mercoledì 30 novembre 2016

ERMANNO OLMI: «IO, VENETO NEL DNA FIGLIO DELLA SERENISSIMA»

Ermanno Olmi


Scomparsi Mario Rigoni Stern e Andrea Zanzotto, viene naturale affibbiare ad Ermanno Olmi - regista di indimenticati capolavori come L’Albero degli Zoccoli e La Leggenda del Santo Bevitore - l’etichetta di più autentico interprete vivente della civiltà contadina.
Lo scrittore di Asiago (dove lo stesso Olmi vive) e il poeta di Pieve di Soligo sono stati per giunta suoi amici. «Due testimoni che hanno tenuto accesi dei lumicini, coscienti che nell’esagerato fulgore delle metropoli non sarebbero stati notati. Ma quei lumicini, quando quelle luci arroganti si spengono per qualche causa straordinaria, splendono di luce propria», dice Olmi. Ma dei due, il regista non si sente certo l’erede. «No, non facciamo questi accostamenti. Ognuno ha il proprio sentiero, anche se possono tutti essere orientati verso un unico ideale traguardo».
I passi mossi lungo questo sentiero gli sono valsi riconoscimenti importanti: la Palma d’Oro a Cannes, il Leone d’Oro alla carriera a Venezia. Oggi, Ermanno Olmi verrà insignito di un altro premio, meno famoso, ma a lui graditissimo: il «12 Apostoli», giunto alla 34esima edizione, ideato dallo chef dell’omonimo ristorante veronese, Giorgio Gioco.

Un premio atipico, assegnato in una riunione conviviale a tavola con i giurati.
«Il titolo 12 Apostoli è di per sé una seduzione - dice Olmi - Soprattutto è il piacere di incontrare molti cari amici, sederci a tavola, chiacchierare insieme serenamente senza il supporto di ideologia e religione. Cercare conforto nella speranza è un bel modo di dare significato alla convivialità».
Non è facile iscrivere la personalità di Olmi all’interno di categorie precise. Lui stesso si diverte a sfuggire ai confini, anche geografici.
Provate a chiedergli se, visti i suoi natali, si senta lombardo.
«Assolutamente no - dice lui - molti credono che io sia nato a Milano, ma in realtà sono di Bergamo. E per me Bergamo non è Lombardia: sono rimasto fermo al Manzoni, quando chi stava al di qua dell’Adda era nel territorio della Serenissima. Non a caso sulla porta della mia Bergamo c’è il Leone di San Marco ».
Quindi Olmi non è un veneto d’adozione, ma un veneto nel dna?
«Non mi sono mai distaccato da una territorialità che non dico vorrei contrapporre a quella della Padania - risponde - ma che mi porta a ritenermi un veneto saldo nella mia convinzione di appartenere alla Serenissima. Sono un grande ammiratore della Venezia del 1500, una capitale universale di un mondo che già viveva una sorta di globalizzazione, con i mercanti veneti che nobilitavano la loro professione, erano portatori della cultura veneta nel mondo e importatori delle culture del mondo nel Veneto».

Non c’è nessuna contraddizione tra l’ammirazione (e forse la nostalgia) per la città delle città, quella New York del sedicesimo secolo che era Venezia, e l’amore e la sensibilità per il mondo contadino, per le sue tradizioni e i suoi valori oggi a rischio d’estinzione.
«Mio padre era ferroviere e tre anni ci trasferimmo a Treviglio, nella periferia di Milano - racconta - La mia formazione risente così di due mondi diversi ed è stata una grande opportunità: sono vissuto da un lato con l’odore delle macchine, che mio padre aveva addosso quando tornava dal lavoro, e con i buoni odori della stalla, degli orti e delle stagioni che ritrovavo ogni volta che tornavo a Bergamo, dalla nonna materna ».  
Si ritiene parte di una generazione fortunata, Olmi:
«Lo ricordavo una sera con Umberto Eco: siamo vissuti in una collocazione temporale straordinaria, a cavallo tra la fine dell’800 e l’era spaziale. Questa fortuna si riflette sulla capacità di giudicare meglio il presente».
Lungi dal cercare rifugio nel passato, Olmi è in effetti un instancabile narratore del presente. Nel suo ultimo film, Il Villaggio di Cartone, racconta di un gruppo di extracomunitari senza permesso di soggiorno che trovano rifugio in una chiesa in via di dismissione, con l’aiuto del vecchio parroco. Potrebbe succedere, chissà, in qualche angolo remoto della campagna veneta, di quelli dove l’antico paesaggio è stato via via snaturato, quando non violentato, dalla modernità.

«Il tratto comune è il mancato rispetto della terra, come luogo indispensabile alla nostra sopravvivenza. Non potremo mai sostituire i frutti della natura con quelli di una natura violentata dalle tecnologie e dalle alchimie che fanno dell’agricoltura una sorta di prodotto industriale. Vorrei suggerire una considerazione di Borges: non credo più nel progresso, che sia un progresso?».
Coerentemente il maestro Olmi, quando siede a tavola, come farà oggi al 12 Apostoli di Verona, non ricerca cibi manipolati e sofisticati.
«Il mio pasto ideale è frugale e genuino: vorrei che un pomodoro fosse un pomodoro, che la pasta fosse di una farina degna - dice - Mi stanno a cuore piatti ingenui ma di alto valore immaginativo, come il pancotto, che le nostre povere nonne preparavano con le croste di pane e di formaggio, magari una cipolla, per farne uno dei piatti più squisiti della cucina naturale ».
Giorgio Gioco, conoscendone i gusti, preparerà oggi per Olmi un piatto che, già dal nome, è tutto un programma: la zuppa del contadino dalle maniche arrotolate. Una definizione che ben si addice a questo veneto-bergamasco di 80 anni, amante della campagna, che ancora ama sporcarsi le mani con il suo arnese preferito, la macchina da presa.

Alessio Corazza


Fonte: da il Corriere del Veneto it, del 22 novembre 2011



martedì 29 novembre 2016

IL VILLAGGIO SANATORIALE EUGENIO MORELLI. IL PIU’ GRANDE SANATORIO D’EUROPA


Sondalo. L'imponente  Villaggio Sanatoriale Eugenio Morelli


Il Villaggio Sanatoriale Eugenio Morelli  è stato  il più grande sanatorio d’Europa costruito dal governo fascista, fu realizzato a Sondalo, per volere dei Eugenio Morelli.
Eugenio Morelli, pneumologo  di Teglio, nel 1928 fece eseguire un’analisi sulle condizioni metereologiche dell’area sondalina, grazie alle quali convinse che Sondalo era il luogo ideale per realizzare un sanatorio, il più grande d’Europa. In 8 anni furono costruiti 9 padiglioni in grado di ospitare sino a 300 malati ciascuno.
Si dice che per realizzare il quarto padiglione gli architetti si fossero addirittura ispirati alle corazzate di Benito Mussolini. D’altra parte era un’autentica guerra quella che si doveva fare contro il “mal sottile”..
Il progetto dell’ imponente sanatorio sulle pendici del Monte Sortenna fu portato avanti da abili tecnici guidati dallo stesso  professor Eugenio Morelli, il  geniale pneumologo di Teglio. Morelli, primo in Italia ad organizzare una seria lotta contro la tubercolosi, dal 1928 impegnato a Roma come alto consulente per l’organizzazione antitubercolare dell’INFPS, l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, nel 1929 convinto della sue analisi sulle condizioni meteorologiche della zona   persuase tutti che Sondalo era il luogo ideale per realizzare un grande sanatorio da affiancare al più modesto Pineta di Sortenna che, fondato dal dottor Ausonio Zubiani, funzionava già dal 1901.
La costruzione dei nove padiglioni, ciascuno in grado di ospitare sino a 300 malati, richiese otto anni: dal 1932 al 1940.  
Le strutture del Villaggio furono costruite tra il 1932 e il 1938,  ma  i lavori furono ultimati soltanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale;  gli arredi e le attrezzature furono completati dopo la guerra, quando il complesso entrò in funzione. Si trattò per quei tempi di un cantiere straordinario per dimensione, mezzi, collocazione, per la meticolosa gestione tecnica e la raffinata progettazione; è considerato un capolavoro dell’urbanistica “razionalista”,
Durante il conflitto mondiale, nel sesto e nel settimo padiglione, furono ricoverati in gran segreto alcuni insoliti e prestigiosi pazienti: si trattava di opere d’arte importantissime provenienti da musei e collezioni private tra cui alcune tele di Rubens, Tintoretto e Segantini…




venerdì 25 novembre 2016

IL RIMEDIO È LA POVERTÀ

Goffredo Parise


Questo articolo apparve il 30 giugno 1974, ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di pensiero di Goffredo Parise.

Troviamo utile pubblicare di tanto in tanto dei gioielli del pensiero. Questo è un articolo di Goffredo Parise tratto dalla rubrica che lo scrittore tenne sul “Corriere della sera” dal 1974 al 1975. Si trova nell'antologia "Dobbiamo disobbedire", a cura di Silvio Perrella, edita da Adelphi. Questo articolo apparve il 30 giugno 1974, ed è straordinario. Una meraviglia di stile e di pensiero di questo autore sicuramente libero e lontano da ogni appartenenza politica e salottiera. Rappresenta per noi oggi - media compresi che non ospitano più pezzi così controcorrente - uno schiaffo contro la nostra inerzia.


«Questa volta non risponderò ad personam, parlerò a tutti, in particolare però a quei lettori che mi hanno aspramente rimproverato due mie frasi: «I poveri hanno sempre ragione», scritta alcuni mesi fa, e quest’altra: «il rimedio è la povertà. Tornare indietro? Sì, tornare indietro», scritta nel mio ultimo articolo.

Per la prima volta hanno scritto che sono “un comunista”, per la seconda alcuni lettori di sinistra mi accusano di fare il gioco dei ricchi e se la prendono con me per il mio odio per i consumi. Dicono che anche le classi meno abbienti hanno il diritto di “consumare”.

Lettori, chiamiamoli così, di destra, usano la seguente logica: senza consumi non c’è produzione, senza produzione disoccupazione e disastro economico. Da una parte e dall’altra, per ragioni demagogiche o pseudo-economiche, tutti sono d’accordo nel dire che il consumo è benessere, e io rispondo loro con il titolo di questo articolo.

Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere) troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia” nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente che si getta sul cibo. La crisi? Dove si vede la crisi? Le botteghe di stracci (abbigliamento) rigurgitano, se la benzina aumentasse fino a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per poter pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sembrano concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo. Si parla già di accaparrare cibo e vestiti. Questo è oggi la nostra ideologia. E ora veniamo alla povertà.

Povertà non è miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà non è “comunismo”, come credono i miei rozzi obiettori di destra.

Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le motociclette, le famose e cretinissime “barche”.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione.

Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese; imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione elementare delle cose perché non ha più povertà.

Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello (vedi Carosello e poi vai a letto, è la nostra preghiera serale) e non dei propri occhi, della propria mente, del proprio palato, delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostra paese è un solo grande mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano, senza conoscere nulla, e poi buttano via e poi ricomprano. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni.

Il nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di consumo superfluo.

I giovani “comprano” ideologia al mercato degli stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione. L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e disperati figli del consumo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona.

Per le ideologie vale la stessa regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più “corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella sua qualità reale. La divisa dell’Armata Rossa disegnata da Trotzky nel 1917, l’enorme cappotto di lana di pecora grigioverde, spesso come il feltro, con il berretto a punta e la rozza stella di panno rosso cucita a mano in fronte, non soltanto era giusta (allora) e rivoluzionaria e popolare, era anche bella come non lo è stata nessuna divisa militare sovietica. Perché era povera e necessaria. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale, una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il nostro paese».


Fonte: da Globalist del 28 agosto 2015






lunedì 21 novembre 2016

CIAO GILBERTO, TI RICORDIAMO PER AVERCI FATTO RISCOPRIRE LA STORIA




di GIANFRANCESCO RUGGERI

Oggi, 20 novembre,  ricorre il primo anniversario dalla scomparsa di Gilberto Oneto e durante questi mesi la sua mancanza si è fatta sentire, i suoi saggi consigli ci sarebbero stati infatti estremamente utili in questo complicato periodo.

Oggi Gilberto verrà ricordato in vari modi, ci sarà chi ricorderà l’uomo, chi ne riproporrà le idee, chi parlerà del paesaggista, chi elencherà i suoi tanti libri invitando a leggerli e rileggerli, cosa sacrosanta e doverosa: io credo invece che il miglior modo per ricordarlo sia quello di applicare il cosiddetto “metodo Oneto”.

Come sapete Gilberto da solo ha riscoperto il patrimonio identitario, linguistico, culturale e storico di un intero popolo, in pratica tutto quello che sappiamo sulla Padania ce l’ha insegnato lui, dopo averlo riscoperto. Nel corso degli anni con pazienza ha sollevato il velo di italianità, ha soffiato via quella polvere tricolore che abbiamo lasciato depositare su di noi e sulla nostra terra, ha riscoperto l’essenza padana dei nostri luoghi e delle nostre tradizioni, di noi stessi.

Per farvi capire di cosa parlo vi citerò l’esempio di Halloween. Ho sempre creduto che questa festa fosse solo una stupida americanata, perché così mi dicevano i tg della Rai (odio la Rai!!!), poi su La Padania dei tempi d’oro ho letto un articolo di Oneto che parlava delle lömere, la zucche di Halloween, che a suo dire non erano una americanata d’importazione, ma una antichissima tradizione padana di origine celtica. La festa di Halloween e le zucche sarebbero state diffuse in America dagli immigrati irlandesi, ma per me la notizia vera stava nel fatto che secondo Gilberto le lömere erano state un tempo diffuse anche da noi!

Ammetto di non avergli creduto, da lassù mi perdonerà, ammetto di aver pensato tra me e me che questa volta l’aveva sparata grossa. Per scrupolo, ho comunque chiesto a mia nonna, cui restava solo un mese di vita, se per caso non avesse mai sentito parlare di zucche intagliate la notte di tutti i Santi, ben preparato però a ricevere una risposta negativa. Altro che averne sentito parlare, le faceva direttamente lei da piccola e con grande certezza e limpidissima memoria mi ha raccontato come le svuotava, come intagliava naso, bocca e occhi, come metteva della carta colorata sugli occhi e un lumino all’interno. Quando le ho chiesto il perchè lo facesse non ha saputo rispondermi, era una tradizione, tutti facevano così alla sua epoca. Ho poi chiesto ad altre persone e ho constatato come, almeno fino agli anni ’40 – ’50 le lömere erano un fatto comunissimo per lo meno nella bergamasca, ma credo anche altrove. Gilberto aveva ragione anche questa volta!

E allora perchè questa tradizione nel corso di pochi decenni è stata dimenticata ed è diventata una stupida americanata? Semplicemente perchè i padani hanno fatto tacere la loro voce e nel nostro silenzio ha risuonato forte il verso dell’i-taglianità, che ha diffuso una visione della realtà che ci è estranea.
Gilberto ha fatto tanto, ma neppure lui ha potuto far tutto, quindi adesso tocca a noi soffiar via la polvere tricolore, tocca a noi applicar il suo metodo di lavoro a qualunque aspetto della nostra vita. Voglio dar il buon esempio: avrete forse notato che quando si costruisce una casa e si arriva al tetto o comunque quando si rifà un vecchio tetto e la struttura portante è finita i muratori appongono sulla cima dell’edificio una bandiera, quella bandiera, quella con quei tre colori nefasti. Con perfetto stile onetiano mi son chiesto perchè, ma soprattutto mi son chiesto cosa si metteva sui tetti prima dell’unità d’i-taglia, meglio ancora, cosa i metteva sui tetti prima che quella bandiera venisse inventata?

Sollevata la polvere tricolore ho scoperto che una volta giunti al tetto si “faceva Ferragosto”, ovvero il padrone di casa offriva il pranzo ai muratori direttamente nella casa ancora da finire, le assi di cantiere diventavano una lunga tavolata con tanto di panche su cui sedersi e tutti insieme si festeggiava la posa del tetto. E cosa si metteva sulla cima della casa al posto della bandiera? Un ramo di abete, dalle mie parti detto pegheröl, da peghéra nome dato all’abete.

Ecco applicato il metodo Oneto, ecco ricomparire un altro tassello della nostra identità che scioccamente avevamo dimenticato, lasciando che una parvenza di i-taglianità ne prendesse il posto. Credo che applicare il suo insegnamento e continuare il suo lavoro sia un ottimo modo per ricordare Gilberto, forse il migliore, e così oggi mi piace immaginarlo aggirarsi sorridente per la Padania tutto intento a distribuire lömere sui nostri davanzali e a piantar pegheröi sui nostri tetti. E noi con lui.

Grazie Gilberto. Ciao Gilberto. Padania libera.

PS: E guai a voi se la prima volta che rifate il tetto lascerete mettere quella bandiera al posto del nostro pegheröl!


Fonte: da Miglioverde del 20 novembre 2016