Un terrificante ed oscuro capitolo della Seconda Guerra
Mondiale è sepolto nel cimitero cattolico romano situato ai margini della
povera periferia di Teheran. Qui riposano 1.892 polacchi, tra donne vecchi e
bambini, deportati da Stalin tra la fine del 1939 e il 1942.
Come è noto, nel Settembre 1939, Hitler e il dittatore di
Mosca, forti dell’intesa precedentemente raggiunta nel mese di agosto con il
Patto Ribbentrop-Molotov, si avventarono sulla Polonia, smembrandola, e dando
inizio ad uno dei capitoli più neri della storia di questa sfortunata nazione
cattolica incuneata tra Germania luterana e la Russia ortodossa.
Completata
l’occupazione e la spartizione della Polonia, l’Unione Sovietica, che, come è
noto, si era annessa la parte orientale del paese, provvide subito a russificare
questa regione, non prima di avere disarmato ed internato l’esercito
polacco ivi presente (formato da circa 250.000 uomini). Nel 1940, in barba a tutti i trattati e le
convenzioni internazionali, Stalin si rifiutò di liberare gli ufficiali e i soldati
catturati, raggruppandoli in una decina di campi di concentramento situati in
Ucraina.
Ma quando un anno dopo, nel giugno 1941, la Germania invase
l’Unione Sovietica, il dittatore decise di liberare tutti i polacchi garantendo
ad essi un equo trattamento e, addirittura, “una nuova terra”, in cambio del
loro aiuto nella lotta contro il nazismo. Più precisamente, gli emissari di
Stalin concessero agli ufficiali polacchi di continuare a combattere
nell’ambito di una Nuova Armata che i russi, assieme ai britannici, stavano
formando in Persia settentrionale
Decisi a riconquistare la libertà e a contribuire allo
sforzo degli Alleati, i polacchi accettarono la proposta di Mosca e, su lunghi
convogli ferroviari, iniziarono a partire alla volta della lontana e neutrale
Persia che, proprio in seguito all’attacco tedesco e alla firma del trattato di
alleanza tra Russia e Gran Bretagna, era stata preventivamente occupata dalle
forze armate delle due potenze, preoccupate da possibili infiltrazioni nemiche
in quest’area strategica. Nell’arco
di alcune settimane, molte migliaia di soldati (ma anche di civili) polacchi
rinchiusi nei campi sovietici firmarono la loro adesione al nuovo, ma dai
lineamenti assai vaghi “Esercito di Liberazione Polacco in Persia”. Secondo
dati provenienti dagli archivi segreti russi (1999), si calcola che, tra il
luglio e il dicembre 1941, le tradotte sovietiche trasferirono in Persia dai
114.000 ai 300.000 polacchi (le cifre sono molto discordi). E a prova di questo
massiccio e sconosciuto esodo non sono rimasti soltanto i documenti, tenuti
accuratamente nascosti dalle autorità di Mosca per diversi decenni, ma
addirittura una dozzina di testimoni ancora in vita e residenti alla periferia
di Teheran.
La scoperta di questi reduci è stata fatta da Anwar Faruqi,
bravo giornalista della Associated Press, che, qualche anno fa, essendosi
recato in Iran per motivi di lavoro, è riuscito a ricostruire l’intera, oscura,
e per certi versi straordinaria, vicenda.
Visitando la periferia della capitale iraniana, Faruqi ha
avuto modo di conoscere Helena Stelmach, una settantenne polacca, da anni
sposata con un iraniano. La donna, assieme ad Anna Borkowska, di anni 83,
sembra essere una delle ultime sopravvissute alla deportazione ordinata da Stalin
nel lontano 1941.
Non senza iniziali reticenze, le due anziane signore (“che
parlano un iraniano con uno strano accento”) hanno accettato di raccontare
a Faruqi la loro avventura.
“Entrambe le scampate vivono in modeste abitazioni,
adornate da qualche mobile, i tradizionali tappeti e, appese alle pareti, le
foto dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, quella di papa Giovanni Paolo II e
alcune effigi di Gesù e Maria”.
Come racconta la Helena Stelmach – che quando iniziò
l’invasione russa viveva in un villaggio della Polonia orientale –
“nel settembre del 1939, molti civili, tra cui la
sottoscritta, vennero rinchiusi, assieme ai soldati polacchi, in campi di
concentramento provvisori. Poi, un giorno, venimmo tutti trasferiti, con
tradotte ferroviarie, nella fitta foresta di Basharova, non distante dalla
città di Arcangelo. E lì i russi ci tennero, costringendoci ai lavori forzati.
Ma nell’estate del 1941, sorprendenti notizie iniziarono a circolare nel mio
campo. Le armate tedesche avevano invaso l’Ucraina e stavano avvicinandosi a
Leningrado. Pochi giorni dopo, il comandante russo ci convocò, che eravamo
appena tornate dalla foresta dove eravamo impiegate nel taglio degli alberi.
L’ufficiale ci disse che saremmo stati liberi a condizione di partecipare alla
‘Grande guerra patriottica’ contro la Germania nazista. Sapemmo poi che, prima
dell’arrivo dei tedeschi, Stalin aveva provveduto a fare trasferire dalla
Polonia orientale alla Russia e alla Siberia la quasi totalità della
popolazione, per impedire ai tedeschi di fare bottino di mano d’opera”.
Sempre secondo i documenti degli archivi moscoviti,
nell’estate del 1941, da tutti i campi di concentramento dell’Unione Sovietica
(tra cui Vorkuta, Kolyma e Novosibirsk e Kazakistan) defluirono in direzione
della Persia decine di migliaia di polacchi fino a pochi giorni prima
utilizzati nei campi, nelle foreste e nelle miniere.
“Eravamo praticamente degli schiavi di Stalin”. “Il
viaggio a bordo dei convogli sovietici risultò spaventoso: un vero incubo”,
ricorda la Stelmach, che a quel tempo aveva dieci anni e viaggiava con la
madre. “Eravamo pigiati a decine a bordo di carri bestiame. Il freddo era
terribile e non avevamo nulla all’infuori dei nostri stracci per coprirci. Ogni
duecento, trecento chilometri il convoglio si fermava e le guardie ci davano
qualche secchio di rape e pane secco, e un bidone d’acqua. Durante il viaggio
morirono per la fame e il gelo decine di bambini e vecchi. Dopo giorni
giungemmo a Taskent, capitale dell’Uzbekistan sovietico, e lì ci fecero salire
su un altro treno diretto in Persia”.
Dopo un mese dalla partenza da Arcangelo, la Stelmach e gli
altri profughi giunsero ad una stazione ferroviaria situata sulle sponde
orientali del Mar Caspio.
“Venimmo trasbordati su piccole navi dirette verso il
porto iraniano di Enzeli. Ma quel viaggio per mare, che credevamo migliore del
precedente, si rivelò forse peggiore. Le navi erano vecchie e sovraccariche. Ci
cacciarono nelle stive che erano piene di topi ed insetti repellenti. Una volta
al giorno le guardie ci passavano dell’acqua e la solita zuppa di rape, radici
e pane secco. Facevamo i nostri bisogni in un angolo della stiva. L’odore era
insopportabile. Scoppiò un’epidemia di febbre tifoidea; molti morirono e i loro
corpi vennero scaraventati in mare. Alla fine, in un freddo mattino, la nave
giunse nel porto iraniano di Enzeli (l’attuale Bandar Anzali), e ci fecero
sbarcare. Era il gennaio 1942. Duemila 806 rifugiati morirono entro pochi mesi
dall’arrivo e furono sepolti in varie fosse comuni nei dintorni della
città”.
La maggior parte dei polacchi in migliori condizioni di
salute venne subito avviata verso i campi di addestramento dell’interno dove –
così dicevano i sovietici – stava formandosi il nuovo Esercito polacco guidato
dal generale Wladyslaw Anders. La quasi totalità dei polacchi venne trasferita
su camion a Teheran, Isfahan e in altre città iraniane.
”Il nostro primo approccio con il popolo iraniano fu
molto caloroso, e inaspettato. Si affollavano intorno ai nostri camion e
autobus. Ci passavano attraverso i finestrini aperti datteri, noci, piselli
tostati, uva passa e melograni”, racconta Krystyna Skwarko, un’insegnante
polacca che in seguito, dopo la fine della guerra, sarebbe diventata la
direttrice dell’orfanotrofio di Isfahan.
La Skwarko scrisse poi un curioso ed introvabile libro
“L’ospite”, in cui ella fece, tra l’altro, un dettagliato resoconto del suo
viaggio da Enzeli fino ai campi di raccolta. La donna visse in Iran fino agli
anni Sessanta e poi emigrò in Nuova Zelanda, dove morì nel 1995.
Più di 13.000 bambini polacchi giunti in Iran erano orfani,
anche perché una parte di loro aveva perso i genitori durante le terribili
trasferte ferroviarie sovietiche. All’interno dei campi iraniani,
un’organizzazione assistenziale sionista si prendeva cura degli orfani polacchi
di religione ebraica. In seguito, parecchi di essi vennero trasferiti in
Palestina, mentre altri – dopo la guerra – emigrarono negli Stati Uniti, in
Inghilterra, in Australia, Sud Africa, Nuova Zelanda e altrove.
I CAMPI BRITANNICI E SOVIETICI
Nell’autunno del 1941, nei pressi della città di Ahvaz,
nell’Iran sud-occidentale, i britannici costruirono il cosiddetto “Campo
Polonia”: una struttura piuttosto efficiente e decorosa destinata ad accogliere
i profughi polacchi e i futuri volontari dell’Armata Anders. Il campo – ben
differente da quelli sovietici – era molto esteso e dotato di baracche con
servizi, mense, ospedali, scuole e orfanotrofi. La struttura funzionò per circa
due, tre anni e poi venne smantellata.
Il destino dei profughi polacchi raccolti ad Ahvaz fu
infinitamente migliore rispetto a quello dei loro compagni rinchiusi negli
spaventosi campi del nord dell’Iran, quelli gestiti dai russi. Questi ultimi,
infatti, erano molto simili a dei gulag. D’altra parte, lo stesso Stalin, che
aveva accettato di malavoglia di reintegrare gli odiati polacchi in un’Armata
Nazionale (egli avrebbe preferito – come in realtà poi farà – inquadrare
eventuali volontari nell’Esercito sovietico), aveva dato disposizioni affinché
ai polacchi, sia i miliari che i civili, destinati ai campi iraniani, venisse
riservato un trattamento “non di favore”. Ordine che, stando alle testimonianze
dei reduci polacchi, venne interpretato dai gestori dei campi alla lettera. Nei gulag sovietici dell’Iran settentrionale
la vita era infatti durissima. I baraccamenti (circondati da reti con filo
spinato e torrette di guardia, erano pessimi. Il cibo era scarso, l’assistenza
sanitaria quasi inesistente e le angherie frequentissime.
Per le migliaia di sfortunati profughi giunti in Persia
dalla Russia si apriva un nuovo, drammatico capitolo. I principali campi
sovietici si trovavano nei pressi di Teheran e di Tabriz. E in essi i russi
raccolsero, tra il 1941 e il 1944, non meno di 250.000 profughi.
Contrariamente a quanto accadde nei campi inglesi del sud
della Persia, a nessun polacco di sesso maschile venne mai permesso di uscire
o, meno che mai, di venire addestrato militarmente per poi unirsi all’Armata
Anders che, come è noto, dipendeva dal governo polacco in esilio a Londra che
Stalin non voleva affatto riconoscere (1).
Per il futuro della Polonia il dittatore russo aveva ben
altri programmi. Non a caso, per tutta la durata della guerra, i profughi
polacchi vennero tenuti chiusi nei campi iraniani e adoperati dai russi per
pesanti lavori quali la costruzione di strade e linee ferrate. E a nulla
valsero le proteste dell’Inghilterra che si accorse troppo tardi della “truffa”
messa in atto dal dittatore sovietico.
Come è noto, nella seconda metà del 1944, allorquando l’Armata
Rossa stava avvicinandosi alla Vistola, Stalin acconsentì a che un certo numero
di ufficiali e soldati polacchi addestrati in Russia partecipasse – integrato
in divisioni sovietiche – all’offensiva finale contro la Germania.
Finita la guerra, poco prima del ritiro dall’Iran delle
truppe sovietiche e britanniche, i russi permisero ai reduci polacchi di fare
rientro in patria o di raggiungere il sud del paese per imbarcarsi alla volta
di altre destinazioni.
Oggi, a distanza di quasi un secolo, alla periferia di
Teheran quasi 2.000 tombe incise con una croce e riportanti strani nomi
rimangono a testimoniare il passaggio e le sofferenze dei profughi polacchi
giunti al termine di una lunga, terribile e sconosciuta odissea.
Incredibilmente, dopo tanti decenni, all’ambasciata polacca di Teheran
continuano a giungere dalla madrepatria (ma anche dall’Inghilterra, dagli Stati
Uniti e dalla Nuova Zelanda) numerose lettere di persone o emigrati di origine
polacca che chiedono alle autorità iraniane notizie dei propri parenti dispersi
in Iran durante il Secondo Conflitto mondiale.
Alberto Rosselli
Fonte > Qelsi
Quando nel settembre 1939 la Germania e l’Unione Sovietica –
sulla base del Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 – invasero e si
spartirono la Polonia, il generale Wladislaw Anders e parte dell’esercito
polacco furono presi prigionieri dalle forze occupanti russe. Anders che come moltissimi altri ufficiali e
soldati dell’ex esercito di Varsavia rifiutò di entrare a fare parte
dell’Armata Rossa, venne imprigionato nella prigione della Lubianka (in
seguito, come è noto, circa 9.000 ufficiali polacchi “ribelli” verranno, per
ordine di Stalin, fucilati e sepolti nelle fosse di Katyn: eccidio che, nel
1945, i sovietici tentarono di addossare ai nazisti).
In seguito all’invasione tedesca della Russia (22 giugno
1941), il dittatore sovietico – dietro pressioni dell’Inghilterra – fu
costretto ad addivenire ad un accordo con il governo polacco in esilio a
Londra, per la costituzione in Russia di un nuovo esercito Polacco Libero che
il Comando di Mosca avrebbe dovuto formare e favorire, e il cui comando sarebbe
stato affidato al generale Anders. L’obiettivo era quello di utilizzare le
truppe polacche sia a fianco dei sovietici che a fianco dei britannici,
entrambi impegnati contro le forze del Reich. E pur non vedendo di buon occhio
la ricostituzione di un esercito polacco autonomo, Stalin fu costretto a
collaborare.
Una volta liberato dal carcere, Anders si mise subito in
contatto con i vertici militari sovietici per chiedere notizie circa il destino
degli oltre 250.000 soldati (e 750.000 civili) polacchi deportati in Russia. Ma
ad Anders non occorse molto per capire che una gran parte di questi erano
misteriosamente “scomparsi” nei campi di concentramento russi. Dietro ordine di
Stalin, il Comando russo lesinò al generale polacco sia informazioni che aiuti
o mezzi, giustificando il tutto con l’emergenza guerra nella quale si stava
dibattendo il paese. Senza considerare che, pochi mesi dopo l’inizio del suo
lavoro, ad Anders venne fatto capire che il dittatore di Mosca non aveva alcuna
intenzione di equipaggiare, armare e fare combattere alcun soldato polacco in
difesa dello stesso suolo russo minacciato dalle armate tedesche.
E fu così che nella primavera del 1942 Anders chiese a
Stalin almeno il permesso di trasferire 159.000 ex prigionieri polacchi (gli
unici trovati ancora in vita nei gulag) in Persia e successivamente, con
l’aiuto dei britannici, Palestina, dove il locale Comando inglese avrebbe
provveduto ad addestrarli, armarli ed inserirli nelle armate impegnate in
Africa Settentrionale. Anders stimava che oltre un milione di polacchi
venissero lasciati in Russia. Dopo le note vicissitudini, ciò che rimaneva
dell’”Armata” di Anders raggiunse finalmente la Palestina, dove venne
acquartierato in appositi campi.
La nuova Armata polacca concluse il suo ciclo di addestramento
nel dicembre 1943, venendo poi trasferita dapprima a Quassassin (Egitto) e in
seguito (gennaio 1944) in Italia, dove andò ad affiancarsi all’8ª Armata
inglese. Nel corso della campagna d’Italia, i reparti del generale Anders
ebbero modo di distinguersi sulle alture di Monte Cassino, maggio 1944, e,
nell’agosto dello stesso anno, sul fronte adriatico. Dopo la resa tedesca (8
maggio 1945), l’Esercito di Anders, che in seguito all’occupazione sovietica
della Polonia era diventato per gli Alleati un “serio” imbarazzo politico,
venne smobilitato. E dei suoi 123.000 uomini, soltanto 77 ufficiali e 14.000
soldati accettarono di fare ritorno in patria.
BIBLIOGRAFIA:
Henrik Krog, Oleg Sheremet e William Wilson, The Russian
Polish campaign, Sito Internet.
Gilbert, Martin. The Second World War: A Complete History.
New York: Henry Holt and Company, 1991.
Keegan, John. The Second World War. New York: Penguin
Books, 1990.
James Sontag and James Stuart Biddie Nazi-Soviet
Relations, 1939-1941: Documents from the archives of the German Foreign Office.
Ed. Raymond. US Dept. of State, 1948.
U.S. War Dept. General Staff. Digest and Lessons of
Recent Military OperaVisto su tions: The German Campaign in Poland,
September 1 to October 4, 1939. Wash, 1942
Fonte: visto SU STAMPA LIBERA del 25 agosto 2013
Link: http://www.stampalibera.com/?p=66005#more-66005
POLISH DELEGATION COMMEMORATES WARTIME EXODUS TO IRAN
05.10.2012
A Polish delegation is taking part in commemorations in
Tehran on Friday, marking the wartime exodus of some 120,000 Poles to Iran
seventy years ago after being freed from Soviet captivity.
Today's tributes will take place at the Polish cemetery of
Dulab, where some 1892 Poles were laid to rest, largely owing to health
problems caused by the period in Soviet labour camps.
All in all, over 2900 Poles died in Iran after the journey from
the Soviet Union.
“Had it not been for the huge help given by the Iranian
people, many more Poles would probably have died,” said Dr Jan Ciechanowski,
leader of the Polish delegation, in an interview with Polish Radio.
“Therefore we must thank the Iranian people for the support
and care they showed, which helped thousands of Poles who had found themselves
in a tragic situation.
“Remembrance of this is our duty,” he stressed.
Ciechanowski, who is head of the state-backed Office for
Combatants and Victims of Oppression, noted that the trip is also an
opportunity to pay tribute to the entire 120,000 Poles who came to Iran seventy
years ago.
After the division of Poland by Germany and Russia in
September 1939, Stalin ordered the deportation of supposedly anti-Soviet
elements to labour camps across the Soviet Union.
Estimates of numbers of the deported range between 330,000
and over 1 million.
However, when Hitler attacked his Soviet ally in 1941 during
Operation Barbarossa, Stalin had to turn to Great Britain – and by default its
Polish ally – for support.
An amnesty was declared, and General Wladyslaw Anders, one
of the thousands of Polish internees in the Soviet Union, was allowed to raise
an army from among the prisoners.
The so-called Polish Second Corps journeyed to Iran, where
it regrouped and joined the fight against the Nazis, as part of the British 8th
Army.
Among the 120,000 that made it to Iran were about 43,000
civilians, including 15,000 children. (nh)
Fonte: visto su http://www.thenews.pl
del 05-10-2012
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