venerdì 23 settembre 2011

ALFONSO VALLICELLA. DA SOLO CONTRO LA MONTAGNA

Il  campione del mondo Alfonso Vallicella

È stato il primo Campione mondiale di corsa in montagna, ma Alfonso Vallicella ha sempre corso pensando alla sua Lessinia, alla sua passione per l’allevamento. La storia toccante  di un solitario arrivato solo con la sua fatica sul tetto del mondo.

Come un falco pellegrino che sorvola le vette più alte, così anche Alfonso Vallicella ha lo sguardo e l'umiltà di chi la montagna non solo l'ha vissuta, ma la porta dentro, come un gioiello prezioso.
Ha una grande passione Alfonso, quella dell'allevamento di mucche, che porta avanti da quando era ragazzino e per la quale si sveglia ogni mattino alle tre e mezzo. Ma il suo nome è scritto nella storia della corsa in montagna. Una disciplina dura, aspra come i sentieri che percorre, fatta di fatica, sacrificio e passione.

Ed è proprio lui, Alfonso di Ronconi (S. Anna d'Alfaedo), soprannominato per la sua forza "il camoscio della Lessinia", che vinse nel 1985 (San Vigilio di Marebbe) il primo Campionato mondiale di questa disciplina, bissando il successo nel 1986 (Morbegno, Sondrio) e cogliendo un leggendario tris nel 1988 (Keswick, Inghilterra), nell'epoca in cui la corsa in montagna era alla pari, come visibilità, con quello che ora è il seguitissimo sci da fondo.
La storia di Alfonso Vallicella è davvero una storia di montagna, è pregna di quello spirito di sacrificio che solo questa gente sa portare sulle spalle senza caricarsi di doti eroiche. «Cominciai a correre a quattordici, quindici anni partecipando a corse non competitive» racconta Alfonso dagli occhi penetranti, azzurri come il cielo. «Fu importante la passione che aveva mio padre nel vedermi correre. Era sufficiente mi allenassi perché sul suo volto apparisse un sorriso. Alla prima corsa mi iscrissi con mio fratello». Ma la prima gara fu una sconfitta: «arrivai indietro, volevo smettere ancora prima di cominciare». In quel caso, come capitò altre volte, le persone vicine lo convinsero che quella era la strada da  sguire, e così ci riprovò una, due volte fino a quando non vinse la gara competitiva al Passo delle Fittanze, tra gli occhi sbigottiti dei presenti: «Non ero nessuno. Quando mio fratello mi iscrisse disse a tutti che probabilmente avrei vinto. Gli organizzatori lo presero per matto, ma poi vennero a complimentarsi».

Era l'estate del 1975, e subito venne ingaggiato per correre, ma Alfonso correva per passione, non voleva abbandonare la sua montagna. «Il mio lavoro era l'allevatore, la corsa era il mio passatempo. La voglia di correre, di fare bene, era quello che mi teneva acceso, ma ero un solitario. Mi allenavo da solo e correvo solo, contro tutti».

Alfonso, ci fu una persona che all'inizio credette più d'ogni altra in lei?
Fu Sergio Pennacchioni. Era il direttore sportivo del Gruppo Amici del Carega, per cui correvo. Aveva una costanza nel seguirmi e una fiducia nelle mie capacità che più e più volte mi fecero desistere dal mollare tutto. Mi allenavo sempre da solo, lui veniva su a Ronconi al tramonto ad aspettare che finissi di lavorare per farmi allenare o per portarmi alle gare. Mi diceva «Non mollare ora Alfonso, un giorno, quando non avrai più la possibilità, ti verranno in mente questi giorni e ti dispiacerà di non averci provato». Ma io ero giovane, mi sembrava di avere in mano il mondo, e solo oggi posso riconoscere quanto avesse ragione. In pochi, in questi anni, hanno parlato di lui, ma fu un grande uomo, quasi un secondo padre per me.
Lei riuscì a vincere il Mondiale per tre volte, nel 1985, 1986 e 1988. Ma quale fu l'emozione di conquistare il primo oro della storia?
Quando partecipai al Mondiale nel 1985 per me fu un evento. Vincere fu quasi naturale, corsi come sapevo fare, con le forze che avevo. Non feci ritiri o diete speciali, ma mi allenai da solo per i monti della Lessinia per un mese fino al giorno della gara. Quando arrivai al PIan de Corones per primo ebbi un tuffo al cuore, tutto si fermò. Per un attimo mi sembrò di essere diventato qualcuno. Quando tornai a casa trovai bandiere e incontrando parenti e amici, compreso mio padre, sulla porta festanti, fu molto emozionante.

Corsa in montagna, forse la disciplina più faticosa al mondo. Ci sono stati dei momenti difficili?
Molti. Se non ci fosse stato chi credeva in me avrei smesso prima di iniziare. Nel 1987 persi il Mondiale in Svizzera perché accettai di andare in ritiro con la Nazionale prima della gara. Mi mancò casa, mi mancò la montagna di casa, e in gara mi piantai. Fu una delusione immensa perché ero il favorito venendo da due titoli consecutivi. Altrettanto cocente fu la sconfitta nella Fosse-Corno d’Aquilio valida per il Campionato italiano. Correvo in casa, la gente era là per me. Fallii clamorosamente. Avrei voluto nascondermi dalla vergogna.

Quali sono le sensazioni che si provano in queste gare?
È una disciplina che richiede grande sforzo fisico, ma anche mentale. Si raggiunge un livello di fatica così elevato che anche la nostra mente a volte si rifiuta di accettarlo. Si arrivava sempre in apnea, ma negli anni d’oro sarei stato disposto a morire pur di non mollare. I primi anni, infatti, non avevo paura di niente, più la gara era dura e più mi andava bene. Al Mondiale del 1985 salii da San Vigilio di Marebbe al Plan de Corones, circa 15km, in un’ora.

Lei era un solitario, diceva che raramente seguì diete o partecipò a ritiri. La corsa in montagna era espressione della sua particolare solitudine?
Assaporavo la liberà in quello che facevo. Impormi di fare questa o quella cosa sarebbe stato un controproducente per me. La corsa era un diversivo. Certo, se avessi gareggiato allora con la testa di adesso forse sarei andato oltre, avrei fatto ancora meglio. Avrei fatto l’atleta.

Cosa le è rimasto di quel periodo?
Corro ancora, non posso smettere perché è un po’ come se facesse parte del mio DNA. Ho passato degli anni bellissimi, porto con me tanti ricordi felici, e non posso dimenticare che ho conosciuto mia moglie Cristina grazie a questa disciplina. Anche lei atleta di questo sport.

Chiudiamo con un aneddoto, un ricordo simpatico che porta con sé..
Erano i Mondiali del 1986 a Sondrio. Mostacchetti, ex atleta della Forestale, mi vide in preparazione alla gara. Tutti seguivano la dieta della squadra e mi disse: «dove vai con quella pancetta?» ironizzando sulla mia dieta tutt’altro che atletica. Vinsi e diventai per la seconda volta Campione del Mondo, e Mostacchetti fu il primo a complimentarsi.

Fonte: srs di Matteo Scolari e Matteo Bellamolli; da Pantheon di giugno 2011

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