Basta che si manifesti il desiderio di votare per il mantenimento dei Borbone, perché si venga arrestati e rinviati a giudizio per rispondere di attentato a distruggere la forma di Governo; basta un semplice sospetto, perché si proceda al fermo preventivo che impedisce a numerosi cittadini di partecipare alle operazioni di voto.
Così scriveva lo storico lucano Tommaso Pedìo, un
personaggio al quale i Borbone erano tutt’altro che simpatici. Egli, infatti,
era dell’opinione che l’insurrezione popolare “brigantesca” contro
il neonato Regno d’Italia fosse una semplice reazione al fatto che la
nuova dirigenza, lungi dal mantenere comportamenti tali da migliorare la
condizione di vita della plebe, era invece parecchio accanita. C’era poi la
questione delle terre, promesse e mai date ai contadini. Secondo il Pedìo,
perciò, la volontà di una restaurazione borbonica risiedeva nell’ormai
proverbiale “si stava meglio quando si stava peggio”, di gattopardiana memoria,
guidata dai vecchi proprietari terrieri.
Lo storico Cesare Cantù, deputato del Regno d’Italia,
convinto unitarista e antiborbonico, inoltre scrive:
Il plebiscito giungea
fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove
la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle
persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i Sì e i No, lo
che rendeva manifesto il voto.
Il voto, dunque, non
era segreto, perché il foglietto dove si esprimeva e che domandava se si
volesse l’Italia una e indivisibile, con Vittorio Emanuele monarca
costituzionale, non veniva posto in una sola urna da scrutinare, ma in due urne
diverse, una per il SÌ e l’altra per il NO, così che si sapesse come la persona
aveva votato. Anche Gigi Di Fiore, in “Controstoria dell’Unità d’Italia”, ha
confermato questa tesi.
Cosa accadeva a chi
avesse votato NO, ossia in modo legittimista, a favore dei Borbone?
Carlo Alianello scrisse:
Giorni prima che si facesse il plebiscito furono affissi,
alle mura delle città principali, dei grandi cartelli, in cui si dichiarava
nemico della Patria chi si fosse astenuto o avesse dato il voto contrario
all’annessione.
A
Napoli i seggi di voto erano scortati e supervisionati da camorristi e
garibaldini, messi a capo della sicurezza della città dal prefetto di
polizia Liborio Romano, il quale anche
la storiografia ufficiale indica sostanzialmente come traditore di Francesco
II, che fece allontanare da Napoli per preparare il terreno all’entrata di
Giuseppe Garibaldi (vedere anche “La camorra: notizie storiche raccolte e
documentate per cura di Marco Monnier”, Firenze 1862, dove è pure affermato che
sotto Francesco II la camorra fece parte della cospirazione).
Gli storici sono
altresì concordi nel rilevare che Liborio Romano si servì della camorra, e
in particolare dei servigi del capo guappo Salvatore
De Crescenzo, Tore ‘e Crescienzo, per mantenere calma la popolazione ed
evitare sommosse. Essi, in aggiunta, si diedero come era loro costume alla
violenza, ai furti, ai saccheggi.
D’altra parte lo
stesso Liborio Romano ammise nelle proprie memorie di essersi servito dei
camorristi, giustificando la decisione come un modo per offrire loro un
riscatto e tenerli più calmi.
Alle votazioni parteciparono soltanto due persone su dieci,
con le modalità che abbiamo visto. La
conseguenza non poteva che essere la reazione armata, il cosiddetto
“brigantaggio”, il quale era in realtà una guerra civile di patrioti contro
coloro che erano, di fatto, degli invasori, perché tale è il nome comunemente
attribuito a chi si stabilisce con le armi sul suolo di una nazione
indipendente per sovvertirne l’ordine, annetterla.
7 SETTEMBRE 1860: GARIBALDI ENTRA A NAPOLI SCORTATO DALLA
CAMORRA
Wenzel Franz “Ingresso
di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860”, 1860 – 1875
“L´ingresso nella
grande capitale ha più del portentoso, che della realtà. Accompagnato da pochi
aiutanti, io passai frammezzo alle truppe borboniche ancora padrone, le quali
mi presentavano l´armi con più ossequio certamente, che non lo facevano in quei
tempi ai loro generali. Il 7 settembre I860!”.
La “grande capitale” è Napoli, “io” è Giuseppe
Garibaldi e “il 7 settembre 1860” è la data in cui il generale fece il suo
ingresso nella città partenopea mentre il re Francesco II di Borbone si recava
a Gaeta per organizzare l’ultima resistenza.
L’eroe dei due mondi arrivò a Napoli
a bordo di un treno accompagnato da tutte le personalità che erano andate a
Salerno per accoglierlo. In testa al corteo Liborio Romano, Ministro di Polizia e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra
dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”, i cui uomini mantennero l’ordine
pubblico. Dopo aver percorso via Marina, essere passato dinanzi il
Maschio Angioino ed essersi fermato al Duomo per ascoltare il “Te Deum “e a
Largo di Palazzo, l’attuale piazza del Plebiscito, per fare un breve discorso,
Garibaldi si diresse fino a Palazzo
Doria D’Angri, dal cui balcone proclamò l’annessione delle province
meridionali al Regno sabaudo.
Liborio Romano saluta
Garibaldi
Questa data segnò
l’inizio della fine. La fine del Regno
delle due Sicilie e l’inizio del patto
tra Stato e Camorra a Napoli.
A sostegno di quest’ultima tesi le carte che dimostrano che
il 26 ottobre 1860 Garibaldi pagò una pensione vitalizia di 12 ducati mensili a
nome di Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pasquarella
Proto e Marianna De Crescenzo,
le principali esponenti femminili della Camorra napoletana. Quest’ultima era
sorella proprio di quel De Crescenzo che aveva camminato accanto a Garibaldi al
suo ingresso a Napoli.
Il losco personaggio aveva acquistato il ruolo di
intermediario tra politica e camorra quando Liborio Romano per contrastare le
sommosse nate sulla scia di quella siciliana del 1848 lo chiamò per chiedergli
di radunare tutti i capi-quartieri della città e stipulare un patto di aiuto
reciproco. Di De Crescenzo si
racconta che avesse fatto sgozzare da una banda di camorristi Totonno ‘a Port’ ‘e Massa, il famoso
contrabbandiere e capo del quartiere di Porto, quando si trovava all’interno
delle carceri dell’antico castello della Vicaria. Ma Romano non reclutò solo
“Tore”, già nel luglio 1860 altri camorristi furono nominati funzionari di
polizia. Il ministro iniziava quindi a preparare l’accoglienza di Garibaldi
dotando inoltre coloro che appoggiavano la sua causa di coccarda tricolore.
Non bisogna dimenticare, poi, che Romano fu anche
corrispondente di Camillo
Benso di Cavour e iniziò a mettersi in rapporti con l’eroe dei due mondi
quando era ancora al servizio di Francesco II grazie all’apparecchiatura
telegrafica che si era fatta istallare nel proprio gabinetto. In una lettera il
conte addirittura lodava e riconosceva “l’illuminato e forte patriottismo e la
devozione alla causa” che contraddistinguevano il ministro. Ovviamente per
“causa” intendeva la creazione del
Regno d’Italia.
Entrato a Napoli, Garibaldi formò immediatamente un governo
con a capo proprio Romano e come primo atto ufficiale cedette al Piemonte la
potente flotta da guerra borbonica. Così come scriveva il condottiero arrivato
in carrozza “cadeva l´abborrita dinastia
che un grande statista inglese avea chiamato
‘Maledizione di Dio’! e sorgeva sulle sue ruine la sovranità del
popolo”, o forse no.
Fonti:
“Gli avvenimenti d’Italia del 1860”, Venezia, Cecchini
Editore, 1860
Aldo Servidio, “L’imbroglio nazionale: unità e unificazione
dell’Italia (1860-2000)”, Napoli, Guida, 2002
Alberto Consiglio, “La camorra a Napoli”, Napoli, Guida,
2005
Angelo Forgione, “150 anni fa entrava Garibaldi a Napoli”,
2010
Guido D’Agostino, “Garibaldi, 150 anni fa l’ingresso a
Napoli”, in “la Repubblica Napoli”, 2010
Luciano Salera, “La storia manipolata”, Napoli,
Controcorrente, 2009
Fonte: da Vesuvio Live, del 7 settembre
2015
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