Il blog di http://domenicolosurdo.blogspot.it
, 4 settembre 2013
Nella storia dell’industria della menzogna quale parte
integrante dell’apparato industriale-militare dell’imperialismo il 1989 è un
anno di svolta. Nicolae Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come
rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra la
popolazione romena le informazioni e le immagini del «genocidio» consumato a
Timisoara dalla polizia per l’appunto di Ceausescu.
1. I cadaveri mutilati
Cos’era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell’analisi di
Debord relativa alla «società dello spettacolo», un illustre filosofo italiano
(Giorgio Agamben) ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si
tratta:
«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri
appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati
dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il
genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva
in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità;
e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia
autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che
il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così
verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava
unicamente mediante lo spettacolo.
Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società
dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile
scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile
guardare uno schermo televisivo nello stesso modo» (Agamben 1996, p. 67).
Il 1989 è l’anno in cui il passaggio dalla società dello
spettacolo allo spettacolo come tecnica di guerra si manifestava su scala
planetaria. Alcune settimane prima del colpo di Stato ovvero della «rivoluzione
da Cinecittà» in Romania (Fejtö 1994, p. 263), il 17 novembre 1989 la
«rivoluzione di velluto» trionfava a Praga agitando una parola d’ordine
gandhiana: «Amore e Verità». In realtà, un ruolo decisivo svolgeva la
diffusione della notizia falsa secondo cui uno studente era stato «brutalmente
ucciso» dalla polizia. A vent’anni di distanza lo rivela, compiaciuto, «un
giornalista e leader della dissidenza, Jan Urban», protagonista della manipolazione:
la sua «menzogna» aveva avuto il merito di suscitare l’indignazione di massa e
il crollo di un regime già pericolante (Bilefsky 2009).
Qualcosa di simile avviene in Cina: l’8 aprile 1989 Hu
Yaobang, segretario del PCC sino al gennaio di due anni prima, viene colto da
infarto nel corso di una riunione dell’Ufficio Politico e muore una settimana
dopo. Dalla folla di piazza Tienanmen il suo decesso viene collegato al duro
conflitto politico emerso anche nel corso di quella riunione (Domenach, Richer
1995, p. 550); in qualche modo egli diviene la vittima del sistema che si
tratta di rovesciare. In tutti e tre i casi, l’invenzione e la denuncia di un
crimine sono chiamate a suscitare l’ondata di indignazione di cui il movimento
di rivolta ha bisogno. Se consegue il pieno successo in Cecoslovacchia e
Romania (dove il regime socialista aveva fatto seguito all’avanzata dell’Armata
Rossa), questa strategia fallisce nella Repubblica popolare cinese scaturita da
una grande rivoluzione nazionale e sociale. Ed ecco che tale fallimento diviene
il punto di partenza di una nuova e più massiccia guerra mediatica, che è
scatenata da una superpotenza la quale non tollera rivali o potenziali rivali e
che è tuttora in pieno svolgimento. Resta fermo che a definire la svolta
storica è in primo luogo Timisoara, «l’Auschwitz della società dello
spettacolo».
2. «Reclamizzare i neonati» e il cormorano
Due anni dopo, nel 1991, interveniva la prima guerra del
Golfo. Un coraggioso giornalista statunitense ha chiarito in che modo si è
verificata «la vittoria del Pentagono sui media» ovvero la «colossale disfatta
dei media a opera del governo degli Stati Uniti» (Macarthur 1992, pp. 208 e
22).
Nel 1991 la situazione non era facile per il Pentagono (e
per la Casa Bianca). Si trattava di convincere della necessità della guerra un
popolo su cui pesava ancora il ricordo del Vietnam. E allora? Accorgimenti vari
riducono drasticamente la possibilità per i giornalisti di parlare direttamente
coi soldati o di riferire direttamente dal fronte. Nella misura del possibile
tutto dev’essere filtrato: il puzzo della morte e soprattutto il sangue, le
sofferenze e le lacrime della popolazione civile non devono fare irruzione
nelle case dei cittadini degli USA (e degli abitanti del mondo intero) come ai
tempi della guerra del Vietnam. Ma il problema centrale e di più difficile
soluzione è un altro: in che modo demonizzare l’Irak di Saddam Hussein, che
ancora qualche anno prima si era reso benemerito, agli occhi degli USA,
aggredendo l’Iran scaturito dalla rivoluzione islamica e antiamericana del 1979
e incline a far proseliti nel Medio Oriente. La demonizzazione sarebbe
risultata tanto più efficace se al tempo stesso si fosse resa angelica la
vittima. Operazione tutt’altro che agevole, e non solo per il fatto che dura o
impietosa era in Kuwait la repressione di ogni forma di opposizione. C’era
qualcosa di peggio. A svolgere i lavori più umili erano gli emigrati,
sottoposti a una «schiavitù di fatto», e a una schiavitù di fatto che assumeva
spesso forme sadiche: non suscitavano particolare emozione i casi di «serbi
scaraventati giù dal terrazzo, bruciati o accecati o picchiati a morte»
(Macarthur 1992, pp. 44-45).
E, tuttavia… Generosamente o favolosamente ricompensata,
un’agenzia pubblicitaria trovava un rimedio a tutto. Essa denunciava il fatto
che i soldati irakeni tagliavano le «orecchie» ai kuwaitiani che resistevano.
Ma il colpo di teatro di questa campagna era un altro: gli
invasori avevano fatto irruzione in un ospedale «rimuovendo 312 neonati dalle
loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell’ospedale di
Kuwait City» (Macarthur 1992, p. 54). Sbandierata ripetutamente dal presidente
Bush sr., ribadita dal Congresso, avallata dalla stampa più autorevole e
persino da Amnesty International, questa notizia così orripilante ma anche così
circonstanziata da indicare con assoluta precisione il numero dei morti, non
poteva non provocare una travolgente ondata di indignazione: Saddam era il
nuovo Hitler, la guerra contro di lui era non solo necessaria ma anche urgente
e coloro che a essa si opponevano o recalcitravano erano da considerare quali
complici più o meno consapevoli del nuovo Hitler! La notizia era ovviamente
un’invenzione sapientemente prodotta e diffusa, ma proprio per questo l’agenzia
pubblicitaria aveva ben meritato il suo denaro.
La ricostruzione di questa vicenda è contenuta in un
capitolo del libro qui citato dal titolo calzante: «Reclamizzare i neonati»
(Selling Babies). Per la verità, a essere «reclamizzati» non furono soltanto i
neonati. Proprio agli inizi delle operazioni belliche veniva diffusa in tutto
il mondo l’immagine di un cormorano che affogava nel petrolio sgorgante dai
pozzi fatti saltare dall’Irak. Verità o manipolazione? A provocare la
catastrofe ecologica era stato Saddam? E ci sono realmente cormorani in quella
regione del globo e in quella stagione dell’anno? L’ondata dell’indignazione,
autentica e sapientemente manipolata, travolgeva le ultime resistenze
razionali.
3. La produzione del falso, il terrorismo dell’indignazione
e lo scatenamento della guerra
Facciamo un ulteriore salto in avanti di alcuni anni e
giungiamo così alla dissoluzione o piuttosto, allo smembramento della
Jugoslavia. Contro la Serbia, che storicamente era stata la protagonista del
processo di unificazione di questo paese multietnico, nei mesi che precedono i
bombardamenti veri e propri si scatenano una dopo l’altra ondate di
bombardamenti multimediali. Nell’agosto del 1998, un giornalista americano e
uno tedesco «riferiscono dell’esistenza di fosse comuni con 500 cadaveri di
albanesi tra cui 430 bambini nei pressi di Orahovac, dove si è duramente
combattuto. La notizia è ripresa da altri giornali occidentali con grande
rilievo. Ma è tutto falso, come dimostra una missione d’osservazione della Ue»
(Morozzo Della Rocca 1999, p. 17).
Non per questo fa fabbrica del falso entrava in crisi. Agli
inizi del 1999 i media occidentali cominciavano a tempestare l’opinione
pubblica internazionale con le foto di cadaveri ammassati al fondo di un dirupo
e talvolta decapitati e mutilati; le didascalie e gli articoli che
accompagnavano tali immagini proclamavano che si trattava di civili albanesi
inermi massacrati dai serbi.
Sennonché:
«Il massacro di Racak è raccapricciante, con
mutilazioni e teste mozzate. E’ una scena ideale per suscitare lo sdegno
dell’opinione pubblica internazionale. Qualcosa appare strano nelle modalità
dell’eccidio. I serbi abitualmente uccidono senza procedere a mutilazioni [...]
Come la guerra di Bosnia insegna, le denunce di efferatezze sui corpi, segni di
torture, decapitazioni, sono una diffusa arma di propaganda [...] Forse non i
serbi ma i guerriglieri albanesi hanno mutilato i corpi» (Morozzo Della Rocca
1999, p. 249).
O, forse, i cadaveri delle vittime di uno degli innumerevoli
scontri tra gruppi armati erano stati sottoposti a un successivo trattamento,
in modo da far credere a un’esecuzione a freddo e a uno scatenamento di furia
bestiale, di cui era immediatamente accusato il paese che la NATO si apprestava
a bombardare (Saillot 2010, pp. 11-18).
La messa in scena di Racak era solo l’apice di una campagna
di disinformazione ostinata e spietata.
Qualche anno prima, il bombardamento del mercato di Sarajevo
aveva consentito alla NATO di ergersi a suprema istanza morale, che non poteva
permettersi di lasciare impunite le «atrocità» serbe. Ai giorni nostri si può
leggere persino sul «Corriere della Sera» che «fu una bomba di assai dubbia
paternità a fare strage nel mercato di Sarajevo facendo scattare l’intervento
NATO» (Venturini 2013).
Con questo precedente alle spalle, Racak ci appare oggi come
una sorta di riedizione di Timisoara, una riedizione prolungatasi per alcuni
anni. E, tuttavia, anche in questo caso il successo non mancava.
L’illustre filosofo che nel 1990 aveva denunciato
«l’Auschwitz della società dello spettacolo» verificatasi a Timisoara cinque
anni dopo si accodava al coro dominante, tuonando in modo manicheo contro «il
repentino slittamento delle classi dirigenti ex comuniste nel razzismo più
estremo (come in Serbia, col programma di “pulizia etnica”)» (Agamben 1995, pp.
134-35).
Dopo aver acutamente analizzato la tragica indiscernibilità
di «verità e falsità» nell’ambito della società dello spettacolo, egli finiva
col confermarla involontariamente, accogliendo in modo sbrigativo la versione
(ovvero la propaganda di guerra) diffusa dal «sistema mondiale dei media», da
lui precedentemente additato come fonte principale della manipolazione; dopo
aver denunciato la riduzione del «vero» a «momento del movimento necessario del
falso», operata dalla società dello spettacolo, egli si limitava a conferire
una parvenza di profondità filosofica a questo «vero» ridotto per l’appunto a
«momento del movimento necessario del falso».
Per un altro verso, un elemento della guerra contro la
Jugoslavia, più che a Timisoara, ci riconduce alla prima guerra del Golfo. È il
ruolo svolto dalle public relations:
«Milosevic è un uomo schivo, non ama la pubblicità, non ama
mostrarsi o tenere discorsi in pubblico. Sembra che alle prime avvisaglie di
disgregazione della Jugoslavia, la Ruder&Finn, compagnia di pubbliche
relazioni che stava lavorando per il Kuwait nel 1991, gli si presentasse
offrendo i suoi servizi. Fu congedata. Ruder&Finn venne assunta invece
immediatamente dalla Croazia, dai musulmani di Bosnia e dagli albanesi del
Kosovo per 17 milioni di dollari all’anno, per proteggere e incentivare
l’immagine dei tre gruppi. E fece un ottimo lavoro!
James Harf, direttore di Ruder&Finn Global Public
Affairs, in un’intervista [...] affermava: “Abbiamo potuto far coincidere nell’opinione pubblica serbi e nazisti
[...] Noi siamo dei professionisti. Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo.
Non siamo pagati per fare la morale”» (Toschi Marazzani Visconti 1999, p.
31).
Veniamo ora alla seconda guerra del Golfo: nei primi giorni
del febbraio 2003 il segretario di Stato USA, Colin Powell, mostrava alla
platea del Consiglio di Sicurezza dell’ONU le immagini dei laboratori mobili
per la produzione di armi chimiche e biologiche, di cui l’Irak sarebbe stato in
possesso. Qualche tempo dopo il primo ministro inglese, Tony Blair, rincarava
la dose: non solo Saddam aveva quelle armi, ma aveva già elaborato piani per
usarle ed era in grado di attivarle «in 45 minuti». E di nuovo lo spettacolo,
più ancora che preludio alla guerra, costituiva il primo atto di guerra,
mettendo in guardia contro un nemico di cui il genere umano doveva
assolutamente sbarazzarsi.
Ma l’arsenale delle armi della menzogna messe in atto o
ponte per l’uso andava ben oltre. Al fine di «screditare il leader iracheno
agli occhi del suo stesso popolo» la Cia si proponeva di «diffondere a Bagdad
un filmato in cui veniva rivelato che Saddam era gay. Il video avrebbe dovuto
mostrare il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo. “Doveva
sembrare ripreso da una telecamera nascosta, come se si trattasse di una
registrazione clandestina». A essere studiata era anche «l’ipotesi di
interrompere le trasmissioni della televisione irachena con una finta edizione
straordinaria del telegiornale contenente l’annuncio che Saddam aveva dato le
dimissioni e che tutto il potere era stato preso dal suo temuto e odiato figlio
Uday» (Franceschini 2010).
Se il Male dev’essere mostrato e bollato in tutto il suo
orrore, il Bene deve risultare in tutto il suo fulgore. Nel dicembre 1992, i
marines statunitensi sbarcavano sulla spiaggia di Mogadiscio. Per l’esattezza
vi sbarcavano due volte, e la ripetizione dell’operazione non era dovuta a
impreviste difficoltà militari o logistiche. Occorreva dimostrare al mondo che,
prima ancora di essere un corpo militare di élite, i marines erano
un’organizzazione benefica e caritatevole che riportava la speranza e il
sorriso al popolo somalo devastato dalla miseria e dalla fame. La ripetizione
dello sbarco-spettacolo doveva emendarlo dei suoi dettagli errati o difettosi.
Un giornalista e testimone spiegava:
«Tutto quello che sta
accadendo in Somalia e che avverrà nelle prossime settimane è uno show
militar-diplomatico […] Una nuova epoca nella storia della politica e della
guerra è cominciata davvero, nella bizzarra notte di Mogadiscio […] L’
“Operazione Speranza” è stata la prima operazione militare non soltanto ripresa
in diretta dalle telecamere, ma pensata, costruita e organizzata come uno show
televisivo» (Zucconi 1992).
Mogadiscio era il pendant di Timisoara. A pochi anni di
distanza dalla rappresentazione del Male (il comunismo che finalmente crollava)
faceva seguito la rappresentazione del Bene (l’Impero americano che emergeva
dal trionfo conseguito nella guerra fredda). Sono ormai chiari gli elementi
costitutivi della guerra-spettacolo e del suo successo.
Riferimenti
bibliografici
Giorgio Agamben 1995
Homo sacer. Il potere sovrano e la
nuda vita, Einaudi, Torino
Giorgio Agamben 1996
Mezzi senza fine. Note sulla
politica, Bollati Boringhieri, Torino
Dan Bilefsky 2009
A rumor that set off the Velvet
Revolution, in «International Herald Tribune» del 18 novembre, pp. 1 e 4
Jean-Luc Domenach, Philippe Richer 1995
La Chine, Seuil,
Paris
François Fejtö 1994 (in collaborazione con Ewa
Kulesza-Mietkowski)
La fin des démocraties populaires (1992), tr. it., di
Marisa Aboaf, La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la
rivoluzione del 1989, Mondadori, Milano
Enrico Franceschini 2010
La Cia girò un video gay per far
cadere Saddam, «la Repubblica», 28 maggio, p. 23
John R. Macarthur 1992
Second Front. Censorship and
Propaganda in the Gulf War, Hill and Wang, New York
Roberto Morozzo Della Rocca 1999
La via verso la guerra, in
Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes. Rivista Italiana di
Geopolitica», pp. 11-26
Fréderic Saillot 2010
Racak. De l’utilité des massacres,
tome II, L’Hermattan, Paris
Jean Toschi Marazzani Visconti 1999
Milosevic visto da
vicino, Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes. Rivista Italiana di
Geopolitica», pp. 27- 34
Franco Venturini 2013
Le vittime e il potere atroce delle
immagini, in «Corriere della Sera» del 22 agosto, pp. 1 e 11
Vittorio Zucconi 1992
Quello sbarco da farsa sotto i
riflettori TV, in «la Repubblica» del 10 dicembre
Fonte: visto su http://www.ossin.org
del
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