mercoledì 8 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. I.C): POLITICA MISSIONARIA, DA COLOMBANO ALLA “ECCLESIA UNIVERSALIS” DI BONIFACIO


San Bonifacio battezza i sassoni e Martirio di San Bonifacio, dal Sacramentario di Fulda (XI secolo)


Oltre all'aspetto socioculturale, antropologico, della conversione, il processo missionario assume anche una connotazione politica, che, come già esposto nella parte riguardante la storiografia, prepara in qualche modo l'unità europea, espressa concretamente con l'età carolingia.

L'accezione politica missionaria è da intendere qui come gestione dall'alto della missione, sulla linea della tradizione romana della chiesa inglese. Mentre i missionari irlandesi o i vescovi itineranti della prima evangelizzazione praticavano una pastorale di tipo individualistico - né è chiaro esempio la prassi penitenziale della confessione auricolare da essi inaugurata - l'ecclesiologia inglese si mostra più sensibile ad un certo universalismo, anticipando in qualche modo quella visione centralizzata della missione, anzi meglio, la stessa dimensione ecclesiale-cattolica della missionarietà, che appare nei moderni documenti, come ad esempio quelli con cui venne istituita la Congregazione di Propaganda Fide.

Le Chiese europee alla vigilia della missione inglese

Intorno al VII secolo, la chiesa visigotica era caduta sotto la dominazione araba, come era accaduto anni prima alla grade chiesa africana. L'Oriente, sempre a causa degli Arabi, ma anche a motivo di conflitti interni, iconoclastia e monotelismo, aveva perso energie per un efficace controllo sull'Occidente.

Il papato non era più quello di Gregorio Magno, e come si vedrà, preso com'era tra Longobardi e Bizantini, esso conobbe un periodo di forte depressione. La chiesa franca era attraversata da una crisi istituzionale, che verrà a risolversi solo dopo Pipino, con l'avvento al potere di Carlo Magno.

L'unica fonte attiva era rimasta l'Inghilterra.

Ricca culturalmente, come testimonia l'opera di Beda il venerabile e di Alcuino, essa era diventata il nuovo centro commerciale europeo, tanto che la Manica sembrava sostituire egregiamente il Mediterraneo, rimpiazzando quello che era ormai diventato un “lago arabo” e facendo rivivere un po' l'atmosfera della chiesa tardo antica. Non a caso Beda riscopriva, nella sua Historia, le gesta dei missionari inviati da Gregorio Magno, utilizzandole come giustificazione dell'ascendente romano della chiesa inglese - per dare un certo tono alla identità culturale nazionale. Prima però di giungere all'azione missionaria degli inglesi e di Bonifacio, in particolare, va dato uno sguardo dell'opera missionaria precedente.

Missione irlandese

Mentre i Franchi avevano esteso il cristianesimo a livello dei grandi quadri, l'opera missionaria presso Alamanni, Bavari, Turingi e Frisoni, popoli caduti poi sotto l'egemonia franca, venne portata avanti da missionari visigoti o irlandesi.
Tra Alamanni e Svevi conosciamo l'opera svolta da Colombano attorno al lago di Costanza (615), che fondò il monastero di Bobbio e quella del suo discepolo Gallo, fondatore, a sua volta, dell'omonima abazia. Più tardi giunse in quella zona un vescovo itinerante, dalle incerte origini, Pirmino, di cui abbiamo già accennato.

I Bavari, che già avevano conosciuto il Cristianesimo attraverso i superstiti delle comunità ecclesiali del tardo antico (le cui guide erano stati, secondo la tradizione, Valentino e Severino), insediate nella zona da essi occupata, furono raggiunti più tardi da altri discepoli di Colombano: S. Atanasio ad esempio, che fondò Luxeuil.

Elemento di eccezione, tipico più tardi della missione inglese, l'iniziativa assunta da Teodo di Baviera, che chiede e ottiene da Roma il vescovo Martiniano, per organizzare la chiesa secondo strutture more romano. Turingi e Frisoni, forse a causa dell'avversione ai Franchi, furono piuttosto riluttanti a ricevere missionari.

La caratteristica di questa evangelizzazione consiste nell'aver avuto come protagonisti dei missionari, che furono più anacoreti che evangelizzatori, più preoccupati della propria vita spirituale, la quale avrebbe esigito la predicazione itinerante come mezzo ascetico, che interessati all'organizzazione di una chiesa locale. La loro ecclesiologia, soprattutto, era di impostazione prevalentemente Irlandese, legata a propri costumi, dei quali i penitenziari sono uno degli esempi più rappresentativi (ecclesia monastica: tutto faceva capo all’abate del monastero sia in ambito monastico, sia in ambito pastorale). Il loro attaccamento a S. Pietro era più questione di devozione che parte di una concezione universale della chiesa.

Gli Inglesi e Bonifacio

Chi diede una svolta a livello politico alla missione occidentale fu proprio l'impegno di missionari usciti dalla chiesa Inglese. Verso la fine del VI secolo (596), Gregorio Magno aveva inviato in Inghilterra Agostino (di Canterbury) con circa 40 monaci, allo scopo di organizzare la chiesa inglese. Si fa risalire alla sua opera la primitiva struttura ecclesiastica, che comprendeva due province, con le rispettive sedi metropolitane: Londra e York. Questo tentativo di identità romana della chiesa inglese venne presto a scontrarsi con la concezione irlandese, in genere poco legata a Roma. L'opera di Wilfrido, che importa da Roma gli usi monastici del continente nel Sinodo Iroscozzese di Whitby (664), segnarono una prima vittoria a favore della chiesa inglese (romana).

Un’ altro sinodo, per ribadire le usanze romane, venne celebrato a Hertfort (672-673), sotto il patrocinio di Teodoro, vescovo greco, inviato dal Papa come metropolita di Canterbury, su richiesta dei re anglosassoni (Northumbria e Kent).

Secondo le fonti ufficiali, il papa lo aveva tenuto in quarantena a causa della peste. In realtà, una lettura più critica delle fonti suggerisce un'altra versione dei fatti: la sua permanenza a Roma sarebbe servita a purificarne la fede dalle usanze greche e per indirizzarlo verso consuetudini più propriamente romane (Arnaldi).

Con Teodoro cominciò tuttavia la prassi della nomina pontificia per le sedi delle chiese territoriali di missione. C'è da supporre che i contrasti tra il corifeo della disciplina romana, Wilfrido, e il vescovo greco, fossero qualcosa in più che lo sdegno del primo per la riduzione dei confini della diocesi di York - a cui era stato destinato pochi anni prima e che non aveva potuto occupare, proprio per i contrasti con la chiesa iroscozzese. Forse la concezione romana di Teodoro era ancora troppo superficiale, visto il suo passato greco, e la quarantena non era stata sufficiente a ottenere un accettabile cambiamento di prospettiva: Wilfrido stava su un' altro versante, rispetto al vescovo giunto dalla Grecia, e comunque egli era ancora un elemento di passaggio, sulla strada che avrebbe condotto i suoi connazionali ad una concezione di missione nell'ottica della ecclesia universalis.

Di fatto la realtà di comunione con Roma, e comunque il germe di una concezione universale della chiesa, erano poco presenti in Inghilterra e il richiamo alla romanità, giustificata con l'iniziativa missionaria di Gregorio Magno, era più un fatto di identità nazionale che di concezione politica della missione. Per assistere allo sviluppo di una vera e propria idea di missione bisogna attendere l'inserimento nel processo missionario della protezione franca e quindi la seconda ondata di missioni di Willibrordo e Bonifacio.

Il primo, partito sempre dall'Inghilterra, approda in Frisia, dove incontra Radbodo, pagano, che gli impedisce l'evangelizzazione. Vista la situazione egli decide, prima, di assicurarsi l'appoggio di Pipino e quindi, di recarsi a Roma, dove gli venne cambiato il nome in Clemente. Il risultato, di queste sue iniziative di orientamento romano, sarà una evangelizzazione di 50 anni tra i Frisoni, la nomina di arcivescovi di quella chiesa nazionale e la fondazione del monastero di Echternach.

Lo schema missionario di Willibrordo apre la strada a Bonifacio, il colto monaco di Exter. Di questo grammatico la storia ci ha conservato un numero eccezionale di documenti, tanto da far dubitare se egli sia stato grande realmente o se sia invece non più che un castello di carta, messo in piedi dagli storici delle epoche successive, approfittando, appunto, della montagna di materiale prezioso che egli ci ha lasciato.  L'interrogativo era stato già formulato dall'Arnaldi, che, in un suo intervento alle Settimane di Spoleto, partiva proprio da una lettera del Missionario, scritta al Papa nel 751, in cui egli confessa la sua delusione e il suo fallimento, chiedendo di potersi ritirare nel monastero di Fulda - dove, solo pochi anni dopo, venne poi sepolto.  
Le ipotesi avanzate dall'Arnaldi in quell'occasione erano appunto due: Bonifacio creazione degli storici, o Bonifacio precorritore dei tempi e quindi incompreso dai contemporanei.  Sia Beda, che muore 10 anni dopo di lui, quando ormai la missione europea sembrava aver avuto successo, sia il Liber pontificalis, sembrano dare poca importanza a questo campione della missione occidentale. Vediamone comunque i fatti principali.

Nel 716 egli effettua il primo viaggio missionario tra i Sassoni, senza successo. Radbodo aveva preso la sua rivincita su Carlo Martello e il cristianesimo della Frisia meridionale era stato soffocato.

Due anni dopo egli decide di compiere un viaggio a Roma, dove è ricevuto da Gregorio II, che lo invia in missione nella zona orientale del Reno. Lavora a fianco di Willibrordo che trova campo aperto in seguito alla morte dei Radbodo.

Nel 722 è di nuovo a Roma. Consacrato vescovo della Germania, egli giura al papa obbedienza, con un rito simile a quello praticato dai vescovi suffraganei della diocesi romana. Un solo particolare viene mutato: invece della fedeltà all'imperatore bizantino egli promette comunione con il vescovo di Roma.
Tornato da Roma egli chiede la tutela di Carlo Martello, quindi, con lettere di protezione papale e reale, si avvia alla missione dell'Assia, convinto dell'importanza della collaborazione del potere civile e di quello ecclesiastico. Egli lavorò in Turingia ed Assia per circa 16 anni, ottenendo da Roma il palio, cioè la facoltà di consacrare nuovi vescovi. Tuttavia l'organizzazione diocesana pensata da Bonifacio non poteva ancora essere messa in atto ed egli nel frattempo si limitava alla fondazione di monasteri, centri di reclutamento di clero indigeno e poli di cultura. Solo dopo un terzo viaggio a Roma, 737-738, egli, con titolo di legato, può darsi definitivamente all'organizzazione della chiesa, incominciando dalla Baviera,  la prima ad aver interpellato Roma attraverso il duca Teodo, per avere dei vescovi.  Vi vengono quindi fondate le diocesi di Passau, Regensburg, Salzburg e Freising.  Altre ne fonderà in Assia e Turingia: Büraburg, Erfurt e Wuzburg.

Parallelamente all'impegno missionario, Bonifacio portò avanti la riforma della chiesa Franca. Pipino, degli Arnulfingi, aveva assicurato con il maggiordomato ereditario una certa stabilità al suo potere, ma il suo figlio illegittimo, Carlo Martello, dovette imporre la sua autorità con la forza e solo la battaglia di Poitiers (732) lo consacrò capo indiscusso dell'Occidente. I suoi due figli, educati in monastero, diedero modo a Bonifacio, investito con il ruolo di missus sancti Petri (legato papale), di dar vita ai sinodi della chiesa di Francia (Il sinodo, come si vedrà più oltre, è parte integrante del sistema di potere inteso secondo la concezione germanica: il re non poteva decidere autonomamente. Aver portato argomenti di riforma all'interno del contesto sinodale, significava aver inserito la chiesa nel sistema di potere franco).

Con Carlomanno prima e poi con Pipino, signori dell'Austrasia e della Neustria, venne messo mano alla riforma del clero, sia in senso morale sia soprattutto in quello disciplinare. E' nel concilio generale di Francia che Bonifacio tenta di costruire la provincia ecclesiastica dell'Austrasia, elevando a sede metropolitana Colonia ed eleggendola a sua sede episcopale. L'operazione non riesce a causa delle clientele nobiliari locali, che non volevano prelati stranieri. Egli si accontenta di reggere la cattedra di Magonza.

Più tardi, morto il vescovo di Utrecht, Colonia si fece avanti nuovamente, desiderando attirare nella sua orbita anche questa sede episcopale. Bonifacio intervenne chiedendo a Pipino la nomina di Lullo, suo discepolo, a Magonza e prendendo sotto il suo controllo Utrecht.  Ma siamo ormai nella fase decadente dell'opera di Bonifacio. Oltre la storica professione di fedeltà a Roma dei vescovi franchi del 747, che mise le basi all'unità europea, egli ottenne soltanto la sottomissione alla giurisdizione romana del suo monastero di Fulda, segnando così l'inizio dell'esenzione dei religiosi. Nel 754 egli morì martire tra i Frisoni.

Questo è quello che risulta dalla vita di Bonifacio scritta Willibald, un prete di Magonza. Come egli afferma nella dedica, lo avrebbero spinto all'opera Lullo e Megingoz, vescovo di Würzburg. Erano passati già 10 anni dalla morte del martire e si era oramai alle soglie dell'età Carolingia. Era relativamente facile a quel punto riconoscere il senso dell'opera di Bonifacio, che come titola un articolo dell'Arnaldi, era da considerare il precursore di Carlomagno. Già gli episodi narrati riguardo alla riforma Franca, come anche i tentativi di organizzare la chiesa in Baviera e il giuramento ottenuto dai vescovi nel 747, fanno percepire la tensione verso una ecclesia universalis, che avesse come centro Roma e come struttura politica in appoggio, il grande regno dei Franchi che, con Carlo Martello, a Poitiers, aveva dimostrato di saper reggere il controllo politico dell'Europa.

Spesso si è affermato che la fine di Bonifacio sarebbe dipesa dallo scontro tra la concezione della chiesa territoriale, proveniente dalla mentalità germanica e la sua idea di chiesa universale, legata a Roma. Bisogna invece affermare che l'epoca di Pipino e Carlomanno era segnata da una crisi politica, che non permetteva l'attuazione del piano di Bonifacio; lo si sarebbe realizzato appunto con Carlomagno.
Inghilterra e Roma erano ancora lontane e solo Bonifacio permise il recupero dei «circuiti antichi, che press'a poco dai tempi di Gregorio Magno erano stati lasciati fuori uso» (ARNALDI, Bonifacio e Carlomagno, 36). L'esegesi del tu es Petrus di Leone Magno, la concezione di Cathedra Petri insita nella coscienza della chiesa Inglese, l'avvento della grande potenza franca, furono i punti fermi attorno i quali Bonifacio fece ruotare la sua politica missionaria. Egli aveva notato come Gregorio Magno avesse scelto la regola di s. Benedetto privilegiandola rispetto a tutti i monachesimi possibili e come con il prestigio di quell'impronta romana essa stesse guadagnando terreno in tutta Europa e pensò di estendere il principio alla chiesa secolare.

Egli, nella lettera al papa del 751, già ricordata, come in tutte quelle spedite in Inghilterra, confessa il suo fallimento e alla fine ripiega su Fulda, monastero legato a Roma, tornando lì dove era partito.
Al posto della provincia ecclesiastica, legata a Roma, costruita sull'andamento del tardo antico, di impronta post-dioclezianea, egli piazzava al centro della sua area di missione un monastero esente dal controllo locale, di respiro universale. «Perché il programma di Bonifacio venisse ripreso e portato avanti, occorreva, per dirla con le parole di Ovidio Capitani, che prendesse vita un organismo politico unitario che, costruito ad immagine dell'Impero di Costantino, si ponesse anche come alternativa unitaria e reale per il mondo cristiano occidentale, rispetto all'unità religiosa preesistente. Soltanto allora i circuiti ripristinati da Bonifacio avrebbero potuto avere la loro definizione istituzionale (chiesa romana, provincie ecclesiastiche, diocesi: ciascuno nel suo ambito assegnato),  senza più equivoci, tranne quello grandissimo insito nell'idea stessa di imperium christianum» (ARNALDI, Bonifacio e Carlomagno, Atti delle Settimane di Spoleto sull'alto medioevo, 39).


Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011


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