un reggimento di artiglieria di base a Strasburgo. Prestò servizio per l'esercito danese nella légion de Maillebois dal 1785 al 1790; fu congedato col grado di tenente colonnello.

Ritornato in Francia dopo la Rivoluzione, nel 1792 era capitano nell'82º Reggimento di fanteria. Fu aiutante di campo del generale Despretz – Crassier a Valmy, nel 1793 servì nell'Armata del Reno come aiutante di campo maggiore del generale Alexandre de Beauharnais.

Nel 1794 fu promosso generale di divisione nell'Armata di Sambre-et-Meuse, fu autore della conquista di Mons, Landrecies, Le Quesnoy, Valenciennes, Condé. Il 3 maggio dello stesso anno sposò a Delle con cerimonia civile Marie Françoise Henriette Caroline Müller. Il 3 novembre fu nominato una prima volta comandante dell'Armata d'Italia prima di essere trasferito all'Armata dei Pirenei Orientali il 3 marzo 1795; il 14 giugno Schérer comandò 12.000 uomini contro 28.000 spagnoli in uno scontro sul fiume Fluvià.

Dal settembre 1795 tornò in Italia a rimpiazzare Kellerman come comandante in capo; riportò contro gli Austro-Sardi la vittoria di Loano, ma non riuscì a sfruttarla. Fu quindi richiamato in patria e sostituito dal giovane Napoleone Bonaparte.

Non ebbe incarichi per alcuni mesi prima di essere nominato ispettore generale di cavalleria dell'Armata dell'interno, e poi dell'Armata di Reine-et-Moselle. Fu poi ministro della Guerra dal 23 luglio 1797 al 22 gennaio 1799, data in cui tornò alla testa dell'Armata d'Italia; durante il suo ministero fu introdotta in Francia la coscrizione obbligatoria con decreto del 4 settembre 1798.

Non fu in grado di fermare l'avanzata austro-russa di Suvorov: fu battuto da Paul Kray a Pastrengo (26 marzo), Verona (30 marzo) e Magnano (nei pressi di Verona, 5 aprile), e costretto a ritirarsi oltre il Mincio dove lasciò il comando a Moreau.

Dovette comparire davanti ad una commissione d'inchiesta, ma fu assolto; si ritirò quindi a vita privata nelle sue proprietà di Chauny dopo il 18 brumaio, e morì nel 1804, dopo aver pubblicato le sue memorie in Précis de ses Opérations militaires en Italie.


Bibliografia
«Barthélemy Louis Joseph Schérer», in Charles Mullié, Biographie des célébrités militaires des armées de terre et de mer de 1789 à 1850, 1852

Fonte:  Da Wikipedia








venerdì 28 dicembre 2018

I CAMPI ELISI

Campi Elisi ne "Il gladiatore"


I Campi Elisi, o Eliseo erano, nella mitologia greca e romana, il luogo beato in cui dimoravano, terminata la loro esistenza, le anime di coloro che si erano dimostrati degni di tale ricompensa. Era insomma un equivalente del Paradiso cattolico, non beatificato da una presuntuosa presenza divina che non era ritenuta così appagante, ma da un territorio ideale, con paesaggio e clima splendido.

IN GRECIA

I Campi Elisi non sono sempre legati al merito, e soprattutto il merito è un concetto che cambia secondo le epoche e i punti di vista. Per esempio nell'Odissea, Omero annuncia che Menelao è destinato ai Campi Elisi, in quanto marito di Elena figlia di Zeus, pertanto l'aver sopportato di buon animo il tradimento della moglie diventa un merito agli occhi degli Dei. Una specie di nepotismo, che nulla ha a che fare con i meriti.

In realtà si tratta di un retaggio matriarcale per cui la regina sacerdotessa è più importante del re guerriero, in quanto la regalità è appannaggio della donna e l'uomo può acquisirla solo mediante matrimonio. Ne fa fede Egisto che diventa re perchè ha sposato la regina Clitennestra. Dunque tempo che vivi usi che trovi. I guerrieri morti in battaglia vanno nei Campi Elisi ma pure i filosofi, almeno in Grecia.

Omero, pone i Campi Elisi ai confini del mondo, facendone la sede di eroi sottratti al fato di morte per speciale privilegio, da identificare con le Isole dei Beati di cui parla Esiodo. Omero li descrive (Odissea - libro IV 702-712) come un susseguirsi di prati fioriti, senza mai freddo, o pioggia, o neve, ma con eterni soffi di zefiro, mandati da Oceano a rinfrescare gli uomini. Lì non ci sono malattie, nè sofferenze, nè morte




ODISSEA

A te poi è stabilito, o Menelao prole di Zeus,
che in Argo patria di cavalli tu non compia il destino di morte.
Gli dei immortali invece nella pianura Elisia ti manderanno
e ai confini estremi della terra, dove è il biondo Radamanto,
e dove per gli uomini il vivere è agevole e senza fatica.
Non c’è mai neve né il crudo inverno né pioggia,
ma sempre l’Oceano manda soffi di Zefiro
dall’acuto sibilo per dare refrigerio agli uomini.
La tua sposa è Elena e per loro sei genero di Zeus.

(Omero - Odissea - libro IV, 561-570)

Nella tradizione greca più antica, non c'è nel dopo-morte un concetto di premio e punizione. Solo in seguito si farà una distinzione tra il Tartaro, destinato a tutti gli uomini, e i Campi Elisi, luogo di bellezza e serenità per gli eroi e per gli uomini emeriti.

Esiodo fa sopravvivere gli uomini alla morte come demoni, dispensatori di buona o cattiva sorte, gli uomini dell’età dell’oro e dell’argento, probabile segno che nei tempi più antichi gli avi proteggevano o avversavano i loro eredi, probabilmente in base agli onori ricevuti

Agli eroi invece Zeus destina una dimora ai confini del mondo (le Isole dei Beati) dove vivono una vita senza dolori, ma senza ingerenze nel mondo dei vivi. La visione omerica della morte coincide con una situazione di non-esistenza: dopo la vita data e tolta dalla Moira, ogni vita rientra nel nulla da cui è uscita. Naturalmente fanno eccezione gli eroi.

In un’altra prospettiva, si indica con Elisi un luogo dell’Ade riservato a coloro che ben operarono in vita, mentre agli empi, che avversarono Dei ed eroi, sono destinate le sofferenze del Tartaro, corrispondente dell'Ade. Ovidio, nelle Metamorfosi, descrive il regno dove dimorano gli uomini indegni:

“C’è una via che in declivio si perde fra il fosco di tassi funerei; attraverso muti silenzi conduce agli inferi. Lo Stige pigro esala nebbie, e per lì discendono le nuove ombre, i fantasmi di coloro che sono stati onorati di sepoltura. Pallore e freddo ristagnano dappertutto su quegli orridi luoghi, e i morti appena arrivati non sanno dove sia la strada, da dove si passi per giungere alla città infernale, dove sia il tremendo palazzo del nero Plutone.
La capace città ha mille entrate, ha porte aperte dovunque; e come il mare accoglie i fiumi di tutta la terra, così quel luogo accoglie tutte le anime, non è piccolo per nessun popolo, non sente l’arrivo di nessuna folla. Errano esangui le ombre, senza corpo e senza ossa, e in parte si accalcano nella piazza, in parte nella reggia del sovrano dell’abisso, in parte esercitano qualche attività, a imitazione della vita di un tempo, altre ancora sono costrette a scontare una pena.

(Ovidio - Metamorfosi - libro IV: 431-446)




A ROMA

Anchise, eroe troiano della stirpe di Dardano, fu sposo di Afrodite e padre di Enea. Reso storpio, o cieco, da Zeus per essersi vantato delle nozze divine, scampò alla rovina di Troia portato a spalla da Enea. Morto poi di vecchiaia in Sicilia, Enea risale lo stivale e arriva in Campania, al lago d'Averno, per consultare la Sibilla; ella lo accompagna fino ai Campi Elisi, dove incontra il suo defunto padre Anchise, che gli predice il suo futuro.

Per i greci dunque i Campi Elisi erano collocati sotto terra, dove i "beati" vi conservavano le loro spoglie mortali e si dedicavano alle occupazioni più gradite, soprattutto di filosofia e letteratura.

Anche nella religione romana ricorre spesso la descrizione di questi luoghi, come quella contenuta nell'Eneide, Virgilio però, a differenza di Omero, colloca l'Elisio all'estremo confine occidentale della Terra, in un luogo non sotterraneo, nei pressi dell'Oceano. Virgilio del resto immagina l'Elisio sulla scorta di Platone, il quale per primo lo pensò con un suo proprio sole, più splendente del nostro.

Nel libro V dell'Eneide, Enea dopo la sua fuga da Troia, arriva a Cuma per consultare la Sibilla, la quale lo accompagna nell'Elisio, dove incontra il padre Anchise morto da poco tempo, nel libro VI invece è la Sibilla che parla all'eroe troiano.


ENEIDE


"… mentre s'alternavano questi discorsi, l'Aurora sulla rosea quadriga
aveva attraversatola metà del cielo con etereo cammino;
e forse trascorrerebbero in essi tutto il tempo concesso,
ma la guida ammonì e brevemente parlò la Sibilla:
la notte precipita, Enea, e noi protraiamo le ore piangendo.
Qui la vita si divide in due parti:
la destra si dirige alle mura del grande Dite,
per essa il nostro viaggio in Eliso; la sinistra
esercita il castigo delle colpe e conduce all'empio Tartaro".

(libro VI, 535 - 544)

Poter penetrare nell'aldilà e uscirne vivi è un grande privilegio, pochissimi coloro che poterono accedere agli Elisi, si ricordano: Anchise, Dardano, Assaraco, Museo, Orfeo, Menelao e Cadmo e Armonia, trasformati in dragoni. Enea è fra costoro.

Secondo alcuni autori nei Campi Elisi vi scorre il Lete, il fiume dell'oblio: le anime che bevono la sua acqua (e solo quelle dei virtuosi) possono reincarnarsi in un nuovo corpo, avendo cancellato ogni ricordo della vita precedente.

"… tuttavia recati prima nelle inferne sedi di Dite;
nel profondo Averno, figlio, vieni all'incontro con me.
Non m'accoglie l'empio Tartaro, tristi ombre;
mi trovo nelle amene adunanze dei pii e nell'Eliso.
La casta Sibilla ti condurrà qui per molto sangue di nere vittime.
Allora apprenderai tutta la tua discendenza e le mura assegnate ".

(libro V, 731 - 737)

E infatti la Sibilla lo guida, e l'ammonisce:

E’ facile la discesa in Averno;
la porta dell’oscuro Dite è aperta notte e giorno;
ma ritirare il passo e uscire all’aria superna,
questa è l’impresa e la fatica. Pochi, che l’equo
Giove dilesse, o l’ardente valore sollevò all’etere,
generati da Dei lo poterono. Selve occupano tutto
il centro, e Cocito scorrendo con oscure sinuosità lo circonda.”

(Eneide, VI, vv. 126-132)





LA VITA FELICE DEI CAMPI ELISI


Però Omero segretamente pensa che chi è morto resta morto, cioè resta un'ombra di ciò che fu da vivo, senza un corpo che possa dargli piacere e vita. Infatti quando Ulisse, giunto nel paese dei Cimmeri  scende nell’Ade e incontra Achille: « Ma di te, Achille, nessun eroe, né prima, né poi, più felice; prima da vivo t'onoravamo come gli Dei noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti, quaggiù; perciò d’esser morto non t’affliggere, Achille ».

Ma Achille risponde: “Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte» E ancora Ulisse incontra sua madre nell’Ade e tenta di abbracciarla: «Così parlava: e io volevo – e in cuore l’andavo agitando – stringere l’anima della madre mia morta. 

E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava ad abbracciarla; tre volte dalle mie mani, all’ombra simile e al sogno, volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, e a lei rivolto parole fugaci dicevo: Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell’Ade, buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto? O questo è un fantasma che la lucente Persefone manda perché io soffra e singhiozzi di più? 

Così dicevo e subito mi rispondeva la madre sovrana: Ahi figlio mio, fra gli uomini tutti il più misero... non t’inganna Persefone figlia di Zeus; questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: i nervi non reggono più l’ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante li annienta, dopo che l’ossa bianche ha lasciato la vita; e l’anima, come un sogno fuggendone, vaga volando


IL MITO


Nel mito, presente nella letteratura greca almeno da Esiodo, ma probabilmente derivato da precedenti racconti dei Fenici grandi navigatori, c'erano le Isole dei Beati, a volte identificate con i Campi Elisi, splendide isole dal clima dolce nelle quali la vegetazione rigogliosa fornisce cibo senza che gli uomini abbiano bisogno di lavorare la terra. 

Gli Dei destinano alcuni eroi a vivervi un'eterna vita felice. Insomma somiglia moltissimo al Paradiso Terrestre. Del resto nelle isole beate vanno quelli che gli Dei li hanno onorati, anche se la religiosità degli antichi era solo una parte della vita quotidiana, e solo una parte della loro etica. 

Molto influiva infatti l'aver difeso la patria, o aver conseguito la sapienza, o la filosofia, o la poesia, o la letteratura. La religione presso i romani non era mai fanatica, un buon romano stava coi piedi per terra e non sperava che fossero gli Dei a risolvergli i problemi. Meritarsi i Campi Elisi non era poi così difficile, e non c'era bisogno di sacrificarsi.

Così dopo la morte ci si ritrovava a passeggiare su morbida erba sotto un cielo terso che nessuna nuvola offuscava, con placide colline e valli ombrose, rocce variegate e boschi profumati. La natura veniva qui riproposta nei suoi aspetti più miti, ma pure rigogliosa di frutti e di fiori, miracolosamente tenuti in vita senza una goccia d'acqua.

Virgilio  invece, presuppone per le anime dei meritevoli un mondo meraviglioso ma sotterraneo. Egli mostra ad Enea sulla sua sinistra il Tartaro, dove sono condannati quanti hanno tradito la patria, o i valori romani (fides, honus e pietas) e quanti si sono resi colpevoli di gravi delitti verso i loro parenti.

Sulla destra, invece, si trovano i meravigliosi Campi Elisi, che pur trovandosi sotto terra «conoscono un loro sole e stelle loro». Qui abbondano i prati e i boschi irrigati «dal corso copioso dell’Erìdano» (in realtà un fiume greco), dove i beati, senza fissa dimora, (cioè che possono andare dove vogliono,) continuano a esercitarsi nelle attività che svolgevano in vita, la ginnastica, la cura delle armi, la danza, il canto, la poesia. Pertanto sono destinati agli Elisi: 

- « il manipolo di quanti han patito ferite combattendo
- per la patria, e sacerdoti puri per quanto han vissuto,
- e poeti sacri che hanno cantato cose degne di Febo,
- e chi ha reso più bella la vita scoprendo saperi, o comunque
- si è meritato di lasciare negli altri memoria di sé ». 

Mescolando fonti filosofiche differenti, Virgilio descrive qui anime di grandi personaggi che ritorneranno in vita reincarnandosi in futuri eroi della storia romana. Virgilio resuscita la dottrina della reincarnazione di derivazione orfica e pitagorica per il suo panegirico augustano. Nei pressi del fiume Lete le molte anime che bevono dell’acqua per dimenticare tutto il passato e per reincarnarsi in altri corpi.

Così i grandi eroi del passato si sono reincarnati nel suolo romano per sostenere non solo la propria familia e la propria gens, ma il popolo romano tutto. Il poeta sancisce la grandezza di Roma destinata da lungi dagli Dei con una storia gloriosa che va dalla fine di Troia alla fondazione dell'Urbe, fino all’età di Augusto.




LA COLLOCAZIONE DEI CAMPI ELISI


Dette anche Insulae Fortunatae, le Isole dei Beati, o campi Elisi che dir si voglia, vengono descritte come isole dell'Oceano Atlantico presenti nella letteratura classica sia in contesti mitici sia in opere storiche e geografiche. Da Claudio Tolomeo (100 d.c. - 175 d.c.) in poi si è sempre sostenuto che coincidessero con le isole Canarie. Cicerone invece ha rappresentato la sede dei beati nella Via Lattea nell’opera Somnium Scipionis.

Per Diodoro Siculo si tratta di un'unica isola che non accoglierebbe nè divinità né beati, si troverebbe in mezzo all'Oceano, a molti giorni di navigazione al di là delle Colonne d'Ercole (Stretto di Gibilterra), e sarebbe stato un antico possedimento cartaginese.

Secondo Plutarco i Campi Elisi, ovvero delle mitiche Isole beate, disterebbero dall'Africa 10.000 stadi (circa 1.600 km).

Per Plinio il Vecchio le cosiddette Isole Fortunate sarebbero le Isole Canarie e Tolomeo II secolo d.c.), che nella sua Geografia (Geographike Hyphegesis) ne dà conferma facendovi pure passare il meridiano di riferimento. D'altronde il nome Isole Fortunate fu sempre usato fino all'età moderna per indicare le Isole Canarie.

Tuttavia l'identificazione delle Isole Fortunate con le Isole Canarie, operata da Plinio il Vecchio, Tolomeo e altri autori, non spiega l'origine del mito, che si pensa derivi da racconti di isole caraibiche visitate da Fenici o Cartaginesi. Un'ipotesi, basata sull'analisi delle testimonianze di Diodoro Siculo, Plutarco e altri autori, ha fatto pensare ad alcuni studiosi che i Campi Elisi potessero riferirsi a terre più occidentali delle Canarie, forse la stessa Cartagine.

L'assenza del ciclo stagionale, congiunta alla ricchezza della vegetazione, avrebbe giustificato la felicità dei luoghi, perchè non si soffre il caldo, ma neppure il freddo che costringe a ripararsi con le vesti. Non essendovi freddo, nè pioggia nè neve non occorre fabbricarsi capanne nè case.

Se non si deve badare alle vesti nè alla casa e se i frutti della terra vi germogliano spontaneamente evidentemente non si deve lavorare per sopravvivere. Nell'idea del non lavorare c'è anche l'idea dell'assenza della morte, che è la fonte di tutte le paure e di tutti i mali.


BIBLIO

- Esiodo, Le opere e i giorni, 166-173
- Pindaro, Olimpica II, 61-76
- Plutarco, Vite parallele
- Ovidio - Metamorfosi - IV: 431-446
- Claudio Tolomeo, Geografia
- Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, V, 19-20
- Pomponio Mela, Chorographia, III, 102.
- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VI, 202-205
- Pseudo-Aristotele, De mirabilibus Auscultationibus, 84


Fonte:  Da romanoimpero.com 













martedì 18 dicembre 2018

13 DICEMBRE….IL GIORNO DI CRISTINA PAVESI

Cristina Pavesi


Ci ho pensato su qualche giorno prima di pubblicare questo post perché il suo contenuto è un po' delicato, "sensibile" avremmo detto qualche anno fa.

Prima mi sono consultato. 

Poi mi sono detto che vale la pena comunque di pubblicarlo, perché voglio recuperare la memoria di una ragazza, Cristina Pavesi, trevigiana di Conegliano, vittima prima della mafia del Brenta (non è la "mala" del Brenta, no: quella è la Mafia del Brenta) e poi dell'oblio.

Ed è un oblio tutto veneto, terribilmente veneto, quello che non ha mai voluto riconoscere il radicamento e la diffusione di associazioni mafiose, provenienti dal sud Italia, e ramificate non solo lungo la riviera del Brenta ma anche ad Eraclea, a Caorle, a Venezia, a Mestre...

In breve, questa è la storia di Cristina, una di noi: il giorno di santa Lucia del 1990, Cristina Pavesi, ragazza di Conegliano, ventidue anni, studentessa universitaria. 

Tornava, in treno, a casa quel giorno dopo aver concordato la tesi con il suo relatore. Ore 18.30: un rumore assordante, un'esplosione secca.

Poi una lunga eco per la campagna padovana. L’odore del bruciato misto al fumo, acre e intenso: un ordigno aveva colpito il diretto Bologna-Venezia partito da Venezia e momentaneamente fermo nella campagna padovana, a Barbariga di Vigonza.

In quel punto, i treni iniziano tutti a rallentare, perché si attivano numerosi scambi e coincidenza a una decina di chilometri dalla città del Santo. 

E su quel punto di rallentamento agirono i mafiosi (i mafiosi, appunto, non i malavitosi) agli ordini di Felice Maniero, la Faccia d'Angelo, capo della Mafia del Brenta, l’organizzazione criminale nata lungo la Riviera. 

Il treno avrebbe dovuto rallentare, infatti, ma quella sera era stato proprio bloccato del tutto: erano quelli di Maniero che l'volevano bloccato per dare l'assalto al vagone portavalori delle poste.

I passamontagna calati sui volti, gli assalitori diedero il via alla sparatoria con gli uomini della polfer mentre due di loro prepararono la carica del tritolo, piazzato sui binari, per spezzare in due il convoglio e impadronirsi dei valori chiusi nel vagone blindato.

Nel momento della deflagrazione, passava l’altro treno, quello di Cristina Pavesi, quello che non sarebbe mai giunto a destinazione. 

L’esplosione ferì alcune persone. Invece Cristina morì sul colpo.

Inutili i soccorsi. Si trovava al momento sbagliato nel posto sbagliato. Una morte senza un perché. 

I mafiosi riuscirono a impossessarsi del bottino e a sparire nella fredda e ormai buia campagna circostante, mentre i le carcasse dei vagoni sventrati rimanevano fumanti nell'oscurità di santa Lucia.

Secondo me, io che non so né leggere né scrivere, Cristina è una vittima di mafia (l'unica vittima di mafia nel Trevigiano).

Invece quello che seguì fu la negazione del dramma. 

Quell'omicidio non venne mai contestato a Maniero e di conseguenza a nessuno della sua banda. Con quella accusa e un’eventuale condanna, infatti, poteva saltare tutto il calcolo delle pene che gli aveva permesso di diventare un collaboratore di giustizia e quindi di tornare libero... (l'analisi è di Ugo Dinello, nel libro “Mafia a Nord Est”).

Spero che non sia così, spero cioè che Ugo Dinello abbia capito male. 
Perché se fosse così, come da più parti si mormora, ci sarebbe stato un, come chiamarlo?, accordo... tra Maniero e i magistrati: la morte di Cristina Pavesi da una parte e la rapina di Maniero dall'altra.

Alla faccia della Faccia d'Angelo.

Provo a ricapitolare: Maniero e i suoi uomini organizzano e attuano una rapina al vagone dei valori di un treno. Usano una carica di tritolo, che uccide Cristina e apre il blindato.

I rapinatori fuggono col bottino. Cristina resta morta sul treno.
Maniero non viene incolpato di quella morte altrimenti non avrebbe potuto avere gli sconti di pena come collaboratore di giustizia. 

E tutto finisce lì.

No, secondo me non è andata così.
Non è possibile che una ragazza di 22 anni che si sta per laureare venga uccisa da un attentato al tritolo e nessuno paghi per la sua morte.

Ma poi trovo questa dichiarazione che m'ha fatto venire la pelle d'oca. Leggete anche voi: “È uno scandalo che nessuno di noi sia stato imputato per l’assassinio di Cristina Pavesi. Ci hanno contestato la rapina e io non sono mai stato condannato per quell’assassinio. Lo hanno fatto per aiutare Giulio Maniero [cugino di Felice]. Continuo ad avere un grande rimorso per la morte di quella ragazza”.

Chi parla si chiama Paolo Pattarello, uno degli uomini di Maniero che agì quella sera del 13 dicembre. 

E io non ci sto: da quella sera di dicembre del 1990, quando la mafia (non la mala) uccise una giovane vita, nessuno ha mai pagato per quella morte.

I Veneti si sono dimenticati della loro mafia che era entrata nel cuore della regione.

Felice Maniero fece il pentito e venne anche lui dimenticato. Da Maniero Felice, classe 1954, protetto dallo Stato per le delazioni che ha prodotto in tribunale.

Il padre di Crsitina non si è dato pace.

E' morto un anno e mezzo dopo l'omicidio della figlia.

E Cristina nessuno l'ha uccisa.

Come se non fosse vittima di mafia.

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PROPOSTA: vorrei proporre al sindaco di Conegliano una deliberazione di intenti della città per far riconoscere nel 2019 Cristina Pavesi quale "vittima di mafia"
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 Fonte: srs di  Giancarlo Cunial, da Facebook del  15 dicembre 2018

domenica 16 dicembre 2018

QUANDO UNA VOLTA SI FACEVA IL BUCATO A MANO




CUAN 'NA OLTA SE LAVAVA DO LE ROBE A MAN  



Sino agli anni ’60 del XX° secolo lavare i panni era un “affare serio” in quanto richiedeva molta fatica e molto “ojo de gombio” e necessitava di diversi giorni, a differenza dei tempi contemporanei ove con l’ausilio della lavatrice e dell’asciugatrice nel volgere di alcune ore si risolve il problema senza la minima fatica. Infatti, sebbene i primi elettrodomestici con funzione di lavapanni, denominate in seguito lavatrici, risalgano ai primi anni ’40, fu solo con lo sviluppo economico degli anni ’60 e ’70 che la lavatrice ebbe una notevole diffusione nelle abitazioni dei nostri monti Lessini e un po' ovunque nelle periferie italiane. 

Prima di allora il bucato si lavava a mano, innanzitutto non si disponeva di un detersivo o di un ammorbidente già pronto all’uso per cui era necessario produrselo. Due tre giorni prima di quando si stabiliva di fare l'operazione di lavaggio, si metteva da parte della cenere del focolare che veniva riposta in un bidone in metallo che si riempiva con dell’acqua. Dopo un paio di giorni il bidone si poneva sul fuoco e l’acqua contenuta veniva fatta bollire, ottenendo così’ la “lìssia” che costituiva il detersivo del passato.

Migliore era il legno bruciato nel focolare o nella “stua” e migliore era la cenere prodotta che, se di qualità arrivava addirittura ad essere fine e bianca.

Dalla lascìvacotta con il grasso animale e riponendovi fiori di lavanda o alloro veniva ricavato il sapone, sostituiti solo in seguito dall’uso della soda caustica, un composto chimico che divenne a buon mercato in tempi a noi vicini. 

Lavare i panni era un vero e proprio rito; con una cadenza di ogni 20/25 giorni la biancheria del letto veniva tolta e lavata. 
La fase di preparazione iniziava con la raccolta dell’acqua dai pozzi, dalle fontane, dai fossi o dai fiumi che veniva posta in contenitori di metallo e fatta bollire sul fuoco. Una volta che l’acqua raggiungeva l’ebollizione si aggiungeva la cenere vegetale e rimestando di tanto in tanto si veniva a creare un liquido di color grigiastro, denominato la “lìssia” cioè la liscìva. Questo composto era particolarmente grasso ed aveva un forte potere pulente. 

Dopo la produzione della liscìva iniziava la prima parte della pulitura: sopra la biancheria, che veniva disposta entro “ ‘na brenta o un mastèl”, si riponeva una sorta di telo che aveva la funzione di fungere da filtro in quanto la cenere non doveva toccare i panni che venivano lasciati in ammollo in questa poltiglia per una notte. I panni tuttavia non dovevano assolutamente essere a contatto diretto con la “lìssia” bollente; il motivo era evidente, il contatto con la lisciva bollente avrebbe avuto un effetto di cottura dello sporco e le macchie si sarebbero fissate non riuscendo più a toglierle in seguito. I panni venivano poi coperti da una serie di assi di legno per evitare che il liquido si raffreddasse. La biancheria necessitava infatti di rimanere in ammollo per tutta la notte, per poi essere fregata con il sapone il giorno seguente. I panni venivano appunto strofinati con il sapone il giorno successivo su un’apposita tavolozza (“ l’asse da laar do le robe” ) in legno.

Il sapone veniva quasi sempre prodotto in casa perché troppo costoso per essere acquistato per le misere economie domestiche del passato. Erano soprattutto i contadini a farsi da soli il sapone, ottenendolo attraverso un lungo procedimento. 

Il sapone veniva ricavato dal grasso “del porsèl” (maiale) che veniva conservato “cuàn se fasea sù el porsèl”; il grasso veniva bollito e profumato con delle foglie di alloro, salvia, basilico o fiori di lavanda e poi versato negli stampi di legno e fatto raffreddare fino all’indurimento. Questo prodotto veniva utilizzato anche per l’igiene umana, cioè per lavarsi. 




Oltre alla “lìssia” le donne lavavano anche presso il “lavador” (lavatoio) del fosso, dei fiumi o presso gli “àrbi de le contrè”, dove bagnavano, strofinavano, sbattevano gli indumenti parecchie volte fino a renderli puliti. Quasi sempre nelle contrade dei nostri monti era presente infatti “l’arbio” (fontana/lavatoio) dove si lavavano anche i panni.

D’inverno il tutto diventava più complicato a causa del freddo e dell’acqua gelata o ghiacciata, ma si trattava comunque di un’operazione che si doveva fare lo stesso. Appena compariva un po’ di sole (anche con la neve) la massaia scaldava l’acqua “in tel parol” (pajolo) ed iniziava tutta la faticosa procedura per il lavaggio.

Una volta, ogni settimana o mese si lavava il bucato più piccolo mentre in primavera quello voluminoso (come lenzuola o asciugamani), perché era il periodo migliore per l'abbondanza di acqua conseguente al disgelo.

Il giorno del bucato, si prendevano delle “brente” (grandi vasche) di legno che venivano posate su dei treppiedi con sotto un secchio. A questo punto la biancheria veniva inserita dentro queste vasche e pigiata. Veniva poi coperta con un drappo di tela su cui si spargeva la cenere e su cui veniva versata acqua bollente.
L'acqua sporca, dopo un po', cadeva da un foro posto sul fondo delle vasche e finiva nel secchio. Questa operazione veniva ripetuta finché l'acqua caduta non fosse stata limpida.

La biancheria più delicata, come polsini o pizzi, era messa a bollire a parte con il sapone mentre le magliette, le mutande e le calze venivano prima immerse nell'acqua con farina e succo di limone così da essere sgrassate.

La biancheria bagnata veniva, infine, trasportata al fiume o al “lavador de contrà” per essere risciacquata e messa a stendere. Una volta asciugata la biancheria veniva diligentemente stirata con il ferro da stiro alimentato dal calore della carbonella e riposta nella cassapanca o nell’ “armàro” poiché doveva durare il più possibile, non potendo infatti le magre economie domestiche dei nostri montanari permettersi molti ricambi. 

I "lavadori de contrà" costituivano poi dei veri e propri punti di socializzazione per le massaie, ove si scambiavano i consigli ed i pettegolezzi, partecipavano alle gioie ed alle disgrazie delle une e delle altre; ove si cantavano canzoni nostalgiche o si confessavano i più intimi segreti della vita affettiva ed amorosa e dove spesso ci si lamentava in segreto della "disgraziata" condizione della donna nel mondo contadino e montanaro maschilista del passato.

Questi lavatoi di contrada sparsi un po' ovunque anche sui nostri monti costituiscono oggi dei veri e propri musei a cielo aperto, ove ancora oggi si avverte la nostalgica aria del passato di una semplice vita quotidiana vissuta dai nostri avi, ove il raccontare le proprie angosce alla vicina "lavandàra" poteva dare, anche se per pochi istanti, un sollievo da una grama vita in povertà. 

E' facilmente intuibile come dall'usanza di raccontare i propri fatti più intimi e familiari presso i lavatoi pubblici abbia dato origine al detto che "i panni sporchi si lavano in casa", nel senso che si doveva rimane a casa a lavare i propri panni e non portarli al lavatoio pubblico, per non incorrere nella tentazione di raccontare i propri affari di famiglia alla vicina di lavatoio per cercare un po' di sollievo nella comprensione altrui.


Fonte: srs di  Alfred Sternberg, da  Facebook, Amici di Velo Veronese. del  14 dicembre 2018 

sabato 15 dicembre 2018

LA STORIA DEI BUSH… HITLER…KENNEDY…11 SETTEMBRE




Hitler, Kennedy, 11 Settembre: è nera la storia dei Bush


Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. 

Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».


Lo afferma Massimo Mazzucco, riproponendo su “Luogo Comune” una scheda sulla dinastia dei Bush all’indomani della scomparsa di “Bush padre”, George H., spentosi a Houston il 30 novembre all’età di 94 anni. 

Dei Bush “segreti” parla diffusamente Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), svelando che – dopo la sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane nel 1980 – Bush senior fondò la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, detta anche “loggia del sangue e della vendetta”. 

Alla “Hathor”, nella sua ricostruzione fondata su un archivio massonico di 6.000 pagine, Magaldi attribuisce l’attentato a Reagan (cui seguì in modo simmetrico l’attentato a Papa Wojtyla), quindi l’incubazione della strage dell’11 Settembre e infine – ancora nel campo del terrorismo “false flag” – la fabbricazione dell’Isis, ultima incarnazione del “demonio” islamista partorito dallo schema (interamente occidentale) del cosiddetto “scontro di civiltà”, grazie al quale il gruppo di potere capeggiato dalla superloggia dei Bush decise di completare “a mano armata” la globalizzazione violenta del pianeta, attraverso guerre in Medio Oriente innescate da “fake news” come le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.

Dal canto suo, Mazzucco si concentra invece su “nonno Bush”, ovvero Prescott, il padre di George H. Lo definisce «la persona più importante di tutte, in questa vicenda», dati i clamorosi legami della famiglia col nazismo. Retroscena imbarazzanti, in grado di illuminare le origini del gruppo di potere che – con l’11 Settembre – ha cambiato la storia del pianeta.  Tanto per cominciare, Prescott Bush era a Dallas il giorno dell’attentato a Kennedy. 

E oltre che ad aver avuto un ruolo determinante, dietro le quinte, in tutta la politica americana del dopoguerra, lo stesso Prescott è risultato esser stato implicato nei pesanti finanziamenti illeciti che contribuirono all’ascesa di Hitler al potere

La vicenda, aggiunge Mazzucco, merita di essere conosciuta per meglio inquadrare la potenza di una dinastia così determinante, nella storia degli Usa e del resto del mondo. 


Fin dall’inizio, la saga dei Bush è fondata sul fatale intreccio di politica e affari. Il nonno materno di Prescott, George Herbert Walker, aveva fondato a St.Louis, nel 1900, la società finanziaria G. H. Walker and Company. Tale fu il suo successo, che nel 1920 la società si trasferiva con tutti gli onori nella prestigiosa Wall Street di New York. Di lì a poco, il contatto con la Germania: nel 1924 George Walker conobbe l’industriale tedesco Fritz Tyssen, uno dei maggiori finanziatori del nascente  partito nazista. «In poco tempo Walker divenne a sua volta il tramite di finanziamenti sempre più voluminosi che dall’America finivano direttamente nelle casse di Hitler».

Un’altra compagnia che investiva denaro americano in Germania era la Sullivan & Cromwell di un certo Allen Dulles, che ritroveremo trent’anni dopo alla guida della Cia. 
Una terza società, la più importante di tutte, era la Harriman & Associates, di un certo Averill Harriman: «Un personaggio con forti legami col partito nazista tedesco, che in seguito sarebbe divenuto ambasciatore Usaa Mosca, e poi ministro del commenrcio, sotto Truman». 

Nel 1931, prosegue Mazzucco, Harriman scelse George Walker alla guida della Union Banking Corporation, la banca che gli serviva da tramite per i suoi traffici monetari con la Germania. A sua volta, nel 1934, George Walker fece assumere il nipote Prescottcome vicepresidente della Harriman & Associates, accanto al suo boss. 

Nel 1936 Harriman fondò la Brown Brothers Harriman, ne assunse alla guida legale Allen Dulles, del quale assorbiva nel frattempo la Sullivan & Cromwell. Nel 1937 Harriman entrò in società con i Rockefeller, dando origine alla Brown Brothers Harriman-Schroeder Rock. Già a quel tempo, Rockefeller significava Standard Oil.

Come delfino di Harriman, Prescott Bush si era intanto venuto a trovare, prima della guerra, anche nel consiglio di amministrazione della Union Banking. Ma nel 1942 – a guerra scoppiata – la banca si vide congelare dall’Fbi di Edgar J. Hoover tutti i beni, in seguito ad una legge che imponeva di interrompere ogni possibile relazione finanziaria con in paesi nemici. «Ma Prescott, con l’aiuto di Dulles, seppe congegnare un meccanismo finanziario che permise alla maggior parte dei capitali di sfuggire al congelamento, dirottandoli semplicemente in operazioni molto meno vistose, ma altrettanto lucrative. Per Prescott fu il trionfo, e per Dulles la garanzia di un futuro senza più limiti alle sue ambizioni». Naturalmente, aggiunge Mazzucco, «Hoover non era stato troppo rigoroso nell’indagare sulla Union Bank di Harriman, e molto probabilmente nacque proprio in quei giorni una reciproca simpatia fra i tre “ragazzi”, che avrebbe poi condizionato la storiaper molti decenni a venire». 


Se Allen Dulles e Edgar Hoover si legano ai Bush già durante il secondo conflitto mondiale, l’uomo-chiave dell’ancoraggio della famiglia Bush nella politica americana del dopoguerra sarà Richard Nixon, «divenuto il pupillo di Prescott – altri direbbero il suo pupazzo». Bush ne aveva finanziato l’elezione al Parlamento, dopo averlo prelevato dai ranghi dell’Fbi.

Risale a quegli anni, sostiene Mazzucco, un possibile collegamento fra Nixone Jack Ruby, l’assassino di Oswald a Dallas. Sempre “nonno Bush” aveva poi piazzato Nixon accanto ad Eisenhower, alla vicepresidenza, facendogli sposare la nipotina dell’ex-generale. «Nixon era quindi diventato il candidato naturale alla presidenza, nel 1960, allo scadere del mandato di Eisenhower, ma aveva perso a sorpresa contro lo sconosciuto Kennedy». 

Con l’assassinio di Dealey Plaza, tre anni dopo, si riapriva per Nixon (e quindi per Prescott Bush) la strada della Casa Bianca. Il giorno seguente, infatti – come poi raccontò uno dei suoi più stretti collaboratori – si svolse a casa di Nixon una riunione segreta, nella quale vennero discusse le strategie per rientrare sulla scena politica, dopo la bruciante sconfitta del 1960. 

«Cuba era diventata nel frattempo una dolorosa spina nel fianco, dopo il fallimento dell’invasione della “Baia dei Porci”, che i repubblicani imputavano interamente a Kennedy. Ma il progetto originale, del ‘59, era dello stesso Nixon, il quale evidentemente “se lo era preparato” per ritrovarselo fresco sul tavolo, una volta divenuto presidente».

Lo aveva elaborato subito dopo la rivoluzione castrista, collaborando con un certo Howard Hunt della Cia, uomo di Allen Dulles (il direttore Cia in quel periodo) sin dagli anni ‘30. 
La differenza era che il piano Hunt-Nixon-Dulles prevedeva che al momento giusto l’America avrebbe concesso il supporto militare richiesto dagli “invasori” di Cuba, mentre Kennedy “al momento giusto” si rifiutò di concederlo. Questo causò una crisi insanabile all’interno dell’amministrazione, con la frattura definitiva fra la Cia e Kennedy, che si permise addirittura di licenziare Dulles. «Meno di due anni dopo, Allen Dulles sedeva accanto al giudice Warren, nella famigerata commissione che prendeva il suo nome, e che riusciva in qualche modo ad insabbiare le indagini sull’omicidio più famoso della storia». 


Curiosamente, annota Mazzucco, anche Howard Hunt si trovava a Dallas il giorno dell’attentato: «Nonostante in seguito abbia tentato di negarlo, fu inchiodato in proposito dalla testimonianza dei suoi stessi figli». E così, «il crocevia texano si fa sempre più fitto». Nel ‘64 però Nixon scelse, saggiamente, di non candidarsi, poichè la popolarità di Johnson – succeduto a Kennedy dopo Dallas – in quel momento era alle stelle. Johnson infatti stracciò letteralmente il candidato repubblicano Barry Goldwater.

Nixon sarebbe rientrato alla Casa Bianca solo nel ‘68, dopo la morte del nuovo candidato democratico, Robert Kennedy, anch’egli assassinato in circostanze mai chiarite, «ma di certo non da Shiran Shiran solamente». 
Una volta che Nixon fu presidente, Howard Hunt fece uno strepitoso balzo di carriera, passando da semplice agente Cia a capo dei servizi segreti della Casa Bianca. 

Contemporaneamente George H. Bush (“Bush padre”, il figlio di Prescott) veniva nominato da Nixon ambasciatore alle Nazioni Unite. «Ormai le redini del comando, in famiglia, erano passate a George H. Bush». 


Prescott però moriva, nel 1972, e non potè vedere il figlio diventare direttore della Cia nel 1976, poi vicepresidente sotto Reagan (1980-1988), ed infine presidente egli stesso, dal 1988 al 1992. Non vide nemmeno, peraltro, la sconfitta del figlio nel 1992, che perdeva inaspettatamente la sua rielezione contro uno sconosciuto Bill Clinton. La storia sembrava ripetersi, e fu questa volta George H. Bush a dover attendere la controversa decisione della Corte Suprema, nel 2000, per poter piazzare il figlio – George W. – fra le mura tanto amate. «Talmente amate, parrebbe, che il 10 di settembre del 2001, nonostante il figlio si trovasse in Florida, decise di fermarsi a dormire alla Casa Bianca, sulla via del ritorno da New York al Texas».
Lo ha raccontato egli stesso in televisione, più di una volta. Sarebbe ripartito molto presto all’alba, venendo così a trovarsi già vicino a casa, al momento del blocco completo dei voli che seguì gli attentati dell’11 Settembre. 

«La sera del 10, a fare gli onori di casa c’era Dick Cheney, l’uomo che lo stesso Bush aveva messo accanto al figlio, come vicepresidente, un anno prima. Cheney era anche l’uomo che, in assenza del presidente in carica, avrebbe saldamente preso in mano la situazione durante gli attacchi terroristici, arrivando anche a far deviare, tramite i servizi segreti, i due caccia che si stavano finalmente dirigendo verso l’aereo diretto sul Pentagono, e mandandoli invece su un bersaglio fasullo». Aggiunge Mazzucco: «Che cosa abbia fatto George H. Bush a Dallas nel lontano 1963, e che cosa abbia fatto – o di cosa abbia parlato con Cheney – la notte del 10 settembre 2001, alla Casa Bianca, non lo sapremo probabilmente mai».

Stranissima, poi, la telefonata che George H. Bush fece, il 22 novembre 1963, a un agente Fbi, Graham Kitchel. Nel suo report, Kitchel riporta due notizie. La prima: Bush senior gli ha segnalato il nome di un giovane, James Parrott, «forse studente dell’università di Houston». Naturalmente «in via confidenziale», Bush parla di «una voce» che «ha sentito girare» nelle settimane precedenti, secondo cui l’ipotetico Parrott «andava parlando di uccidere il Presidente», quando fosse arrivato a Houston. Sempre all’agente Fbi, Bush fornì indicazioni su come approfondire: due donne della direzione del partito repubblicano della contea di Harris avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sull’identità di Parrott. Infine, lo stesso Kitchel scrive: «Bush ha dichiarato di essere in partenza per Dallas, Texas, dove avrebbe alloggiato allo Sheraton-Dallas, per tornare a casa sua il 23 novembre 1963», cioè il giorno seguente. Curioso, segnala Mazzucco: «Mentre Kennedy sta morendo all’ospedale di Dallas, Bush – allora privato cittadino, e presidente di una delle tante compagnie petrolifere di proprietà di famiglia – parte per la stessa città, e si premura di farlo sapere all’Fbi». Sembra proprio di leggere fra le righe «una strana voglia da parte sua di “farsi trovare” a tutti costi dalla stessa Fbi, a Dallas, quella sera».

Ancora più curioso, dice Mazzucco, è che Bush utilizzi, come scusa per rendere nota la sua presenza in città, proprio la “voce di possibile attentato al presidente Kennedy, quando verrà a Huston”, visto che a Houston Kennedy c’era già stato. «Di certo si può supporre una cosa: se Bush quella sera è stato contattato dall’Fbi – come appare probabile – avrà sicuramente avuto da loro più informazioni sull’attentato appena avvenuto, di quante ne possa mai aver date sul suo fantomatico “James Parrott”». 


Curioso infine che l’ora in cui fu ricevuta la telefonata (13.45) corrisponda al momento in cui la notizia della morte di Kennedy, avvenuta intorno alle 13, iniziava a rimbalzare in tutte le agenzie del mondo. «Giusto per assicurarsi un “alibi” fuori città, nel caso estremo, ma anche giusto in tempo per saltare in macchina e raggiungere lo Sheraton di Dallas, dove potersi “rendere reperibile in serata”». 

Tutte coincidenze? «Può darsi. Ma che dire allora di questo documento, dal quale risulta che Jack Ruby – l’uomo su cui fece perno l’intera organizzazione dell’omicidio di Dallas, e che pensò poi a liberarsi fisicamente di Oswald, prima che potesse parlare – lavorava per Nixon già dal lontano 1947?».


Si tratta di un documento dell’Fbi,  desecretato qualche anno fa. «Giuro con questa dichiarazione che un certo Jacob Rubinstein di Chicago, potenziale testimone davanti al Comitato per le Attività Antiamericane [Commissione McCarthy], lavora come informatore per l’ufficio del deputato repubblicano della California, Richard M. Nixon. Si richiede di non interrogarlo pubblicamente nelle udienze sopra menzionate». La data: 14 novembre 1947. 
«E’ noto che in quel periodo Ruby lavorasse per la mafia di Chicago», osserva Mazzucco, «e il documento sembra quindi fornire l’anello mancante per il collegamento fra mondo “pulito” e mondo “sporco”, che fu assolutamente necessario per organizzare a Dallas un attentato che desse le massime garanzie di riuscita». 

Prescott Bush e la Germania di Hitler, la Cia di Allen Dulles, l’Fbi di Edgar Hoover, quindi Richard Nixon e infine George Herbert e George Walker, padre e figlio, direttamente alla Casa Bianca – l’ultimo sotto la tutela del potente Dick Cheney, emblema del Deep State. Le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, l’incendio permanente in Medio Oriente. Potere, attentati, guerra e terrorismo: una dinastia in chiaroscuro, con ombre più che inquietanti attraverso svariati decenni, a tracciare una vera e propria storia parallela, accanto a quella ufficiale.



La  tomba di Samuel Prescott Bush.... nulla si è portato via 


Fonte: da Libre del 3 dicembre 2018-12-10