lunedì 20 giugno 2011

STORIA DELLA CHIESA MEDIEVALE. (Cap. VII. A): MONACHESIMO E VITA RELIGIOSA

Affresco, Pieve di di San Zeno  di  Colognala ai Colli

Per il medioevo, la vita religiosa svolse un ruolo costitutivo, ruolo che essa non ebbe né nell’antichità né nell’evo moderno. Il primo medioevo fece infatti intravedere, al di fuori dell’area del Mediterraneo, ampi spazi vuoti da civilizzare e cristianizzare, spazi che furono riempiti con fondazioni di monasteri.
Le strutture monastiche del medioevo (fino al secolo XII) stendono sulle campagne una fitta rete di centri ecclesiastici, prima ancora della struttura parrocchiale. Nei secoli XII e XIII, con lo sviluppo improvviso delle città, sorsero gli ordini mendicanti mediante cui la vita religiosa fu definitivamente impiantata nei centri urbani.
La storia della vita religiosa medievale presenta, secondo M. D. Knowles, due fasi principali:

- La prima  fase cronologicamente indicata nel periodo dell’alto e basso medioevo, da Benedetto di Norcia († 547) a Bernardo di Chiaravalle († 1152);

- La seconda  fase costituita dal tardo medioevo e contraddistinta dal movimento pauperistico e dagli Ordini mendicanti; si potrebbe dire da Francesco d’Assisi († 1226) a Francesco di Paola († 1507).

IL MONACHESIMO COME “STATO”

Nel medioevo (e in qualche regione fino al secolo XVIII) il monachesimo divenne uno “stato” ecclesiale e sociale stimato e determinante, che svolse addirittura in maniera monopolistica molti compiti importanti per la vita pubblica:

- a) Sotto il profilo ecclesiale, spirituale e pastorale, i monasteri funsero da struttura ecclesiale accanto all’organizzazione parrocchiale e, attraverso il sistema dell’incorporazione, all’interno dell’organizzazione parrocchiale. Spesso essi ebbero la funzione di sedi decanali, di cui sovente i prevosti e gli abati erano arcidiaconi (cioè supervisori ecclesiastici). I monasteri parteciparono così al potere episcopale fino a una specie di separatismo. La giurisdizione dei prelati rivaleggiò soprattutto nell’evo moderno non di rado con quella degli ordinari.

- b) Merito non irrilevante del monachesimo fu quello di aver costituito la continuità culturale fra l’antichità cristiana e il medioevo. D’altro lato i monasteri detennero sotto molteplici aspetti fin nell’evo moderno addirittura un monopolio culturale educativo.

- c) I monasteri medievali furono centri economici, aziende agricole modello, domini feudali con un esteso mecenatismo artigianale e artistico.

- d) I monasteri furono anche autonomi sotto il profilo della previdenza e della sicurezza sociale, dalla medicina alla scuola e alla formazione dei parroci.

- e) Essi costituirono uno status politico stimato e rappresentarono sul piano locale, regionale e anche imperiale, assieme agli stati sociali laici, lo “Stato”.

- f) I monasteri ebbero pure una funzione militare come rifugio e come punti di appoggio (cfr. le fondazioni di Bonifacio nell’Assia, Chammünster, Kremsmünster, Innichen quali “capisaldi” di fronte agli àvari; i monasteri catalani a tutela della costa, Montecassino nell’Italia centrale).
Malgrado la loro “separatio a mundo”, la maggior parte dei monasteri svolse perciò simili funzioni collaterali o fu ben presto indotta a farlo.

MONACI E CANONICI

La tradizione dei monaci-laici e quella dei canonici-chierici, derivanti dall’antichità, costituiscono le due forme parallele fondamentali della vita religiosa fino al tempo degli ordini mendicanti (secolo XIII, domenicani, francescani), cosa che ci permette di distinguere quattro periodi:

- 1.  Il monachesimo multiforme antecedente il periodo carolingio;

- 2. Le tendenze centralizzatrici e uniformanti del periodo carolingio (sino alla fine del secolo
IX);

- 3. Il  primo monachesimo riformistico (secolo X);

- 4. Nuovi ordini della riforma (eremitici e cenobitici) dei secoli XI e XII.

Il medioevo ereditò dall’antichità un monachesimo multiforme.
All’inizio del nostro periodo la regola benedettina non dominava ancora affatto tutta la vita monastica, neppure in Italia. Qui esistevano soprattutto molti monasteri della Chiesa orientale (s. Basilio, s. Nilo, s. Saba).
Il monachesimo iro-colombano stendeva le sue propaggini dalla Scozia sino agli Appennini, perché la Chiesa irlandese, con la sua cultura autonoma, la sua costituzione monastica autoctona e il suo rigorismo ascetico, agì in lontananza soprattutto attraverso il suo monachesimo irrequieto e tendente ad espandersi (“peregrinatio pro Christo”), un monachesimo che non può essere dimenticato quando parliamo della storia dell'evangelizzazione occidentale.
Colombano il Vecchio aveva fondato il monastero dell’isola di Iona (563), da cui verso la metà del secolo VIII partì Virgilio di Salisburgo, che promosse efficacemente la missione tra gli slavi delle Alpi.
Al nome di Colombano il Giovane è forse legata la più importante regola monastica prebenedettina; egli fondò nei Vosgi Luxeuil (590), che irradiò sin nella Francia settentrionale (Corbie, vicino ad Amiens, 660), nella Baviera (Weltenburg, inizio del secolo VII) e nella Lombardia-Emilia (Bobbio 612).  Durante il suo viaggio verso l’Italia egli operò anche nel territorio degli alemanni. Questo monachesimo forgiò sin nel periodo carolingio e al di là di esso la Chiesa del primo medioevo, la sua pietà, il suo ideale di santità, la sua teoria e prassi penitenziale, la sua liturgia e la sua concezione dell’ufficio divino; inoltre molti elementi della sua eredità sopravvissero nella missione anglosassone.

Nel corso dei secoli VII e VIII si assistette a un movimento politico ecclesiale e monastico in senso contrario. Si tese a bloccare gli sviluppi ecclesiali locali in favore della romanitas e di una valorizzazione dell’influsso papale.  A braccetto con tale movimento procedette la marcia trionfale della regola benedettina. Vilfrido di Ripon (634-710) e Benedetto Biscop la diffusero in Inghilterra. Caratteristica del monachesimo missionario di Willibrord (Echternach, Lussemburgo) e di Bonifacio (Fulda) fu, assieme a una strategia missionaria filo-romana, anche una politica di riforma anti-colombiana e anti-“irlandese”. Il monachesimo divenne sempre più “benedettino”.

Nel periodo dei carolingi (secolo VIII) e delle scorrerie dei saraceni il monachesimo e i suoi monasteri mostrarono chiaramente per la prima volta la loro sensibile dipendenza dal sistema politico via via imperante e dalle sue condizioni. Il patrimonio dei monasteri fu utilizzato senza riguardi per scopi bellici come se fosse stato un bene della corona. I monasteri franchi occidentali, altamente sviluppatisi a partire dal regno di Clodoveo, caddero in una crisi esistenziale economica e spirituale. Neppure Carlo Magno fu un grande fondatore di monasteri. Però era interessato a una osservanza unitaria e trasformò la regola di Benedetto in una legge dell’impero. Il suo successore Ludovico il Pio (814-840) fece dell’abate Benedetto di Aniane (vicino a Marsiglia) una specie di abate generale di tutti i monasteri dell’impero. Cornelimünster, non lontano dal palazzo imperiale di Aquisgrana, fu destinato a divenire il monastero modello dell’impero.
Nell’817 si tenne ad Aquisgrana un sinodo di abati, durante il quale fu emanata una legge imperiale per i monasteri (“Capitulare monasticum”). In particolare si cercò di garantire l’esistenza economica dei monasteri nei confronti dei loro abati commendatari (laici, vescovi ecc.). Così si concludeva provvisoriamente un processo, che era cominciato nel 630 con la progressiva rimozione della regola di Colombano a vantaggio di quella benedettina. L’Occidente era diventato benedettino.
La decadenza, che dopo la divisione dell’impero dell’843, colpì soprattutto il monachesimo franco occidentale, rendendo necessario un intervento e una riforma, sicché il successivo periodo la prima riforma monastica divenne una necessità. Il monachesimo franco orientale, malgrado gli attacchi degli Ungari, era rimasto in qualche modo intatto. Fulda nell’Assia, Corvey nella Sassonia, San Gallo nell’Alemannia, Reichenau sul lago di Costanza, Sant’Emmeram di Ratisbona, Niederaltaich e Kremsmünster nella Baviera furono tutti più o meno toccati dai movimenti di riforma, senza tuttavia rinunciare alle loro tradizioni autoctone. Invece la riforma borgognona fu un radicale nuovo inizio.

IL MONACHESIMO RIFORMATO DEI SECOLI X E XI

Nel cosiddetto saeculum obscurum, un periodo di opprimente dipendenza del papato dalla nobiltà locale e di vergognoso provincialismo della sede di Pietro, sorse come per compensazione una serie di centri monastici, che esercitarono una straordinaria autorità morale sulla cristianità Il principale di essi fu Cluny.
Guglielmo d’Aquitania, quando nel 910 eresse assieme al primo abate Bernone (910-927) quest’abbazia vicino a Mâcon in Borgogna, fece tesoro degli errori del passato (“secolarizzazione” carolingia) e approdò nello stesso tempo in uno spazio spirituale vuoto. E ciò fu un motivo del successo di Cluny, che con la sua chiesa monumentale, rivaleggiante con le maggiori basiliche romane, divenne per non meno di due secoli una “civitas Dei”.
Da un lato, in un periodo di mancanza generale di figure di padri, essa ebbe la fortuna di avere degli abati longevi e validi: Bernone (910-927), Maiolo (948-994), Odilone (994-1048), consigliere dell’imperatore Ottone III, Ugo (1049-1109), padrino dell’imperatore Enrico IV e mediatore nella lotta delle investiture, e Pietro il Venerabile (1122-57), contemporaneo di san Bernardo.

D’altro lato questi presupposti naturali furono fiancheggiati da princìpi direttivi adeguati dell’organizzazione interna. Gli abati esercitarono il diritto di designazione e poterono così impedire che l’abbazia finisse in mani estranee (abati commendatari). Inoltre il principio monarchico si estrinsecò nel fatto che l’abate di Cluny fu un vero abate generale con circa mille monasteri a lui sottoposti (il più delle volte priorati con in qualche caso solo una mezza dozzina di membri). Gli abati di Cluny furono perciò continuamente in viaggio per visitare i loro monasteri.

Inoltre, Cluny cercò di sganciare sé e le chiese che gli erano sottoposte dal sistema della chiesa privata. Cluny sostenne, già duecento anni prima di Citeaux, il principio della libertà dal patronato, che equivaleva a una diretta sottomissione al re e ai signori locali. Ciò significò il tentativo di uscire dai vincoli del precedente sistema feudale. Nello stesso tempo, essa coltivò il contatto con la nobiltà, mediante un’elaborata liturgia funebre e un corrispondente cerimoniale per le sepolture. In seno al movimento della “pace di Dio” (tregua Dei) il monastero esercitò un influsso determinante sulla nobiltà litigiosa e vendicativa.

Infine Cluny cercò di impedire le intromissioni dei vescovi, che allora erano sempre anche di natura feudale, garantendosi privilegi e protezioni papali e sottraendosi alla giurisdizione episcopale (esenzione 998). L’obbedienza ai vescovi fu di nuovo promessa dai nuovi ordini della riforma (cistercense, francescano) come una prova di umiltà; ma poi anche questi cercarono continuamente di ottenere il privilegio dell’esenzione (per i francescani esso fu ottenuto nel 1231 con la bolla Nimis iniqua). I vescovi consideravano l’esenzione come un’offesa dei loro diritti e della loro libertà di azione, cosa che soprattutto in tempi di crisi (secolo XVI) fu sostenuta ad alta voce. E tuttavia il principio dell’esenzione rimarrà nella storia della vita religiosa e nel relativo diritto canonico sino ai nostri giorni.

In fatto di politica ecclesiale, Cluny fu vicina alle riforme gregoriane. L’invocazione della li bertas ecclesiae fu comune ad ambedue gli orientamenti. Ma è stata pura ideologia quella di voler fare di Gregorio VII un monaco cluniacense. Al tempo della lotta delle investiture l’abate Ugo mediò fra l’imperatore e il papa. I primi cluniacensi non ebbero alcun influsso apprezzabile sul monachesimo dell’impero, in larga misura intatto; molto invece ne ebbero quelli successivi del secolo XII. Da questo movimento di riforma, che va visto nel contesto di tutta la primavera monastica di questo periodo, fu toccata anche una serie di abbazie austriache come Gottweig, Garsten e Admont.

La riforma Lorenese di Gorze

È merito di Kassius Hallinger aver demitizzato un po’ Cluny alla vigilia del concilio Vaticano II e di aver richiamato l’attenzione sull’importanza della riforma lorenese dell’abbazia di Gorze, soprattutto nei confronti delle abbazie dell’impero. Alcuni studiosi (per es. Jean Leclercq, Gerd Tellenbach) hanno messo in guardia da un nuovo mito di Gorze, perché sarebbero esistiti numerosi altri centri di riforma (come Brogne vicino a Namur, Stablo-Malmedy, Hirsau, San Vittore di Marsiglia, Fruttuaria, Sant’Emmeram di Ratisbona sotto l’abate Ramwold, San Massimino di Treviri).
Gorze, diciotto chilometri a sudovest di Metz, era stato fondato già nel 749 come monastero indipendente e privato, ed era passato come tale nel 756 in possesso del vescovo Crodegango di Metz, che noi conosciamo come promotore della vita canonicale. I possedimenti di Gorze si stendevano da Strasburgo a Worms. Il monastero possedeva venticinque villaggi, quarantacinque parrocchie, diritti di decima in novantanove comunità. Era completamente inserito nel sistema economico e culturale del primo feudalesimo e divenne infine la sede direttiva di una blanda associazione di centosettanta abbazie riformate. Il lavoro culturale svolto dai suoi monaci fu «senza precedenti» (Hallinger).

Le seguenti caratteristiche furono riconosciute, non senza discussioni e contestazioni, ai cluniacensi rispetto al monachesimo tradizionale e riformato dell’impero: “fuga dal mondo” di Cluny e “apertura al mondo” di Gorze, ostilità alla cultura da una parte e apertura alla cultura dall’altra, aridità letteraria e, viceversa, produzione letteraria, ostilità all’apostolato degli uni e impegno pastorale degli altri, cerimonialismo e ipertrofia della liturgia (Cluny) contro il lavoro manuale e la meditazione semplice, antifeudalesimo contro la responsabilità politica.
Le semplificazioni di questo tipo nascondono tutte quante un granello di verità. È stato però giustamente osservato che, nei singoli casi, le situazioni furono molto più differenziate. Inoltre i movimenti religiosi di tutti i tempi hanno la tendenza a conformarsi reciprocamente. Ciò risulta particolarmente chiaro nel caso dei cluniacensi del secolo XII, che si distinguono ben poco dai contemporanei monaci di Gorze.


Fonte: Appunti.  Biennio filosofico.  Anno Accademico 2010-2011


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