lunedì 14 marzo 2011

Ishtar e la prostituzione sacra a Babilonia


Ishtar. Bassorilievo in terracotta, secondo millennio a.C.;  da Eshnunna.


Probabilmente per chi come noi occidentali è abituato ad una visione religiosa della vita sostanzialmente sessuofoba e repressiva degli istinti fisici legati alla sfera erotica, potrà apparire a dir poco strana e, molto più probabilmente, “scandalosa” l’esistenza presso numerose civiltà antiche di divinità legate all’amore fisico e, addirittura, di templi che, in definitiva, risultavano essere dei “bordelli sacri”.

In realtà, però, tale fenomeno non è per nulla stupefacente se inquadrato nella sua corretta ottica storica e religiosa.

Per comprendere questo elemento è sufficiente analizzare brevemente la civiltà in cui esso si è sviluppato con maggior forza, quella mesopotamica.

La storia della regione è strettamente legata alla fertilità prodotta da Tigri ed Eufrate, che portò alcune popolazioni dell’area sud-sarmatica a spostarsi, intorno al 5.000 a.C., in una zona in cui non solo le precipitazioni erano minori, ma il suolo era in grado di fornire un surplus di cibo. Proprio grazie a tale surplus si poterono sviluppare agglomerati sempre più estesi che, come in ogni occasione consimile, indussero alla nascita di  una divisione ben definita del lavoro, di una organizzazione sociale stratificata e dei concetti di cooperazione e regalità (1).

Da una prima fase di organizzazione autosufficiente prettamente urbana, con città isolate e con pochi contatti tra loro, si svilupparono piuttosto rapidamente entità statati di più ampie dimensioni in cui la classe sacerdotale controllava la vita religiosa della comunità, l’economia, la proprietà della terra, l’occupazione dei lavoratori nonché la gestione del commercio a lunga distanza, che, verso il 3.000 a.C. si estendeva fino alle culture della Mezzaluna Fertile.

Le conquiste della civiltà mesopotamica furono numerose: l’agricoltura, grazie alla costruzione di canali di irrigazione, divenne il principale metodo di sostentamento e venne ulteriormente semplificata con l’introduzione dell’aratro, l’artigianato crebbe con l’introduzione della ruota per la lavorazione della ceramica e con lo sviluppo della metallurgia e iniziarono a sorgere templi monumentali e zigurrat.

Numerosi gruppi etnici si alternarono alla guida della regione, pur in una continuità di civiltà pressoché ininterrotta: prima i Semiti di Ur e Uruk, poi i Sumeri della zona meridionale, che svilupparono la scrittura fonetica cuneiforme e che si organizzarono in città-stato, quindi gli Accadi provenienti dai monti Zagros e i Babilonesi che, nel II millennio a.C, si imposero a partire da Babele, per poi finire con gli Assiri del nord, di origine amorrea(2).

La continuità culturale di cui si è detto risulta particolarmente chiara nell’osservazione dell’ambito religioso, che, per molti versi era fondativo di tutta la vita sociale e politica dei gruppi menzionati.

Ciò appare evidente a partire dal periodo delle città-stato sumeriche: ogni città-stato è “proprietà personale” di un dio particolare: Nannar (luna) vigilava su Ur, Uruk era di An (il cielo), Sippar era di Utu (il sole),  Enki (la terra) aveva Eridu e Nippur, il primo centro della  religione  sumera, era dedicata a Enlil, dio del vento (poi soppiantato da Marduk a Babilonia). Ogni città-stato era, dunque, sacra in quanto attentamente sorvegliata da e collegata a un dio specifico o a una dea. Situato vicino al centro di ogni città-stato vi era un tempio posto sopra uno ziggurat che occupava diversi acri: il complesso del tempio era il vero centro della comunità e il dio principale o la dea abitavano lì simbolicamente sotto forma di una statua, cosicché era possibile sfruttare la potenza della divinità per il bene della città.  I sacerdoti, come accennato, controllavano anche tutte le attività economiche poiché l’economia era “redistributiva”: gli agricoltori dovevano portare i loro prodotti ai sacerdoti presso la ziggurat e i sacerdoti avevano il compito di “nutrire” e “vestire” gli dei e poi ridistribuire ciò che restava alla gente della comunità (3).

Con il suo pantheon piuttosto nutrito di dei e dee che animavano tutti gli aspetti della vita, la  religione sumera risultava naturalmente politeista. Di gran lunga, le divinità più importanti erano An, Enlil, Enki e Ninhursaga.  An era il dio del cielo e, quindi, la forza più importante dell’universo. Era anche visto come la fonte di ogni autorità tra le quali il potere terreno dei governanti e dei padri. Enlil, dio del vento, era considerato la seconda più grande potenza dell’universo ed era divenuto simbolo del corretto uso della forza e del potere sulla terra, ma come dio del vento, egli controllava sia la fertilità del suolo che le tempeste distruttive ed era, quindi, molto temuto. Enki era il dio della terra, dei fiumi e, in generale, delle acque ed era responsabile delle invenzioni e dell’artigianato. Ninhursaga, infine, era inizialmente vista come dea associata a terra, montagne e vegetazione ma, nel tempo, si era trasformata in una vera e propria dea madre, “madre di tutti i bambini”, che manifestava il suo potere dando vita al re.

Sotto questo primo gruppo, vi erano numerosi altri dei e dee: un gruppo dei quali includeva le divinità astrali, che erano tutti nipoti e pronipoti di An, tra i quali spiccavano Utu, dio del sole, Nannar, dio della luna e Inanna, dea della stella del mattino e della sera, nonché della guerra e della pioggia. A differenza degli esseri umani, questi dei e dee erano immortali, ma, comunque, non erano onnipotenti in quanto nessun Dio aveva il controllo su tutto l’universo.

Il rapporto degli esseri umani agli dei era basata su servilismo, poiché, secondo il mito sumero, gli esseri umani sono stati creati per compiere i lavori manuali che gli dèi non erano disposti a fare. Di conseguenza, gli esseri umani tentavano in ogni modo di comprendere il volere divino e, per alleviare l’ansia che poteva derivare da un tale genere di rapporto, l’arte divinatoria aveva un seguito enorme a tutti i livelli sociali e veniva praticata sia con a lettura delle viscere di animali sacrificati o attraverso la lettura delle volute di fumo o delle forme dell’olio gettato nell’acqua(4).

Tutto ciò rendeva la società mesopotamica fortemente superstiziosa (innumerevoli forme e rituali sono stati ritrovati incisi su tavolette d’argilla), in mano alla casta sacerdotale  (il cui potere verrà ampiamente formalizzato nel Codice Hammurabi) e dominata dalla credenza in poteri spirituali onnipresenti che formavano una realtà parallela piena di riflessi simbolici nella vita quotidiana.

Per altro, i rapporti di potere tra gli dei erano variabili nel tempo e dipendevano fortemente dalla forza impositiva delle città di cui erano patroni. In questo senso, uno stesso dio poteva, nell’arco di qualche decennio, assurgere al pantheon delle divinità maggiori per poi esserne sfrattato e venire addirittura ridotto a puro culto locale. Allo stesso modo, non erano infrequenti i casi in cui un dio o una dea, pur mantenendo le medesime caratteristiche, cambiassero nome a seconda della località in cui venivano adorati (con differenze notevoli soprattutto tra nord e sud della Mesopotamia) e in cui, nel corso del tempo, due o più divinità potessero subire una sorta di “crasi” e venire sincretizzati in una divinità unica(5).

E’ questo il caso di una divinità che emerge nel periodo babilonese (passando poi senza variazioni al culto assiro) e che altro non è che la sintesi degli attributi di Inanna (della quale è rappresentazione diretta), di Ninhursaga e, pur in un passaggio da culto solare a culto lunare, di Enlil: Ishtar.

Ma il risultato della crasi è, senza dubbio, maggiore della somma delle sue parti: se Inanna è la dea della bellezza e dell’amore (in effetti una sorta di Venere sumera), Ninhursaga una dea madre della generatività e Enlil un principio procreativo maschile, l’unione dei tre elementi fa di Ishtar una dea composita, che rappresenta sì l’amore, ma non solo nei suoi aspetti sentimentali e legati al’estetica, bensì anche nei suoi aspetti più fisici e carnali (6).

Su questo nucleo significante centrale si inserisce un’ampia mitologia che vede la dea protagonista di numerosi poemi epici, tra cui quello forse più importante riguarda la sua discesa agli inferi, una lunga vicenda che ricorda l’alternarsi delle stagioni sulla terra e il perpetuo ciclo della vita.

Brevemente, Ishtar discende agli Inferi per riportare in vita il suo amato figlio e amante Tamuz e riesce ad entrarvi minacciando ogni genere di calamità che colpisca gli umani e gli dei nel caso no la si lasci oltrepassare la soglia sacra. Per questo sua sorella, Allatu, dea dei morti, la fa passare, imponendo, però, che le vengano tolti tutti gli ornamenti e i vestiti con cui si ricopriva sulla terra, così da entrare completamente nuda e senz’armi nella terra dei morti. Inoltre, la dea dei morti invia contro di lei ogni genere di spiriti malvagi, che, però, risultano sempre sconfitti da Ishtar che, non a caso, è anche dea della guerra. Mentre la dea si trova negli Inferi, però, la terra isterilisce e non produce frutti, gli animali non procreano e tutto è desolazione e, di conseguenza, gli altri dei non vogliono che essa resti prigioniera degli Inferi e ordinano a sua sorella di restituirle la vita. Un tribunale infernale, inoltre, le concede di riportare sulla terra Tamuz e le rende tutti gli ornamenti di cui si riveste nella vita terrena e con i quali viene normalmente rappresentata nei templi: l’emblema lunare (simbolo femminino per eccellenza) che spicca sul suo capo, la coppa nella mano destra che è simbolo  di gioia e abbondanza contenendo il nettare della Vita, il loto nella mano sinistra che, nascendo sott’acqua ma diventando poi un fiore di purezza ineguagliabile una volta sbocciato alla superficie, indica la grandezza delle cose nascoste e la cintura sacra che è simbolo della sua generatività(7).

Anche grazie a tutta la ricchissima mitologia che la riguarda, il culto di Ishtar si diffuse rapidamente in tutta l’area mediorientale: essa era Astarte a Canaan, Attar in Mesopotamia orientale; Athtar nell’Arabia Meridionale; Astar in Abissinia; Atargatis in Siria; Astarte in Grecia …
In tutte le varianti essa risultava essere la personificazione di quella forza della natura che dà la vita come Madre di Tutti: essa è l’ ”Argentea”, la “Produttrice di Semi”, e “Gravida”,  la dea della fertilità, dalla quale proviene il potere della riproduzione e della crescita per i prodotti dei campi, per tutti gli animali e per l’uomo. E’ in quanto tale che diviene, come analizzeremo più approfonditamente, anche dea dell’amore sessuale e la protettrice delle prostitute, “Colei che Apre l’Utero” e principale rifugio delle madri nelle doglie del parto.

Ma Ishtar possiede un carattere duplice: non è soltanto la dispensatrice della vita ma anche la distruttrice: come per la luna, nel suo periodo crescente tutte le cose si sviluppano e nella sua fase calante tutte le cose sono diminuite e rese infime, ma, come per il ciclo della natura (e il ciclo femminile),  la luna crescente ritorna di nuovo,  la luce subentra all’oscurità anche quando l’oscurità vince la luce. Così anno dopo anno, Tammuz perisce e discende nel mondo infero, mentre tutto il mondo si spegne (cosa che, per altro, viene ripresa e ricordata nel Ramadan musulmano e, anche se in forma meno diretta, nella Quaresima cristiana), nulla può più essere concepito e il lutto si diffonde, ma poi la dea ritorna al mondo per liberarlo (8).

Era soltanto dopo il suo ritorno sulla terra che la fertilità, e anche del desiderio sessuale, poteva ritornare ancora una volta operante. E’ da questo aspetto che si sviluppa l’immagine “erotica” e sessuale che viene a connotare Ishtar in ogni luogo in cui il suo culto si esprime: nelle sue forme continuamente mutevoli essa interpreta tutti i possibili ruoli femminili, come figlia e sorella del dio lunare, il quale nello stesso tempo è anche suo figlio, ma anche, in quanto personificazione del femminino (per molti versi prossimo allo Yin cinese), come amante sensuale. Ecco, allora, che la seducente dea ha molti amanti, viene venerata come “colei-che accetta-tutto” e, addirittura, nella tarda epica di Gilgamesh viene definita colei che tenta alla fine di sedurre Gilgamesh(9).

Non vi era nulla di quanto oggi definiremmo “peccaminoso” nel suo agire: essendo una dea Ishtar doveva agire secondo la sua natura, e la sua natura era tale che dove essa amava, lì doveva darsi. Ma bisogna prestare attenzione ad un particolare: come la luna, Ishtar non poteva mai essere posseduta ed era sempre vergine, in una concezione del suo modo di essere che risulta in deciso contrasto con l’ideale del matrimonio esemplificato da divinità come Era, nel momento in cui, laddove nell’amore di Era si ha la fedeltà ad una promessa, nel caso di Ishtar si ha sempre e solo la fedeltà a se stessa, al sentimento attuale, alla realtà come è vissuta nel momento(10).


E’ in questo quadro che si pone il grande tema della “prostituzione sacra” vista come atto religioso e non condannabile (anzi, necessario) in un’ottica che possiamo definire pienamente filosofica e, addirittura, teologica.

Va subito chiarito un assunto di base: la “prostituzione sacra” non rientra in nessun modo in un ambito sociale né “libertino” né di particolare “libertà” femminile.

In realtà, il ruolo della donna in Mesopotamia era rigorosamente definito: era, innanzitutto, la figlia di suo padre o la moglie di suo marito e raramente agiva come individuo al di fuori del contesto familiare (con pochissime eccezioni, legate, per lo più, a ruoli legati allo status sociale).

La maggior parte delle ragazze venivano addestrate fin dall’infanzia per assumere i ruoli tradizionali di moglie, madre e governante: imparavano a macinare il grano, a cucinare e a produrre bevande, in particolare la birra, e a filare e tessere. Se una donna lavorava al di fuori della sua casa, di solito il suo lavoro nasceva da una estensione dei suoi compiti domestici: si poteva, così, vendere la birra prodotta o addirittura diventare osti, oppure le conoscenze delle questioni legate alla gravidanza e all’infanzia potevano portare le donne a diventare ostetriche o a creare farmaci che impedivano la gravidanza o producevano aborti, ma qui finiva la loro “indipendenza”. Anzi, poco dopo la pubertà una giovane ragazza era già considerata pronta per il matrimonio e i matrimoni venivano organizzati dalle famiglie dei futuri sposi. Una volta che una donna era impegnata, era considerata parte della famiglia del suo fidanzato e se accadeva che il futuro marito morisse prima del matrimonio, la ragazza era tenuta a sposare uno dei suoi fratelli o, comunque, uno dei suoi parenti maschi(11).

Ci è piuttosto agevole comprendere il ruolo femminile anche solo leggendo il codice di  Hammurabi, nel quale il maggior numero delle leggi è dedicato proprio al matrimonio e alla famiglia. In sostanza, la donna veniva “comprata”: per il marito era previsto un pagamento per la sposa, la quale, una volta “acquistata”, come tipico di ogni società patriarcale, aveva pochissimi diritti all’interno del matrimonio. Così, se lei non era in grado di avere figli il marito poteva divorziare, così come poteva divorziare nel caso lei cercasse di lasciare la casa senza autorizzazione al fine di esercitare una propria attività; nel caso poi la donna trascurasse la casa o umiliasse suo marito, poteva persino essere annegata.

Anche i rapporti sessuali erano strettamente regolamentati come “beni primari”: i mariti, ma non le mogli, erano autorizzati all’attività sessuale fuori del matrimonio e se una moglie veniva sorpresa in evidente adulterio poteva essere immediatamente gettata nel fiume. Insomma, i padri avevano piena autorità su mogli e figli e si aspettavano piena obbedienza e sottomissione (12).

In una situazione di questo genere, come è possibile che potesse svilupparsi una attività come quella della prostituzione sacra?

Semplicemente sulla base di un principio chiaramente espresso in una delle più antiche invocazioni trovate scritte sulle tavolette cuneiformi:

Ciò che è buono in vista di un uomo è male per un dio,
Ciò che è male alla mente di un uomo è buono per il suo dio.
Chi può comprendere il consiglio degli dèi in cielo?
Il piano di un dio è acque profonde, che si può capire di esso?
Dove la confusa l’umanità può mai imparare cosa guida la mente di un dio? ” (13)

Insomma, proprio nel momento in cui la società viveva un duplice aspetto della realtà, legato all’intrecciarsi di piani concreti e di piani simbolici legati al divino, l’etica (o la morale, se vogliamo esprimerci in termini più strettamente teologici) dei due piani poteva non collimare e in questi casi, naturalmente, era, in un mondo largamente dominato dalla casta sacerdotale, l’aspetto del sacro ad avere la meglio.

Ovviamente, con gli occhi di una cultura monoteista, rigidamente maschilista in ambito religioso e, almeno a partire dalla predicazione paolina, che abbiamo definito largamente sessuofoba, l’istituzione di un tempio in cui le prostitute sacre svolgessero la loro attività appare inconcepibile e non è un caso che l’idea di prostituzione venisse, in tutta la letteratura patristica, legata a Babilonia, ma se vogliamo davvero comprendere il senso di tale istituzione non possiamo fare a meno di riferirla ad un ambito sacrale, profondamente legato al rapporto simbolico con il divino.

In quest’ottica, vediamo chi fossero le “sacre prostitute” e come si svolgesse il loro compito (che, per molti tratti, era il medesimo in istituzioni analoghe o derivate in Egitto, a Creta, in India e persino in Grecia e nella Roma arcaica).

Di fatto esse erano sacerdotesse sacre (il termine “prostitute” nascerà solo dal diffondersi di quelle religioni che negheranno, per altro con notevoli influssi dalla filosofia gnostica, la divinità del corpo) che si prestavano ad incarnare e rappresentare la dea in un ambito strettamente sacralizzato e “altro” rispetto al resto del mondo come quello del tempio.

All’interno del tempio, avveniva uno scambio cultuale tra sacerdotessa e “cliente” sotto la supervisione di Ishtar: le donne andavano al tempio per servire la Dea incarnandola e venire adorate in sua vece, decidendo di trascorrervi una giornata o una settimana o un anno in puro spirito di servizio, mentre gli uomini venivano accolti e serviti dalle sacerdotesse prestandosi a rappresentare Baal, il principio divino maschile, il Consorte, il toro sacro, dando il loro amore e la loro passione alla dea e ricevendo la passione, l’amore e l’affetto della Dea(14).

Il “pagamento” altro non era che l’offerta di prodotti e denaro alla dea e non una contropartita per la “fornicazione” con le prostitute del tempio, come è stato erroneamente interpretato successivamente.

Nel suo libro  The Secret of Crete, H.G. Wunderlich riferisce che prima del matrimonio, ogni donna in Babilonia era tenuto ad andare al tempio di Ishtar e di giacere con uno sconosciuto (15) e abbiamo un rapporto simile da Gerhard Herm nel suo libro I Fenici (16), nel quale si spiega come venisse richiesto ad ogni donna nelle città cananee di Tiro, Sidone e Biblo di prostituirsi per un giorno e donarsi agli ospiti stranieri durante la festa di primavera (17).

Seppure questa attività “forzata” che  includeva gli “stranieri” (quindi anche gli Ebrei e i proto-Cristiani) venisse duramente stigmatizzata nell’antichità (18) essa ci dà a pieno la cifra interpretativa del culto sessuale, che risulta completamente disgiunto da qualsiasi forma di volontà di piacere fisico sia da parte degli uomini che, soprattutto, da parte delle donne, ma che si poneva come “atto di glorificazione” della dea nel suo aspetto generativo e di “amore per tutto il creato”.

E sulla sacralità di tutto il processo non può esservi dubbio alcuno: le sacerdotesse a vita appartenevano a una gerarchia organizzata, registrata in modo accurato da parte dei babilonesi e alla cui sommità vi erano le sacerdotesse chiamate “Entu”, le quali indossavano abiti speciali per distinguersi dalle altre, abiti cerimoniali molto simili a quelli del re e che conferivano loro una dignità pari a quella dei più importanti sacerdoti maschi. Accanto a loro vi erano le “Naditu”, provenienti dalle più importanti famiglie del paese, che promettevano di dedicare la loro vita alla dea rimanendo celibi e senza figli, le “Qadishtu”, donne sacre che servivano il tempio per un certo periodo senza voti particolari e le “Ishtaritu”, donne specializzate nelle arti della danza, della musica e del canto che esprimevano la loro sessualità soprattutto ballando una versione molto sensuale della danza del ventre (da cui deriverà il seguito la famosa “danza dei sette veli”) (19).

Infine, vi erano le donne comuni che, già a detta di Erodoto, almeno una volta nella vita dovevano “sedere nel tempio dell’amore e avere rapporti sessuali con uno sconosciuto [... cosicché] gli uomini passano e fanno la loro scelta. Non importa quale sia la somma di denaro che essi offrono: la donna non potrà mai rifiutare, perché compirebbero un peccato visto che il denaro è solo [un accessorio] che rende questo atto sacro. Dopo il rapporto esse si sono santificate agli occhi della dea e se ne vanno a casa loro, e, in seguito, non c’è pagamento per quanto grande, con le quali le si possa ottenere“ (20).

Va notato come l’unica “censura” o “biasimo” a cui le sacerdotesse, in particolare le “Qadishtu”, potevano andare incontro riguardava non tanto la sfera sessuale, ma la sfera socio-comportamentale derivata dalla loro permanenza al tempio.  Bisogna comprendere che le sacerdotesse di Ishtar erano, per molti versi, delle donne più libere socialmente, più inserite economicamente e più avanzate culturalmente rispetto alla media (insomma, qualcosa di simile a quanto avverrà per le geishe giapponesi o le cortigiane rinascimentali): potevano comprare, vendere, dare in locazione, investire denaro, parlare liberamente con chiunque, studiare ed essere ritenute al pari degli uomini. Ebbene, una volta tornate a casa, difficilmente sapevano riadattarsi ad un ruolo sottomesso e, di conseguenza, alcuni tardi testi sumeri sconsigliano vivamente di prendere in moglie una ex-sacerdotessa, perché essa sarebbe stata “non solo troppo abituata ad aver a che fare con gli uomini, ma anche antipatica e intrattabile  (21)”.

Proviamo a trarre le file di quanto visto fino ad ora.

L’atto sessuale compiuto dalle “prostitute sacre” di Ishtar è un atto sacro a tutti gli effetti, in cui esse ricordano e attualizzano la presenza della dea madre nel suo aspetto legato alla femminilità generativa e in cui l’uomo assume connotazioni paritetiche di offerta dell’atto agli dei. Tale atto viene a denotarsi come elemento di perpetuazione del ciclo naturale di rinascita della natura e, conseguentemente, come atto simbolico che rinnova la fertilità della terra (non a caso la più importante festività sacra dell’anno prevedeva il congiungimento ogni primavera della Gran Sacerdotessa di Ishtar e del re, a simboleggiare l’atto ierogamico di unione di Baal, principio maschile e Ishtar, principio femminile), così come tipico di una civiltà che, pur nel suo evolversi, è sempre rimasta legata all’agricoltura e ai cicli naturali (con la loro fase generativa, ma anche con le loro fasi distruttive, da cui il “volto negativo” di Ishtar).

La sessualità, dunque, altro non è che il nucleo significante secondario rispetto alla questione più profonda della capacità riproduttiva della Dea Madre, una capacità sacralizzata che assume un ruolo primario nella società contadina e che viene attualizzata simbolicamente nel congiungimento tra uomo e donna.

Da qui derivano le caratteristiche più interessanti della “prostituzione sacra”:

1) l’altissimo ruolo delle sacerdotesse, che impersonando la dea, diventano esse stesse concausa della generatività globale su cui si basa la vita della comunità;

2) il senso del “pagamento” della prestazione sessuale, che si configura come apporto di lavoro maschile per tale generatività;

3) l’importanza attribuita all’accettazione “in qualunque caso” del “cliente”, indipendentemente da chi egli sia e da quale cifra offra, che sta a rappresentare l’universalità dei doni della dea all’umanità e la sua capacità generativa indipendentemente dal principio maschile;

4) l’usanza, sempre con un significato di universalità di doni a tutto il genere umano, da parte delle sacerdotesse di donarsi agli stranieri;

5) la necessità per ogni donna di passare almeno un giorno nel tempio e di accoppiarsi almeno una volta con uno sconosciuto, ad esemplificare e attualizzare sì il senso e il potere del femminino sacro, ma, soprattutto, a ribadirne la forza e la pregnanza alla quale nessuna si può e deve sottrarre, pena l’insenilimento del genere umano.

Ecco allora che la “prostituzione sacra” si rivela, in fondo, un grande atto di potenza proprio dell’elemento femminino sacrale, della archetipica capacità procreativa di cui ogni donna è portatrice e che nessuna donna può negare nel quadro della perpetuazione dei cicli naturali e della specie umana.

Solo laddove la maternità verrà sublimizzata o asetticizzata (a seconda dei punti di vista) in pura idea indipendente dal concreto atto inseminante, tutto ciò potrà apparire solo una “brutalizzazione” di concetti superiori, ma si tratterà di società molto differenti, forse con una capacità di astrazione più forte dovuta ad un minor contatto con la natura, ma anche con l’eliminazione proprio di quel tratto divino e regale che caratterizza l’entità femminile lunare all’interno di sistemi teologici più legati ai cicli della terra.


Note

[1] K. Reilly, Readings in World Civilizations: The Development of the Modern World, St Martins 1995, pp. 93 ss. e passim

[2] V. Schomp, Ancient Mesopotamia: The Sumerians, Babylonians, And Assyrians, CT Press 1995, passim

[3] J. Bottero, T. Lavender Fagan, Religion in Ancient Mesopotamia, University Of Chicago Press 2004, passim

[4] S. N. Kramer, The Sumerians: Their History, Culture, and Character, University Of Chicago Press 1971, pp. 119 ss.

[5] J. Black, A. Green, Gods, Demons and Symbols of Ancient Mesopotamia: An Illustrated Dictionary, University of Texas Press 1992, pp. 22-25

[6] S. Dalley, Myths from Mesopotamia: Creation, the Flood, Gilgamesh, and Others, O.U.P. 2001, pp. 36-41

[7] S. Langdon, Tammuz and Ishtar: a monograph upon Babylonian religion and theology containing extensive extracts from the Tammuz liturgies and all of the Arbela oracles, Nabu Press, 2010, pp. 21-96 passim

[8] A. Frandi-Coory, Whatever Happened to Ishtar?, Sid Harta Publishing 2010, passim

[9] AA.VV., Ancient Near East Law; Code of Hammurabi, Babylonian Law, Maat, Code of Ur-Nammu, Lipit-Ishtar, Laws of Eshnunna, Cuneiform Law, Hittite Laws, LLC Books 2009, pp. 58-61

[10] A. Frandi-Coory, Citato, pp. 87 ss.

 [11] Z. Bahrani, Women of Babylon: Gender and Representation in Mesopotamia, Routledge 2001, passim.

[12] C. Kenney, Hammurabi’s Code, Simon & Schuster 1995, pp. 61 ss. e passim.

[13] D. Wolkstein, S.N. Kramer, Inanna, Queen of Heaven and Earth: Her Stories and Hymns from Sumer, Harper Perennial 1983, p. 74

[14] N. Qualls-Corbett, M. Woodman, The Sacred Prostitute: Eternal Aspect of the Feminine, Inner City Books 1988, pp. 37 ss.

[15] HG. Wunderlich, The Secret of Crete, Souvenir Press Ltd, 1975, pp, 61-63

[16] G. Herm, The Phoenicians, Littlehampton Book Services Ltd 1975, pp. 42 ss.

[17] Si noti come questa festa sopravviva oggi con il nome di “Pasqua”, che è derivato proprio dalla parola “Ishtar”

[18]Nel III secolo d.C., ad esempio, lo storico Eusebio descrisse l’attività di questi templi così: “E’ stata una scuola di empietà per gli uomini dissipati, che rovinavano i loro corpi nel perseguimento della lussuria Gli uomini erano molli ed effeminati, non erano più degli uomini, avevano tradito l’onore del loro sesso; credevano di dover adorare il loro dio con la lussuria impura“. Eusebio, Chronicon, V. III

[19] K.R. Nemet-Nejat, Daily Life in Ancient Mesopotamia, Greenwood Press 1998, passim

[20] Erodoto, Storie, V. II

[21] K.R. Nemet-Nejat, Citato, pp. 109 ss.


Fonte: da  srs di Lawrence Sudbury da Centro Studi La Runa  del 17/27 gennaio 2011

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