A sostenerlo fu Matteo, figlio del deputato socialista, in
un’intervista del 1985 a Marcello Staglieno che – alla presenza di Carlo
Matteotti, fratello di Matteo, e di Pietro Amendola, figlio di Giovanni - in
contraddittorio con gli storici Giovanni Sabbatucci, Mauro Canali, Matteo
Pizzigallo e Aldo Alessandro Mola nella trasmissione televisiva Enigma, venerdì
2 maggio su Raitre, ribadirà questa clamorosa tesi, approfondita con nuovi documenti
inediti nel suo ultimo libro (nella foto) , Arnaldo e Benito. Due fratelli (610
pagine, 20 euro) a giorni in vendita nei tipi di Mondadori. Pubblichiamo uno
stralcio del capitolo dedicato a quel delitto, a tutt’oggi oscuro.
La mattina del 12 giugno 1924, sui giornali di tutt’Italia, comparve il
primo annuncio della scomparsa di Giacomo Matteotti, rapito due giorni prima
sul Lungotevere Arnaldo da Brescia in Roma, poco lontano dalla sua abitazione
al numero 21 di via Pisanelli, da una banda di squadristi (la Ceka del
Viminale) composta da Amerigo Dumini, Giuseppe Viola, Augusto Malacria, Albino
Volpi e Amleto Poveromo. Cominciò per il fascismo la più grave delle crisi.
Soprattutto dopo il ritrovamento della salma (il 16 agosto nel bosco della Quartarella
a 23 chilometri da Roma) molti fascisti si tolsero il distintivo
dall’occhiello, strapparono le tessere e la pubblica opinione prese a guardare
con simpatia le opposizioni che, con sconsiderato autolesionismo, avevano però
abbandonato la Camera nella sterile “secessione aventiniana”.
I dubbi di De
Felice sulla colpevolezza del “duce”. Secondo la vulgata della storiografia
postbellica, il mandante del delitto fu Mussolini, come anche sostiene Mauro
Canali nel suo ampio saggio Il delitto Matteotti (Il Mulino 1997). Il 31 maggio
- dopo un acceso intervento del deputato socialista alla Camera contro il clima
di violenza in cui si erano svolte le elezioni del 6 aprile conferendo la
maggioranza al “listone” fascista – il “duce” era furente. “Cosa fa questa Ceka?
Cosa fa Dumini? Quell’uomo non dovrebbe più circolare…”, pare avesse detto. Renzo De Felice tuttavia mai
credette che fosse il mandante del delitto.
La tesi di una
“lezione” da dare a Matteotti (morto all’improvviso per le percosse durante il
rapimento come verrà sostenuto durante un processo-farsa a Chieti nel 1926) gli
parve controproducente per Mussolini, “troppo buon tempista, troppo buon
politico per non rendersene conto. “È possibile pensare che, se anche avesse
impartito l’ordine, in undici giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non
si sarebbe reso conto delle conseguenze politiche di un simile atto?”.
Mussolini aveva fatto bastonare Giovanni Amendola e Piero Gobetti, ma non era
un assassino: ne era convinto lo stesso Benedetto Croce che, il 24 giugno, fu
il promotore del voto di fiducia al governo. Per di più, precisava De Felice,
Mussolini si stava apprestando a un’apertura a sinistra, in un governo lib-lab
in cui portare il “popolare” Filippo Meda alle Finanze; Argentina Altobelli
all’Agricoltura; il genovese Lodovico Calda (amministratore del quotidiano
socialista “Il Lavoro”) o il sindacalista Alceste De Ambris all’Assistenza
sociale; e addirittura lo stesso Amendola, qualora avesse accettato,
all’Istruzione. Né vi avrebbe escluso i confederali della CGdL (Confederazione
Generale del Lavoro) per staccarli dai comunisti com’era risultato evidente, il
7 giugno 1924, dal suo discorso alla Camera.
Tangenti sul
petrolio a importanti uomini del fascismo. Sempre secondo De Felice, il movente del
delitto doveva essere un altro: sopprimere Matteotti per sottrargli documenti
da lui raccolti, e che avrebbe divulgato l’11 giugno alla Camera, su loschi
affari petroliferi che coinvolgevano influentissime personalità del fascismo
cui una società petrolifera americana, la Sinclair, aveva versato “tangenti”
pari a 150 milioni per ottenere in esclusiva i diritti delle ricerche in
Italia. Essi erano: Emilio De Bono, comandante della PS e della MVSN (Milizia
Volontaria per la Sicurezza Nazionale); il sottosegretario agli Interni Aldo
Finzi (destinato a morire alle Fosse Ardeatine); il segretario amministrativo
del PNF Giovanni Marinelli (finirà fucilato il 13 gennaio 1944 a Verona con gli
altri “traditori” del 25 luglio 1943, lo stesso De Bono, Ciano, Gottardi e
Pareschi); il capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio Cesare Rossi;
il giornalista Filippo Filippelli, direttore del “Corriere italiano”
(controllato nell’assetto proprietario da Finzi). Per di più, uccidendo il
deputato socialista, essi avrebbero impedito quell’”apertura a sinistra” che li
avrebbe comunque travolti.
Il movente
secondo Matteo Matteotti: il re e la Sinclair. Seguendo questa
duplice pista, Matteo Matteotti ebbe via via nuovi elementi, sulla cui base
finì per convincersi che il principale mandante del delitto, attraverso De
Bono, poteva essere il re, per via d’interessi petroliferi correlati sempre al
gruppo Sinclair. Nell’intervista che, grazie a De Felice, mi rilasciò nel
novembre 1985 per “Storia Illustrata”, mi spiegò che ricevette da Giancarlo
Fusco un articolo da questi pubblicato il 2 gennaio 1978 su “Stampa sera”.
Precisandomi:
“Nell’autunno del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta raccontò a un gruppo di
ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra [del viaggio
riferirono i giornali dell’epoca] dove fu ricevuto, come massone d’alto
grado, dalla Loggia The Unicorn and the Lion. E venne casualmente a sapere
che in un certo ufficio della Sinclair, ditta americana associata all’Anglo
Persian Oil, la futura BP, esistevano due scritture private. Dalla prima
risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel register degli
azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda risultava l’impegno
del re a mantenere il più possibile ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan
tripolino e in altre zone del retroterra libico”. In relazione alla prima
scrittura privata, Matteo Matteotti aggiunse che essa faceva comprendere come
fosse “passato” tanto rapidamente il RDL sullo sfruttamento da parte della Sinclair
del petrolio reperibile nel territorio italiano, in Emilia e in Sicilia. Si
trattava del RDL n.677, in data 4 maggio 1924,nel quale l’articolo primo
afferma: ‘È approvata e resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di
atto pubblico, numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il
ministero dell’Economia nazionale [presieduto da Corbino] e la Sinclair
Exploration Company’. Le firme sono quattro: Vittorio Emanuele, Corbino, De
Stefani, Ciano”.
Una clausola del
1923: non cercare petrolio in Libia.
I contenuti
dell’accordo – noto come “convenzione Sinclair -Corbino” - erano stati
ampiamente enfatizzati il 15 maggio da un perentorio comunicato della
presidenza del Consiglio, ovvero redatto da Rossi (mentre Mussolini stava
inaugurando in Roma la conferenza internazionale sull’emigrazione dopo aver
trascorso l’ultima settimana in Sicilia), e poi illustrati, il 16 maggio, sul
“Corriere italiano” da quella buona lana, si fa per dire, di Filippelli.
Tuttavia, nonostante la firma del re, Mussolini – che già nel febbraio 1924 pur
aveva avocato a sé ogni decisione in proposito - congelò tutto. E il 20
novembre 1924 incaricherà una Commissione che, valutati attentamente i termini
dell’accordo con la Sinclair, il 4 dicembre lo invaliderà totalmente anche per
uno scandalo che, negli Usa, stava per travolgerne il titolare, Harry Sinclair.
Era poco esperto di petrolio, Mussolini: si fidava di quanto scriveva lo stesso
Luigi Einaudi (sulla convenienza di comprare l’”oro nero” all’estero piuttosto
che spendere milioni per cercarlo): perciò non lo insospettì una singolare
clausola apposta in una relazione governativa del 19 luglio1923 dove, pur
invocando la necessità di effettuare trivellazioni nelle Colonie, escludeva
proprio la Tripolitania.
Un delitto premeditato
e le prove su De Bono. “De Bono volò da Vittorio Emanuele III” mi disse
Matteo Matteotti “a raccontargli quanto Matteotti aveva scoperto, e i due si
accordarono sulla necessità di ucciderlo anziché bastonarlo soltanto e di
asportare dalla sua borsa i famigerati documenti. L’8 giugno De Bono convinse
Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una somma di denaro, e due giorni dopo
Matteotti fu rapito e assassinato. Né si sentì più parlare dei documenti
riguardanti il patto fra il re e la Sinclair. Mio padre venne ucciso in modo
premeditato con tre colpi di lima da Amleto Poveromo. Me lo confessò, piangente
e pentito, Poveromo in persona nel carcere di Parma dov’ero andato a trovarlo
nel gennaio 1951, poco prima della morte di lui. Mio padre aveva con sé quei documenti, che
sparirono nel nulla”. Essi vennero presi in consegna da Dumini (lo dichiarerà
lui stesso ai giudici nel secondo processo a Roma l’8 febbraio 1947) e finirono
in mano di De Bono, come dimostra il testo registrato di una conversazione telefonica
di questi con il questore di Roma, Bertini, la sera del 12 giugno subito dopo
l’arresto, nella stazione della capitale, dello stesso Dumini.
Un’ulteriore
prova in tal senso la fornì De Felice, pubblicandola.
Essa consiste in
una “riservatissima” relazione di polizia consegnata allo stesso De Bono il 14
giugno 1924, ma con il tono di comunicargli cose che lui già conosceva. Lo informava del
fatto che “l’on. Turati sarebbe in possesso di parte dei documenti originali e
di parte delle fotografie di altri che possedeva il Matteotti e riguardanti
affari diversi (’Sinclair’; speculazioni borsistiche; case di giuoco ed un
‘affare’ di Udine)”, aggiungendo che “il Comm. Filippelli – del “Corriere
italiano” avrebbe concorso alla soppressione del Matteotti volendo rendere un
servizio a S.E.Finzi ed al Fascismo”.
La vera colpa di
Mussolini: il processo-farsa del 1926. Informato del delitto da De Bono l’11
giugno: “Stanno gettandoti addosso le responsabilità”, Mussolini rispose:
“Questi vigliacchi mi vogliono ricattare!”.
Il ricatto
consisteva nell’impedirgli proprio quel nuovo governo di svolta a sinistra , mettendolo alla
mercè dell’estremismo squadrista che lui intendeva liquidare, ma sul quale
invece avrebbe dovuto almeno temporaneamente riappoggiarsi per non essere
spazzato via dalle opposizioni e dalla pubblica opinione. Il 14 giugno destituì
Rossi e Finzi, costrinse alle dimissioni Corbino.
Quanto a De Bono
- ”quadrumviro”, senatore e troppo vicino al re - non poté
liberarsene del tutto, ma lo esautorò da ogni incarico. La sua colpa sta
nell’avere tollerato il processo-farsa istruito a Chieti dal 16 al 24 marzo
1926: Dumini, difeso da Farinacci, ebbe con Volpi e Poveromo 5 anni, 11 mesi e
20 giorni di reclusione, di cui 4 anni condonati per amnistia, mentre Malacria
e Viola furono assolti. Parimenti assolto, ma da una commissione istituita in
Senato, fu De Bono. Delle carte di Matteotti, nessuna traccia.
Un documento di
Matteotti ritrovato dal figlio nel 1978. Tra queste carte, mi precisò ancora Matteo Matteotti,
c’era verosimilmente il testo manoscritto, su carta intestata della Camera dei
Deputati, di un suo articolo pubblicato sulla rivista romana “Echi e Commenti”
del 5 giugno 1924, ma in edicola due giorni dopo.
“L’articolo” mi
disse “contiene riferimenti, brevissimi, a bische e petroli. Ne ignoravo
l’esistenza. Due mesi dopo l’uscita dell’articolo di Fusco, giornalista che a
volte le sparava grosse ma che in questo caso nessuno s’è mai peritato di
smentire, ecco saltare fuori quello scritto di mio padre.
Con una
procedura a dir poco singolare, me lo fece trovare nel marzo 1978, dentro un
tubo di stufa in aperta campagna a Reggello presso Firenze, un anziano mutilato
di guerra, Antonio Piron. Senza
essere sino in fondo esplicito, mi disse che gliel’aveva consegnato un
ex-partigiano, ch’era a Dongo il 27-28 aprile 1945″. Matteo Matteotti mi pregò
di omettere dall’intervista questo particolare che pure precisò, nel novembre
1985 a Segrate, anche a Giordano Bruno Guerri, allora direttore di “Storia illustrata”.
E aggiunse: “Ciò mi convinse del fatto che quel manoscritto doveva essere nella
grossa busta che, con le compromettenti carte di cui ho detto, mio padre (mia
madre Velia se ne ricorda benissimo) aveva con sé al momento del rapimento”. Matteo Matteotti – deputato costituente,
parlamentare dl PSDI di Saragat e più volte ministro - esercitò al possibile la
propria influenza per ulteriori indagini. Ai primi del novembre 1985 – sempre in
presenza di Giordano Bruno Guerri - aggiunse particolari che non mi aveva
precisato: e cioè la verifica di persona, recandosi a Londra in quel 1978,
sulla veridicità di quanto aveva scritto Fusco ( e poi ribadito da Giorgio
Spini in un articolo, di cui già m’aveva consegnato il testo, inviato alla
“Stampa” ma mai pubblicato). Quanto alle carte del padre, sempre gli rimnasero
irreperibili.
La sparizione
delle carte Matteotti il 28 aprile 1945 a Dongo. Esse però
esistevano, senz’ombra di dubbio. In proposito ci sono una testimonianza
indiziaria e una prova fotografica. La testimonianza me la rilasciò
(incidentalmente: ero andato a trovarlo a Bergamo nel 1975 a proposito di
Galeazzo Ciano) Alessandro Minardi. Egli era stato l’unico giornalista ammesso
alle udienze del processo di Verona (8-10 gennaio 1944) contro i “traditori del
25 luglio”: mi disse nel 1975 che i due fascicoli sul delitto Matteotti,
rinvenuti in una grossa borsa di Mussolini al momento dell’arresto (27 aprile
1945), erano verisimilmente quelli sottratti da De Bono. Questi, a sua volta
arrestato il 4 ottobre 1943 – secondo una confidenza di Pavolini allo stesso
Minardi, che per l’appunto me la riferì nel 1975 – aveva preso con sé i
suddetti documenti di Matteotti. E, nell’inutile tentativo di salvarsi la vita,
li avrebbe consegnati a Mussolini: nella cui borsa, a Dongo, furono comunque
rinvenuti. E ora la prova: essa consiste
nella fotografia del verbale di consegna di quei due dossier sul delitto
Matteotti: una fotografia (poi pubblicata sul “Tempo illustrato” il 16 giugno
1962) che funzionari della prefettura di Milano il 2 maggio 1945 pretesero
dagli emissari governativi che avevano chiesto gli stessi dossier. Essi però
mai sono stati versati, come gli altri che Mussolini aveva con sé, all’Archivio
centrale dello Stato. Scrisse De Felice: “Senza esito sono riuscite le ricerche
da noi [cioè De Felice] compiute al ministero degli Interni per rintracciarli”.
In definitiva, sparirono.
Un mistero che
dura da 58 anni. Quali sono i motivi di tale occultamento che quasi equivale,
per Mussolini, a un “mandato di non colpevolezza”? Perché, infatti,
quelle carte sparirono? E perché mai continuano a essere irreperibili? Per
coprire che cosa, e chi? Ipotizzando ch’esse contengano elementi di condanna
per Mussolini quale mandante del delitto, perché non sono allora saltate fuori?
E perché almeno oggi il governo non si decide a renderle note? Infine, se non
le si trova, chi ebbe interesse a occultarle, forse a distruggerle?
Seppellendole alle Botteghe Oscure, a “silenziarle” fu forse il ministro della
Giustizia Palmiro Togliatti, l’uomo che addirittura, con la complicità di
Giulio Einaudi, volle censurare l’opera di Gramsci? Oppure esse vennero fatte
pervenire a Umberto di Savoia (assieme al dossier che lo riguardava, intitolato
a “Stellassa” e alle privatissime sue faccende sessuali, rinvenuto in un’altra
borsa di Mussolini)? Sono tutte domande
che attendono risposta: su quel delitto i lati oscuri continuano a essere
troppi.
Fonte: visto su Informare
del 20 agosto 2013
CASO MATTEOTTI, IL RE ORDINÒ: CORREGGETE IL CERTIFICATO DI
MORTE
Il re Vittorio Emanuele III nell'ottobre del 1925 chiese al
Comune di Riano di rettificare errori materiali nell'atto di morte di Giacomo
Matteotti il cui corpo fu rinvenuto proprio a Riano il 16 agosto del 1924.
I documenti sono stati ritrovati da Italo Arcuri, assessore
alla cultura del Comune, giornalista e autore del libro "Il corpo di
Matteotti". Si tratta di documenti inediti conservati nell'archivio
storico di Riano. Documenti che, ha annunciato Arcuri, saranno inviati al
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
La notizia arriva proprio quando sono in corso le
commemorazioni del parlamentare assassinato: ieri una delegazione comunale di
Fratta Polesine, dove Matteotti nacque il 22 maggio 1885, ha fatto visita al
monumento a Quartarella di Riano e oggi sarà ricevuta dal presidente della
Camera, Laura Boldrini, e da Papa Francesco.
Fonte: visto su Il Messaggero.it
di martedì 1 ottobre 2013
Link: http://www.ilmessaggero.it/ROMA/CRONACA/riano_re_vittorio_emanuele_matteotti/notizie/333555.shtml
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