venerdì 28 dicembre 2018

I CAMPI ELISI

Campi Elisi ne "Il gladiatore"


I Campi Elisi, o Eliseo erano, nella mitologia greca e romana, il luogo beato in cui dimoravano, terminata la loro esistenza, le anime di coloro che si erano dimostrati degni di tale ricompensa. Era insomma un equivalente del Paradiso cattolico, non beatificato da una presuntuosa presenza divina che non era ritenuta così appagante, ma da un territorio ideale, con paesaggio e clima splendido.

IN GRECIA

I Campi Elisi non sono sempre legati al merito, e soprattutto il merito è un concetto che cambia secondo le epoche e i punti di vista. Per esempio nell'Odissea, Omero annuncia che Menelao è destinato ai Campi Elisi, in quanto marito di Elena figlia di Zeus, pertanto l'aver sopportato di buon animo il tradimento della moglie diventa un merito agli occhi degli Dei. Una specie di nepotismo, che nulla ha a che fare con i meriti.

In realtà si tratta di un retaggio matriarcale per cui la regina sacerdotessa è più importante del re guerriero, in quanto la regalità è appannaggio della donna e l'uomo può acquisirla solo mediante matrimonio. Ne fa fede Egisto che diventa re perchè ha sposato la regina Clitennestra. Dunque tempo che vivi usi che trovi. I guerrieri morti in battaglia vanno nei Campi Elisi ma pure i filosofi, almeno in Grecia.

Omero, pone i Campi Elisi ai confini del mondo, facendone la sede di eroi sottratti al fato di morte per speciale privilegio, da identificare con le Isole dei Beati di cui parla Esiodo. Omero li descrive (Odissea - libro IV 702-712) come un susseguirsi di prati fioriti, senza mai freddo, o pioggia, o neve, ma con eterni soffi di zefiro, mandati da Oceano a rinfrescare gli uomini. Lì non ci sono malattie, nè sofferenze, nè morte




ODISSEA

A te poi è stabilito, o Menelao prole di Zeus,
che in Argo patria di cavalli tu non compia il destino di morte.
Gli dei immortali invece nella pianura Elisia ti manderanno
e ai confini estremi della terra, dove è il biondo Radamanto,
e dove per gli uomini il vivere è agevole e senza fatica.
Non c’è mai neve né il crudo inverno né pioggia,
ma sempre l’Oceano manda soffi di Zefiro
dall’acuto sibilo per dare refrigerio agli uomini.
La tua sposa è Elena e per loro sei genero di Zeus.

(Omero - Odissea - libro IV, 561-570)

Nella tradizione greca più antica, non c'è nel dopo-morte un concetto di premio e punizione. Solo in seguito si farà una distinzione tra il Tartaro, destinato a tutti gli uomini, e i Campi Elisi, luogo di bellezza e serenità per gli eroi e per gli uomini emeriti.

Esiodo fa sopravvivere gli uomini alla morte come demoni, dispensatori di buona o cattiva sorte, gli uomini dell’età dell’oro e dell’argento, probabile segno che nei tempi più antichi gli avi proteggevano o avversavano i loro eredi, probabilmente in base agli onori ricevuti

Agli eroi invece Zeus destina una dimora ai confini del mondo (le Isole dei Beati) dove vivono una vita senza dolori, ma senza ingerenze nel mondo dei vivi. La visione omerica della morte coincide con una situazione di non-esistenza: dopo la vita data e tolta dalla Moira, ogni vita rientra nel nulla da cui è uscita. Naturalmente fanno eccezione gli eroi.

In un’altra prospettiva, si indica con Elisi un luogo dell’Ade riservato a coloro che ben operarono in vita, mentre agli empi, che avversarono Dei ed eroi, sono destinate le sofferenze del Tartaro, corrispondente dell'Ade. Ovidio, nelle Metamorfosi, descrive il regno dove dimorano gli uomini indegni:

“C’è una via che in declivio si perde fra il fosco di tassi funerei; attraverso muti silenzi conduce agli inferi. Lo Stige pigro esala nebbie, e per lì discendono le nuove ombre, i fantasmi di coloro che sono stati onorati di sepoltura. Pallore e freddo ristagnano dappertutto su quegli orridi luoghi, e i morti appena arrivati non sanno dove sia la strada, da dove si passi per giungere alla città infernale, dove sia il tremendo palazzo del nero Plutone.
La capace città ha mille entrate, ha porte aperte dovunque; e come il mare accoglie i fiumi di tutta la terra, così quel luogo accoglie tutte le anime, non è piccolo per nessun popolo, non sente l’arrivo di nessuna folla. Errano esangui le ombre, senza corpo e senza ossa, e in parte si accalcano nella piazza, in parte nella reggia del sovrano dell’abisso, in parte esercitano qualche attività, a imitazione della vita di un tempo, altre ancora sono costrette a scontare una pena.

(Ovidio - Metamorfosi - libro IV: 431-446)




A ROMA

Anchise, eroe troiano della stirpe di Dardano, fu sposo di Afrodite e padre di Enea. Reso storpio, o cieco, da Zeus per essersi vantato delle nozze divine, scampò alla rovina di Troia portato a spalla da Enea. Morto poi di vecchiaia in Sicilia, Enea risale lo stivale e arriva in Campania, al lago d'Averno, per consultare la Sibilla; ella lo accompagna fino ai Campi Elisi, dove incontra il suo defunto padre Anchise, che gli predice il suo futuro.

Per i greci dunque i Campi Elisi erano collocati sotto terra, dove i "beati" vi conservavano le loro spoglie mortali e si dedicavano alle occupazioni più gradite, soprattutto di filosofia e letteratura.

Anche nella religione romana ricorre spesso la descrizione di questi luoghi, come quella contenuta nell'Eneide, Virgilio però, a differenza di Omero, colloca l'Elisio all'estremo confine occidentale della Terra, in un luogo non sotterraneo, nei pressi dell'Oceano. Virgilio del resto immagina l'Elisio sulla scorta di Platone, il quale per primo lo pensò con un suo proprio sole, più splendente del nostro.

Nel libro V dell'Eneide, Enea dopo la sua fuga da Troia, arriva a Cuma per consultare la Sibilla, la quale lo accompagna nell'Elisio, dove incontra il padre Anchise morto da poco tempo, nel libro VI invece è la Sibilla che parla all'eroe troiano.


ENEIDE


"… mentre s'alternavano questi discorsi, l'Aurora sulla rosea quadriga
aveva attraversatola metà del cielo con etereo cammino;
e forse trascorrerebbero in essi tutto il tempo concesso,
ma la guida ammonì e brevemente parlò la Sibilla:
la notte precipita, Enea, e noi protraiamo le ore piangendo.
Qui la vita si divide in due parti:
la destra si dirige alle mura del grande Dite,
per essa il nostro viaggio in Eliso; la sinistra
esercita il castigo delle colpe e conduce all'empio Tartaro".

(libro VI, 535 - 544)

Poter penetrare nell'aldilà e uscirne vivi è un grande privilegio, pochissimi coloro che poterono accedere agli Elisi, si ricordano: Anchise, Dardano, Assaraco, Museo, Orfeo, Menelao e Cadmo e Armonia, trasformati in dragoni. Enea è fra costoro.

Secondo alcuni autori nei Campi Elisi vi scorre il Lete, il fiume dell'oblio: le anime che bevono la sua acqua (e solo quelle dei virtuosi) possono reincarnarsi in un nuovo corpo, avendo cancellato ogni ricordo della vita precedente.

"… tuttavia recati prima nelle inferne sedi di Dite;
nel profondo Averno, figlio, vieni all'incontro con me.
Non m'accoglie l'empio Tartaro, tristi ombre;
mi trovo nelle amene adunanze dei pii e nell'Eliso.
La casta Sibilla ti condurrà qui per molto sangue di nere vittime.
Allora apprenderai tutta la tua discendenza e le mura assegnate ".

(libro V, 731 - 737)

E infatti la Sibilla lo guida, e l'ammonisce:

E’ facile la discesa in Averno;
la porta dell’oscuro Dite è aperta notte e giorno;
ma ritirare il passo e uscire all’aria superna,
questa è l’impresa e la fatica. Pochi, che l’equo
Giove dilesse, o l’ardente valore sollevò all’etere,
generati da Dei lo poterono. Selve occupano tutto
il centro, e Cocito scorrendo con oscure sinuosità lo circonda.”

(Eneide, VI, vv. 126-132)





LA VITA FELICE DEI CAMPI ELISI


Però Omero segretamente pensa che chi è morto resta morto, cioè resta un'ombra di ciò che fu da vivo, senza un corpo che possa dargli piacere e vita. Infatti quando Ulisse, giunto nel paese dei Cimmeri  scende nell’Ade e incontra Achille: « Ma di te, Achille, nessun eroe, né prima, né poi, più felice; prima da vivo t'onoravamo come gli Dei noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti, quaggiù; perciò d’esser morto non t’affliggere, Achille ».

Ma Achille risponde: “Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei esser bifolco, servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte» E ancora Ulisse incontra sua madre nell’Ade e tenta di abbracciarla: «Così parlava: e io volevo – e in cuore l’andavo agitando – stringere l’anima della madre mia morta. 

E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava ad abbracciarla; tre volte dalle mie mani, all’ombra simile e al sogno, volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, e a lei rivolto parole fugaci dicevo: Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell’Ade, buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto? O questo è un fantasma che la lucente Persefone manda perché io soffra e singhiozzi di più? 

Così dicevo e subito mi rispondeva la madre sovrana: Ahi figlio mio, fra gli uomini tutti il più misero... non t’inganna Persefone figlia di Zeus; questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: i nervi non reggono più l’ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante li annienta, dopo che l’ossa bianche ha lasciato la vita; e l’anima, come un sogno fuggendone, vaga volando


IL MITO


Nel mito, presente nella letteratura greca almeno da Esiodo, ma probabilmente derivato da precedenti racconti dei Fenici grandi navigatori, c'erano le Isole dei Beati, a volte identificate con i Campi Elisi, splendide isole dal clima dolce nelle quali la vegetazione rigogliosa fornisce cibo senza che gli uomini abbiano bisogno di lavorare la terra. 

Gli Dei destinano alcuni eroi a vivervi un'eterna vita felice. Insomma somiglia moltissimo al Paradiso Terrestre. Del resto nelle isole beate vanno quelli che gli Dei li hanno onorati, anche se la religiosità degli antichi era solo una parte della vita quotidiana, e solo una parte della loro etica. 

Molto influiva infatti l'aver difeso la patria, o aver conseguito la sapienza, o la filosofia, o la poesia, o la letteratura. La religione presso i romani non era mai fanatica, un buon romano stava coi piedi per terra e non sperava che fossero gli Dei a risolvergli i problemi. Meritarsi i Campi Elisi non era poi così difficile, e non c'era bisogno di sacrificarsi.

Così dopo la morte ci si ritrovava a passeggiare su morbida erba sotto un cielo terso che nessuna nuvola offuscava, con placide colline e valli ombrose, rocce variegate e boschi profumati. La natura veniva qui riproposta nei suoi aspetti più miti, ma pure rigogliosa di frutti e di fiori, miracolosamente tenuti in vita senza una goccia d'acqua.

Virgilio  invece, presuppone per le anime dei meritevoli un mondo meraviglioso ma sotterraneo. Egli mostra ad Enea sulla sua sinistra il Tartaro, dove sono condannati quanti hanno tradito la patria, o i valori romani (fides, honus e pietas) e quanti si sono resi colpevoli di gravi delitti verso i loro parenti.

Sulla destra, invece, si trovano i meravigliosi Campi Elisi, che pur trovandosi sotto terra «conoscono un loro sole e stelle loro». Qui abbondano i prati e i boschi irrigati «dal corso copioso dell’Erìdano» (in realtà un fiume greco), dove i beati, senza fissa dimora, (cioè che possono andare dove vogliono,) continuano a esercitarsi nelle attività che svolgevano in vita, la ginnastica, la cura delle armi, la danza, il canto, la poesia. Pertanto sono destinati agli Elisi: 

- « il manipolo di quanti han patito ferite combattendo
- per la patria, e sacerdoti puri per quanto han vissuto,
- e poeti sacri che hanno cantato cose degne di Febo,
- e chi ha reso più bella la vita scoprendo saperi, o comunque
- si è meritato di lasciare negli altri memoria di sé ». 

Mescolando fonti filosofiche differenti, Virgilio descrive qui anime di grandi personaggi che ritorneranno in vita reincarnandosi in futuri eroi della storia romana. Virgilio resuscita la dottrina della reincarnazione di derivazione orfica e pitagorica per il suo panegirico augustano. Nei pressi del fiume Lete le molte anime che bevono dell’acqua per dimenticare tutto il passato e per reincarnarsi in altri corpi.

Così i grandi eroi del passato si sono reincarnati nel suolo romano per sostenere non solo la propria familia e la propria gens, ma il popolo romano tutto. Il poeta sancisce la grandezza di Roma destinata da lungi dagli Dei con una storia gloriosa che va dalla fine di Troia alla fondazione dell'Urbe, fino all’età di Augusto.




LA COLLOCAZIONE DEI CAMPI ELISI


Dette anche Insulae Fortunatae, le Isole dei Beati, o campi Elisi che dir si voglia, vengono descritte come isole dell'Oceano Atlantico presenti nella letteratura classica sia in contesti mitici sia in opere storiche e geografiche. Da Claudio Tolomeo (100 d.c. - 175 d.c.) in poi si è sempre sostenuto che coincidessero con le isole Canarie. Cicerone invece ha rappresentato la sede dei beati nella Via Lattea nell’opera Somnium Scipionis.

Per Diodoro Siculo si tratta di un'unica isola che non accoglierebbe nè divinità né beati, si troverebbe in mezzo all'Oceano, a molti giorni di navigazione al di là delle Colonne d'Ercole (Stretto di Gibilterra), e sarebbe stato un antico possedimento cartaginese.

Secondo Plutarco i Campi Elisi, ovvero delle mitiche Isole beate, disterebbero dall'Africa 10.000 stadi (circa 1.600 km).

Per Plinio il Vecchio le cosiddette Isole Fortunate sarebbero le Isole Canarie e Tolomeo II secolo d.c.), che nella sua Geografia (Geographike Hyphegesis) ne dà conferma facendovi pure passare il meridiano di riferimento. D'altronde il nome Isole Fortunate fu sempre usato fino all'età moderna per indicare le Isole Canarie.

Tuttavia l'identificazione delle Isole Fortunate con le Isole Canarie, operata da Plinio il Vecchio, Tolomeo e altri autori, non spiega l'origine del mito, che si pensa derivi da racconti di isole caraibiche visitate da Fenici o Cartaginesi. Un'ipotesi, basata sull'analisi delle testimonianze di Diodoro Siculo, Plutarco e altri autori, ha fatto pensare ad alcuni studiosi che i Campi Elisi potessero riferirsi a terre più occidentali delle Canarie, forse la stessa Cartagine.

L'assenza del ciclo stagionale, congiunta alla ricchezza della vegetazione, avrebbe giustificato la felicità dei luoghi, perchè non si soffre il caldo, ma neppure il freddo che costringe a ripararsi con le vesti. Non essendovi freddo, nè pioggia nè neve non occorre fabbricarsi capanne nè case.

Se non si deve badare alle vesti nè alla casa e se i frutti della terra vi germogliano spontaneamente evidentemente non si deve lavorare per sopravvivere. Nell'idea del non lavorare c'è anche l'idea dell'assenza della morte, che è la fonte di tutte le paure e di tutti i mali.


BIBLIO

- Esiodo, Le opere e i giorni, 166-173
- Pindaro, Olimpica II, 61-76
- Plutarco, Vite parallele
- Ovidio - Metamorfosi - IV: 431-446
- Claudio Tolomeo, Geografia
- Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, V, 19-20
- Pomponio Mela, Chorographia, III, 102.
- Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, VI, 202-205
- Pseudo-Aristotele, De mirabilibus Auscultationibus, 84


Fonte:  Da romanoimpero.com 













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