George Bush col padre Prescott
A mezzo secolo dal fatale attentato di Dallas del 22
novembre 1963 si scopre che, oltre ai nomi già noti – Lyndon Johnson, Allen
Dulles e Edgar Hoover – c’era un politico di prima grandezza dietro al
complotto per assassinare John Fitzgerald Kennedy. Si tratta nientemeno che di
George Bush padre, secondo la clamorosa ricostruzione offerta da un libro che
uscirà negli Usa in
ottobre, firmato dall’ex stratega repubblicano Roger Stone, già braccio destro
di Richard Nixon, a sua volta coinvolto per la “copertura” del piano. Secondo
Stone, fu Nixon – quand’era ancora un semplice deputato al Congresso – ad
assoldare Jack Ruby, cioè Jacob Leon Rubinstein, l’uomo che poi assassinò il
“capro espiatorio” Lee Harvey Oswald poche ore dopo il suo arresto-lampo. Ma –
questa è la novità clamorosa – dietro le quinte c’era la regia occulta del
futuro presidente Bush, padre di George W., poi capo della Cia prima di
ascendere alla Casa Bianca. All’epoca fu spedito a Dallas come leader dei
repubblicani del Texas e garante della potentissima lobby dei petrolieri
texani, direttamente minacciata dai Kennedy. Un incrocio pericoloso – tenuto
nascosto per decenni – fatto di depistaggi, omissioni, intimidazioni, menzogne
e omicidi per eliminare testimoni scomodi.
L’annuncio della pubblicazione proviene dal “Daily Caller”,
che indica anche la casa editrice, Skyhorse Publishing. Il titolo provvisorio
del libro, scritto con Mike Colapietro, potrebbe essere tradotto così: “L’uomo
che uccise Kennedy: Lyndon Johnson”. Per la prima volta, sottolinea Giulietto
Chiesa su “Megachip”,
un libro-inchiesta sulla fine di Jfk porta la firma di un autore del calibro di
Roger Stone, già “aiutante di campo” di Nixon nella campagna elettorale
vittoriosa del 1972, al termine della quale entrò nell’amministrazione
presidenziale. Le sue memorie riguardano informazioni che raccolse stando
all’interno della squadra che portò al potere Nixon, nove anni
dopo l’assassinio di Kennedy. Stone rivela come Lyndon Johnson “convinse” Earl
Warren a presiedere la commissione d’inchiesta sull’omicidio Kennedy: Warren,
stimato giudice della Suprema Corte, non voleva accettare l’incarico; fu
costretto da Johnson che ricorse al ricatto, ricordandogli un “piccolo
incidente” nel quale il magistrato sarebbe incorso, anni prima, a Città del
Messico, come riferito dal direttore dell’Fbi, Hoover. A quel punto, Warren
cedette e accettò di presiedere la commissione-farsa. Accettò anche il senatore
Richard Russell, pure lui riluttante, quando lo stesso Johnson gli raccontò come
aveva “convinto” Warren.
Pressioni e ricatti, da subito: «Sarà utile ricordare –
osserva Chiesa – che John Edgar Hoover fu l’inventore dei fascicoli segreti con
cui aveva spiato tutto e tutti, all’epoca, a cominciare prima dalla famiglia
Roosevelt, poi dalla famiglia Kennedy». Così, aiutato da Hoover, il
neo-presidente Johnson costruì – col ricatto – una commissione-fantoccio, nella
quale inserì anche «uno dei più accaniti nemici di John Kennedy», ovvero
«quell’Allen Dulles, direttore della Cia fin dal 1953, che era stato
l’organizzatore di due riusciti colpi di Stato in Guatemala e in Iran, e che
era caduto in disgrazia dopo la fallita operazione della Baia dei Porci che
avrebbe dovuto liquidare la rivoluzione cubana di Fidel Castro». Ed è qui,
ripescando documenti d’archivio grazie al lavoro di un super-reporter come Russ
Baker, autore di un libro uscito negli Usa nel 2009 e mai
pubblicato in italiano, “Family of Secrets” (Bloomsbury Press), che entra in
scena un terzo presidente degli Stati Uniti. «E vi entra come il principale
sospetto dell’organizzazione dell’assassinio di John Kennedy e di suo fratello
Robert», racconta Giulietto Chiesa citando in anteprima il libro di Stone. Lui,
George Herbert Bush – che Russ Baker chiama “Poppy”, e che sarà eletto alla
Casa Bianca nell’89, cioè 15 anni dopo le dimissioni di Nixon – risulta «il
maggiore indiziato» dell’omicidio Kennedy.
Il movente: fermare – nell’unico modo possibile – il grande
nemico della destra economica americana, da Wall Street ai petrolieri texani.
Molti legami nascosti collegano i congiurati: «Allen Dulles aveva il dente
avvelenato, ma non era l’unico». Anche il vicedirettore della Cia, Charles
Cabell, «era stato costretto alle dimissioni da Kennedy». E attenzione: il
fratello di Cabell, Earle, nel 1962 era nientemeno che il sindaco di Dallas,
cioè «l’interfaccia locale dell’apparato messo in moto per la visita
presidenziale». Coincidenze? «Tra coloro che non potevano sopportare i Kennedy
c’era un grande amico di Dulles: il senatore Prescott Bush», ovvero il padre di
George “Poppy” Bush. Prescott Bush era «il capostipite della famiglia che
avrebbe governato l’America, sebbene con interruzioni, per sedici anni». Quando
Dulles morì, nel 1969, in un messaggio alla vedova, Prescott Bush scrisse
queste parole, riferendosi ai Kennedy: «Non li ho mai perdonati». Lo scrisse
sei anni dopo l’assassinio di Dallas e pochi mesi dopo l’assassinio di Robert
Kennedy, avvenuto «di nuovo in circostanze misteriose e di nuovo per mano di un
killer isolato e fatto poi passare per squilibrato». La famiglia Bush:
Prescott, poi George, poi George Walker. Un potere scritto nel
“destino” dell’America, dall’attentato di Dallas a quello delle Torri Gemelle.
Prescott Bush, ricorda Giulietto Chiesa, lanciò il politica suo figlio
George proprio alla vigilia dell’omicidio Kennedy: nel ’64 ci sarebbero state
nuove elezioni e –
per fermare la rielezione di Jfk – gli Stati cruciali sarebbero stati la
Florida e il Texas. «La famiglia Bush scelse di mandare “Poppy” in Texas». E
qui cominciano le sorprese: «Pochi sanno che George Herbert Bush aveva aperto
il suo quartiere generale a Houston pochi mesi prima dell’attentato a Kennedy.
Pochi sanno che, quando John Kennedy fu ucciso, il capo del partito
repubblicano in Texas era “Poppy” Bush. Pochi hanno ricordato che una delle
ragioni che spinsero Kennedy a andare a Dallas fu proprio determinata dalla
necessità di fronteggiare la prevedibile controffensiva repubblicana in quello
Stato. La famiglia Bush era molto ben connessa sia con Wall Street, sia con i
petrolieri texani. E John Kennedy arrivava in terra nemica con due intenzioni
provocatorie: quella della cancellazione della “oil depletion allowance” – che
significava un colpo molto serio ai profitti dei petrolieri texani – e con
l’esplicito sostegno dei diritti civili, tema assai male accolto in tutto il
Sud americano».
La faccenda della “allowance”, soprattutto, costituiva una
minaccia grave: «John Kennedy – ricorda Giulietto Chiesa – aveva detto
esplicitamente che avrebbe cancellato la bonanza del 27,5% concessa ai
petrolieri texani», i quali fino ad allora potevano detrarre dalle tasse quasi
un terzo dei profitti dei pozzi petroliferi che venivano esaurendosi.
«Sufficiente per ucciderlo? Nessuno può affermarlo, ma come movente non era
niente male». E comunque: dov’era George “Poppy” Bush mentre Kennedy cadeva
sotto i colpi dei fucili? «Nessuno andò a verificare, per anni, le stranezze
davvero ciclopiche di questa circostanza». Un silenzio durato fino al 25 agosto
1988, quando – una settimana dopo che George “Poppy” Bush aveva accettato la
nomination a candidato presidenziale per il partito repubblicano – apparve sul
“San Francisco Examiner” un breve articolo, a firma Miguel Acoca, che rivelava
l’esistenza documentata di una telefonata che Bush aveva fatto in quelle ore
fatali di 25 anni prima. Bush aveva chiamato l’ufficio dell’Fbi in Houston
«alcune ore dopo» l’assassinio di Kennedy, «al fine di riferire che “un giovane
repubblicano di destra” aveva parlato di “uccidere il presidente”». In realtà,
la strana telefonata fu fatta subito, «esattamente sette minuti dopo che Walter
Cronkite leggesse il dispaccio dell’“Associated Press” che annunciava la morte
di Jfk».
L’Fbi, con molta diligenza, aveva registrato anche
l’indirizzo dell’autore della telefonata: 5525 Briar, Houston, Texas. Era
l’indirizzo di colui che nel 1988 era il vice-presidente degli Stati Uniti
d’America. Sempre l’Fbi si era precipitata a interrogare il giovanotto oggetto
della denuncia di “Poppy”. Lo trovò subito. Si chiamava James Milton Parrott.
Ma tutte le verifiche successive non condussero a nulla. Salvo alcuni dettagli:
Parrott era davvero un giovane militante repubblicano, e aveva davvero frequentato
l’ufficio di “Poppy” a Houston. Inoltre, l’agente Fbi che – allora – aveva
raccolto la telefonata di “Poppy”, tale Graham Kitchel, era assai vicino al
capo dell’Fbi, Edgar Hoover. E suo fratello, George Kitchel, era un vecchio
amico di “Poppy” Bush. «Tutte coincidenze che spiegano bene perché quella
telefonata fu così tempestivamente e precisamente documentata». “Doveva” essere
tracciabile, per scagionare Bush e presentarlo come collaborativo con gli
inquirenti. Peccato che poi, quindici anni dopo, quando Bush è vicepresidente
uscente e candidato alla presidenza, allo stesso Miguel Acoca dichiara di non
aver mai fatto quella telefonata. Un assistente di “Poppy”, inoltre, sostiene
che Bush “non ricorda” di aver mai chiamato l’Fbi di Dallas il 22 novembre
1963. Russ Baker se ne stupisce: se l’atto fu innocente, potrebbe essere ben
difeso come gesto di responsabilità civica, quello di un capo politico che, in
nome della giustizia,
giunge ad accusare un membro del suo stesso partito. Perché dunque nasconderlo?
Perché “Poppy”, oltre a proteggere se stesso, con quella telefonata stava anche
cercando di depistare l’Fbi, facendo perdere tempo prezioso ai detective.
La famosa telefonata, conferma Stone, fu fatta alle ore 1.45
pm del 22 novembre, dalla cittadina di Tyler, qualche centinaia di miglia da
Dallas, dove George Bush avrebbe dovuto tenere una conferenza di fronte ai soci
del Kiwani Club. «In tal modo, “Poppy” riesce a infilare negli atti ufficiali
dell’indagine sull’assassinio il fatto che egli non si trovava a Dallas mentre
esso avveniva». E’ certo invece che “Poppy” era a Dallas la sera prima
dell’omicidio, dormì all’Hotel Sheraton e ripartì solo la mattina successiva a
bordo di un aereo privato fornitogli da Joe Zeppa, presidente della American
Association of Oil Drilling Contractors (Aaodc). Sicché, «la telefonata da
Tyler appare essere stata concepita per occultare la presenza di “Poppy” a
Dallas mentre parlava – guarda caso – con i petrolieri texani», nemici giurati
di Jfk. Ma le stranezze non sono affatto finite. E 13 anni dopo – quando
“Poppy” è a capo della Cia – si colorano del sangue di un ex agente
dell’intelligence, George de Mohrenschildt, che – si scoprirà in seguito – fu
l’uomo che aveva “coltivato” Lee Oswald, per farne la vittima sacrificale,
insieme a Kennedy, del complotto di Dallas.
Il 5 settembre 1976, George Bush riceve una lettera nella
quale de Mohrenschildt si dichiara “dispiaciuto” di aver “parlato a sproposito”
di Oswald, e chiede aiuto: lo stanno spiando e pedinando, e si rivolge a Bush –
chiamandolo “caro George” – per sapere se il capo della Cia può «fare qualche
cosa» per metter fine al tormento; dopodiché, de Mohrenschildt promette:
«Questa sarà la mia ultima richiesta di aiuto e poi non la disturberò più». Gli
archivi della Cia riportano la risposta di “Poppy” ai suoi funzionari: Bush
dice agli 007 di ricordare che de Mohrenschildt era lo zio di un suo compagno
di scuola, a Andover, e «successivamente riemerse quando Oswald sparò sul
vertice». Quell’uomo, dice Bush ai funzionari della Cia, «conosceva Oswald
prima dell’assassinio del presidente Kennedy». Ma, sfortunatamente, conclude
Bush, «non ricordo il suo ruolo in tutta questa faccenda». Altra “dimenticanza”
impossibile, annota Stone, perché George de Mohrenschildt era molto di più che
lo zio di un vecchio compagno di studi: «Era stato un socio in affari di
“Poppy” Bush. E il suo interrogatorio era stato, seppure per una breve
parentesi, uno dei momenti più intriganti dell’inchiesta sull’assassinio di
Jfk».
In quel frangente era in corso una serie di inchieste contro
gli abusi della Cia, in specie negli assassini di capi di Stato esteri. E,
proprio in quei mesi, e in relazione a quelle inchieste, si stava ripresentando
l’ipotesi di riaprire anche l’indagine sull’omicidio Kennedy. «Pensare che il
capo della Cia fosse così distratto in materia è fuori di ogni credibilità»,
osserva Giulietto Chiesa: «Qui è palese che George H. Bush sta mentendo».
Inoltre, quando Bush dice che colui che scopriremo essere stato un suo vecchio
amico e sodale “conosceva Oswald”, mente per difetto. Poiché non poteva non
sapere che George de Mohrenschildt, dal 1962 al 1963 (cioè nell’ultimo anno
prima dell’assassinio di Kennedy), era stato «aiuto, guida, maestro e
confidente di Lee Harvey Oswald». Lo aveva aiutato a trovare lavoro, a cercare
casa, e lo aveva introdotto in diversi ambienti sociali di Dallas. De
Mohrenschildt «frequentava la sua casa, e le rispettive mogli si conoscevano
molto bene», come dimostra la lettera di risposta che George Bush manda
all’altro George: «Cortesemente tranquillizzandolo, gli comunica di “non potere risolvere
completamente” il suo problema», quello dei pedinamenti che lo affliggono.
Russ Baker, autore di questa documentata ricostruzione,
commenta: «Per una persona che conosceva ciò che de Mohrenschildt conosceva,
una tale notazione dev’essere stata terrificante». Meno di sei mesi dopo,
George de Mohrenschildt “si uccideva” con un colpo di fucile alla bocca.
Conclusione del medico: suicidio. L’ex moglie di de Mohrenschildt, Jeanne,
anch’essa agente della Cia, in un’intervista al “Fort Worth Star-Telegram” dell’11
maggio 1978, disse che non riteneva credibile la tesi del suicidio; aggiunse
che Oswald era stato un agente della Cia, e che secondo lei non era l’assassino
di Kennedy. Aggiunse: «E’ tempo che qualcuno dia un’occhiata a questa
faccenda». Infatti il Senato americano, il 17 settembre 1976, dopo mesi di
infuocate discussioni, aveva deciso di riaprire l’inchiesta, costituendo
l’House Select Committee on Assassination (Hsca). «Basta confrontare le date –
scrive Giulietto Chiesa – e si vede che la lettera a Bush di George de
Mohrenschildt anticipa di qualche giorno la decisione istitutiva dell’Hsca».
Dunque: «Il rischio era altissimo che George venisse richiamato a
testimoniare». Dettaglio-chiave: nella sua lettera a Bush, de Mohrenschildt
aveva detto: le cose che ho scritto su Oswald «possono avere irritato parecchie
persone». Peccato che de Mohrenschildt non abbia mai pubblicato nulla. «Dunque
la frase va letta invertendo i termini: potrei dire cose che irriteranno
parecchie persone». Solo che de Mohrenschildt si era rivolto alla persona
sbagliata: nelle settimane che precedettero la sua controversa morte, l’Hsca
aveva nominato un investigatore speciale per il suo interrogatorio, Gaeton
Fonzi, che arrivò tardi all’appuntamento.
Quella di de Mohrenschildt, aggiunge Chiesa, non fu l’unica
morte improvvisa, tra coloro che avrebbero potuto essere interrogati. Ci fu un
altro stretto amico di de Mohrenschildt a lasciarci la pelle: si chiamava Paul
Raigorodsky, fuoruscito di Russia molti anni prima e divenuto facoltoso
petroliere texano, anima della comunità texana dei fuorusciti russi, connesso
con tutte le operazioni della Cia in America Latina, sostenitore del partito
repubblicano, uno dei padroni di Dallas. Il 22 novembre 1976, accettò di farsi
intervistare da Michael Canfield sul tema dell’assassinio di Jfk. Non disse
nulla di rilevante, ma interrogò il giornalista: «Qual è la ragione del suo
interesse per queste faccende?». E Canfield: «Oh, sono semplicemente curioso,
ecco tutto». Raigorodsky replicò: «Ma lei non lo sa che fu la curiosità a
uccidere il gatto?». Il petroliere fu trovato morto il 16 marzo 1977, anche lui
poco prima di poter essere interrogato dalla Hsca. «Referto medico: cause
naturali. Non fu la curiosità a uccidere lui».
Lo scrittore Norman Mailer – un altro che non ha mai creduto
alla storia
dell’assassino unico – nel suo “Oswald’s Tale”, dedicò a George de
Mohrenschildt un ritratto esaustivo: un personaggio ambiguo e pericoloso,
perfetto come “addestratore” dell’inconsapevole pedina Lee Harvey Oswald. Nella
sua agenda d’indirizzi trovarono il nome di George Bush, “Poppy” per gli amici,
quando era a capo della “Zapata Oil”. Perfino i rapporti dei servizi segreti
americani, negli anni delle sue intense relazioni con i petrolieri di Dallas,
lo consideravano personaggio equivoco, possibile doppio e triplo agente: la
guida ideale per preparare Oswald a compiere «qualche cosa che avrebbe dovuto
apparire come inesplicabile, frutto di uno squilibrato, ma forse frutto di un
attentato comunista, vuoi sovietico, vuoi cubano». Come nei film: se qualcosa
va storto, si liquida la pedina. E per questo si incarica un’altra pedina, più
accorta, a cui «si lascia la speranza che possa sopravvivere». Jack Ruby sparò,
e sperò. «Solo dopo il suo processo si lasciò sfuggire qualche cosa». Disse a un
giornalista: «Nulla di ciò ch’è accaduto è emerso alla superficie. Il mondo non
conoscerà mai i fatti veri che sono accaduti e i miei motivi. Le persone che
avevano molto da guadagnare avevano anche molti motivi per mettermi nella
posizione in cui mi trovo, e costoro non consentiranno mai a che il mondo
conosca cosa accadde». Domanda: questa gente si trova ancora in posizione di potere? Ruby: «Sì».
La storia
pazzesca del complotto di Dallas, avverte Chiesa, è ben riassunta – nei
passaggi fondamentali maturati con le ultime rivelazioni – nel sito
“familyofsecrets.com”. Punto primo: “Poppy” Bush era in stretti rapporti
d’interessi con la lobby petrolifera texana, che voleva togliere di mezzo i
Kennedy. Inoltre, molti dei personaggi cruciali del network segreto del Texas,
che entrò in azione il 22 novembre 1963, erano suoi compagni di partito o ex
soci in affari, suoi personali o della famiglia Bush, a cominciare dal padre
Prescott Bush. Tra questi, tre personaggi-chiave furono Neil Mallon (Republic
National Bank); Allen Dulles, ex capo della Cia; John Edgar Hoover (capo
dell’Fbi che lavorava in coppia con il vice-presidente Lyndon Johnson). Di
quest’ultimo già s’è parlato. Immediatamente al di sotto, nel complotto, ci fu
Jack Crichton, candidato anche lui del partito repubblicano, che si prevedeva
avrebbe corso in coppia con “Poppy”, che dava ordini al Dipartimento di polizia
di Dallas.
L’autista che guidava il veicolo in testa al corteo
presidenziale si chiamava George L. Lumpkin, era vice-capo della polizia di
Dallas e intimo amico di Crichton. Ma era anche membro della Army Intelligence
Reserve Unit. Al suo fianco era seduto George Whitmeyer, ufficiale
dell’esercito e comandante delle unità della Army Intelligence Reserve di tutto
l’est Texas, alle dirette dipendenze di Jack Crichton. Whitmeyer non era sulla
lista approvata dal Servizio Segreto per guidare il corteo presidenziale.
Lumpkin fece fare una sola sosta al corteo, fermandosi – «per chiedere
un’informazione» a un agente della polizia stradale – proprio all’incrocio tra
Houston and Elm Street, di fronte al Depository Building dove era appostato
Oswald. Crichton era stato il fondatore della “Dallas Civil Defense”,
un’organizzazione ferocemente anticomunista, che il 1° aprile 1962 aveva
installato un comando clandestino sotto il patio del Museo di Scienze e Salute
di Dallas: «Il luogo da dove, presumibilmente, fu guidata l’operazione 22
novembre 1963». Della “Dallas Civil Defense” erano parte numerosi
agenti della Cia e dell’Fbi, oltre che della polizia
cittadina. «Non risulta che la Commissione Warren o qualcuno degl’investigatori
dell’epoca abbia mai visitato questo sito».
Dunque, “Poppy Bush” era a Dallas la sera del 21 novembre, e
molto probabilmente anche la mattina del 22. E cercò di occultare questa
circostanza. Poi, con la telefonata da Tyler, cercò di crearsi un alibi e
depistare l’Fbi. Bush, inoltre, era amico personale di George de Mohrenschildt,
ma cercò di occultare anche questa circostanza. A sua volta, Chrichton
era amico di de Mohrenschildt, ed entrambi erano amici di D. Harold Byrd,
proprietario della Texas School Book Depository, l’edificio dal quale Oswald
avrebbe sparato a Kennedy. Byrd propose al custode della Depository di assumere
Oswald poche settimane prima dell’attentato. Oswald fu presentato per
l’assunzione da un amico di de Mohrenschildt, che aveva legami di parentela con
Allen Dulles. «Di tutto ciò la Commissione Warren in parte sapeva, ma fece
finta di non sapere e non indagò», osserva Chiesa. «Quel poco che se ne sa
emerse anni, anzi decenni dopo, quando “Poppy” Bush ritentò la carta della
presidenza e qualcuno, forse, cercò di fermarlo». In ogni caso, «nessuna verità
è emersa fino ad ora, nemmeno con Barack Obama». Giulietto Chiesa la pensa come
Russ Baker: «Il presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, ha meno potere personale di
quanto si pensi: il suo potere
reale è un derivato delle lobby che lo hanno eletto».
I Kennedy «furono eliminati perché la loro lobby fu
soverchiata da interessi troppo potenti. E perché entrambi, specie Robert,
erano prodotti anomali dell’establishment, non disinnescabili, pericolosi.
Dunque non da sconfiggere (come nel caso di Nixon), ma da uccidere». Nel caso
dei Bush, la loro ascesa al potere
americano, risiede «nella potenza della “famiglia” e dei suoi legami».
Inquietante, attraverso i decenni, il ricorso sistematico alla teoria del “lupo
solitario” che uccide: «Valse per Lee Oswald vs. John Kennedy, valse per Sirhan
B. Sirhan vs. Robert Kennedy, valse per James E. Ray vs. Martin Luther King,
valse per Osama bin Laden vs. le Torri Gemelle e il mondo intero». E non
importa se le risultanze poi smentiranno le versioni ufficiali, «poiché ciò che
conta, sempre, è la prima versione che viene offerta al grande pubblico». I media sono sempre stati
complici della “distrazione delle masse”: «E’ attraverso di loro che si è
sempre cercato di seppellire nel ridicolo tutti coloro che dissentivano,
bollandoli con la qualifica dispregiativa di “teorici della cospirazione”».
Marshall McLuhan diceva che «solo i piccoli segreti vanno protetti: per quelli
grandi sarà sempre sufficiente l’incredulità della gente». Su questo fanno leva
i grandi media. Il che
– riassume Chiesa – ci porta a una conclusione semplice: «Bisogna cominciare a
sottoporre i media a
una lotta senza quartiere».
Fonte: visto su, LIBRE associazione di idee, del 24 agosto 2013
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