di GILBERTO ONETO
La guerra del 1915-’18 – sintomaticamente ricordata
come la Grande Guerra – ha rifinito l’unità italiana: qualcuno la
ricorda anche come la quarta guerra di indipendenza, con la quale si
è concluso il grande e sfolgorante disegno di unificazione sotto un
unico paterno Stato di tutte le parti di mondo che si
trovano all’interno dei “sacri confini”, la cui definizione qualcuno
attribuisce con un eccesso di autobenevolenza e con qualche acrobazia
teologica al Buon Dio in persona.
Con scarsa coerenza patriottica ma con un insperato
sussulto di buon senso non si parla più di una quinta
crociata nazionale per “liberare” il Canton Ticino, Nizza, la Corsica
e San Marino, irriverente foruncolo di libertà dentro al corpo della
grande patria tricolore. Uno degli aspetti più sventolati del grande
tormentone quindici-diciottesco è costituito dai martiri e dagli
eroi, dagli esponenti della maschia gioventù che si sono lanciati
nell’avventura e immolati sull’altare della riunificazione, sorta di
“ultimo chilometro” di una gara iniziata tanti anni prima da
Garibaldi, Mazzini e comitiva cantante.
Ci è stato ripetuto (a scuola, nei discorsi ufficiali,
sui libri, al cinema e in televisione, in tutta l’agiografia
celebrativa) che un intero popolo si era buttato verso il confine per
strappare le penne all’odiata aquila austriaca e per liberare Trento
e Trieste. Ci è anche stato detto fino alla noia che quei fratelli
irredenti non facevano altro che anelare di essere appunto
redenti. Tutte balle. Colossali patriottiche balle. Senza neppure
scomodare il fatto che la maggioranza dei cittadini da
redimere contro voglia neppure parlava italiano (o una lingua neolatina),
che anche quelli che la parlavano stavano bene dove erano e – tolta
qualche sgomitante minoranza di studenti e di esagitati – non
avevano mai manifestato alcuna intenzione di diventare sudditi
italiani, basterebbe dare un’occhiata a quanti di loro abbiano
veramente preso parte alla grande guerra nazionale per capire che da
quasi un secolo ci vengono propinate solo patriottiche fandonie.
Cominciamo dai volontari di guerra. Ci fanno vedere
entusiasmanti filmati di torme di giovani che vanno alla
guerra cantando assiepati su treni ricoperti di patriottici graffiti,
ci raccontano di folle oceaniche inneggianti al rito
purificatore, torme di interventisti infuocati dai discorsi di
D’Annunzio. Ebbene: su un totale di circa 5.500.000 uomini
mobilitati nel corso del conflitto, quelli che si sono presentati
volontariamente sono stati la bellezza di 8.171, sì proprio
ottomilacentosettantuno, meno degli spettatori di un incontro di
calcio di serie C.
Se si pensa che i renitenti alla leva e i disertori
denunciati sono stati circa 330.000, cui vanno sommati non si sa
quanti imboscati e riformati fasulli, non si ha l’impressione di un
grande slancio popolare verso la guerra patriottica. Ma, su quegli
8.171, quanti erano gli “irredenti” che non vedevano l’ora di ricongiungersi
con la Madrepatria e combattere l’odiato tognitto? Quanti giovani
cuori italiani hanno cioè attraversato le inique frontiere e hanno
chiesto di indossare il grigioverde italiano? Un’inezia: 650 trentini
e 2.107 istriani e dalmati (per la precisione, 1.047 triestini, 410 istriani,
324 goriziani, 111 fiumani e 215 dalmati).
Da uno studio pubblicato (Fabio Todero, Morire per la
Patria) si ricava poi che meno della metà di costoro erano cittadini
asburgici e che la restante parte era composta da
“regnicoli” (cittadini del Regno d’Italia che si
trovavano nell’Impero per ragioni di lavoro o altro) e da uomini non
meglio identificati, ma quasi sicuramente anch’essi
“regnicoli”, visto che non compaiono nella diligente anagrafe
austriaca.
In buona sostanza risulterebbe che gli “irredenti” che
si sono dati da fare per la propria redenzione non siano stati più di
1.500-1.600. Fra i cittadini imperiali vanno annoverati anche i 463
militari asburgici che – presi prigionieri dai russi – erano riusciti
a raggiungere “dopo una lunga e triste odissea” il Csieo (Corpo italiano in estremo oriente)
dopo la Rivoluzione di ottobre: degli “irredenti” un po’ sui generis.
Naturalmente gli esuli fuggiti dall’Impero sono anche stati di più,
ma se ne sono guardati bene dall’arruolarsi.
Di questo migliaio di uomini (escludendo chi era finito
in Cina) molti sono caduti in guerra, ma solo quattro di loro sono
stati catturati dagli austriaci, processati per tradimento e
giustiziati: Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi e
Nazario Sauro. Dopo la morte dei primi tre, i volontari “irredenti”
sono stati allontanati dal fronte per evitare che altri potessero fare la
stessa fine. In realtà i volontari in generale erano molto mal visti dagli
altri soldati che li associavano con gli interventisti che avevano
voluto la guerra. Spesso erano oggetto di atti di ostilità e al
riconoscimento di quelli catturati (il fatto è sicuro nel caso di
Battisti) non sono stati estranei gli stessi commilitoni.
A fronte di questi ragazzi che, con coerenza e
coraggio, avevano scelto la causa italiana, ci sono però stati anche 2.662
casi di soldati italiani che hanno disertato e sono “passati al
nemico”. Non sapremo mai quanti di loro lo abbiano fatto per ragioni
ideologiche o per istinto di sopravvivenza: si tratta in ogni caso di
un numero piuttosto significativo.
Ai quattro martiri citati lo Stato italiano ha dedicato
strade e piazze, monumenti e ogni sorta di memoria ufficiale. A
quelli che hanno scelto di passare dall’altra parte, ma anche alle
centinaia di migliaia di disertori e alle decine di migliaia
di fucilati e di decimati è riservato solo il silenzio e l’oblio.
Quasi peggio è cercare
di fare passare i 650.000 morti (la grandissima parte dei quali ne
avrebbe certo fatto a meno ed è stata costretta a partecipare alla
“redenzione della Patria” con la forza) come eroici alfieri
dell’italianità, come i consapevoli artefici dell’ultima guerra
risorgimentale.
Anche di questi fatti e di questi numeri ci dobbiamo
ricordare quando ci verranno a sventolare il tricolore per festeggiare
un terribile macello organizzato per legittimare scelte politiche
fatte da pochi a solo vantaggio dei propri interessi.
(da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo)
Fonte:
lindipendenzanuova del 4 novembre 2016
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