Le testimonianze raccolte dal nostro cronista, unico
reporter italiano nell'area del presunto attacco chimico: "Le bombe sono
un incubo. Eppure la storia del sarin..."
La sopraelevata è quella della circonvallazione sud di
Damasco.
Ottocento metri più in là, oltre il fiume Barada, c'è Jobar,
il villaggio punta di lancia dello schieramento ribelle che attraversa la piana
di Ghouta, la foresta («ghouta» in arabo ndr) degli orrori dove a dar retta a
Obama le armi chimiche avrebbero ucciso più di mille e cinquecento persone.
Qui, a meno di 800 metri, si stende uno dei quartieri più
eleganti di Damasco, il preferito dalla borghesia cristiana della capitale. Ma
anche qui eleganza e lusso hanno lasciato il posto a guerra e distruzioni. Il
«Caffè di Roma» ne porta tutti i segni.
Una settimana fa, pochi giorni dopo la strage chimica
destinata a far scattare l'intervento statunitense, le granate provenienti da
Jobar sono esplose sul marciapiede qui davanti, hanno colpito in pieno Padre
Amer, un prete siro cattolico sedutosi per un caffè pomeridiano. «Urlava, era
in un lago di sangue, aveva la faccia distrutta, il fianco completamente aperto
- ricorda Rania una ragazza cristiana - ora è ancora in ospedale preghiamo ogni
giorno per lui».
Ogni angolo di questo quartiere conta morti feriti e
distruzioni. A Berj Aruss Street sabato 24 agosto un missile katyusha esploso
davanti alla scuola elementare e media di Lourd spedisce al camposanto sei
persone e ne manda all'ospedale altre 15. A Kalil e Yaziji Street le colonne in
plexigas degli ascensori esterni sono un ricamo di bombe e proiettili. In ogni
caseggiato incontri qualcuno pronto a raccontarti dei feriti di famiglia e
dell'angoscia quotidiana. Eppure bomba dopo bomba la vita continua: «Siamo
stati colpiti già tre volte. Ogni volta spendo trecento dei vostri euro per
rimettere a posto le vetrine» racconta Mohammed Osman, un sunnita 29enne
proprietario di «Carissima», il negozio di scarpe da donna più elegante della
zona e di altre due boutique d'abbigliamento. «Voi occidentali mi fate
impazzire. Prima dell'embargo venivo da voi in Italia almeno due volte all'anno
a fare il pieno di scarpe, ma ora non capisco più come ragioniate. Parlate di
quell'attacco chimico e vi dimenticate che noi da oltre due mesi viviamo
quest'incubo delle bombe ribelli. Io sono sunnita e stando a voi dovrei stare
con gli oppositori armati, invece sono qui a cercar di mandare avanti gli
affari e a beccarmi le bombe di quegli integralisti arrabbiati. Una settimana
fa, quando i colpi di mortaio hanno colpito il mio negozio per la terza volta,
due mie clienti mi sono impazzite dalla paura. Erano terrorizzate. Voi invece
parlate solo delle armi chimiche e non vi chiedete come mai, a un chilometro di
distanza, nessuno si sia accorto di nulla. Pensate veramente che il nostro
esercito sia così pazzo da sterminarci tutti».
Malek, un regista sulla sessantina seduto sul balcone di un
appartamento affacciato su piazza Khouri tira le tende, mostra finestre e
tapparelle trasformate in colabrodo. «Io nella vita faccio il regista sono
abituato a cercar di capire quel che mi succede attorno. Qui ogni notte vedo e
sento i bombardamenti dei ribelli. Vedo anche quelli dell'esercito che
risponde. Quando il tutto sale d'intensità scappo in cantina per salvare la
pelle. Di gas non ne ho mai visto l'ombra. Eppure vivo in prima fila. Se faccio
due passi e arrivo a quell'angolo riesco a scorgere le case e le strade di
Jobar. Tutta questa faccenda mi sembra perfettamente in linea con la politica
di Obama. Lui è un presidente assai bravo a predicare, ma assai poco attento a
guardare cosa succeda veramente sulla faccia della terra. Si sforza di credere
alla faccenda dei gas perché si sposa bene con la sua strategia. Lui sta
dalla parte dei ribelli e li usa per i suoi scopi. Ma mi fa veramente ridere
quando minaccia di bombardarci per salvare il popolo siriano. Là davanti a
Jobar combattono tunisini, afghani, ceceni, turchi e al qaidisti nemici
dell'America. Qui invece vivono solo siriani. Siriani di tutte le fedi e di
tutte le etnie come è sempre stato qui in Siria negli ultimi cinquant'anni. Ma
per lui il vero popolo siriano è quello venuto dall'estero. Quello che ci spara
addosso da Jobar».
Fonte: Ssrs di Gian Micalessin – da Il Giornale.it di
mercoledì , 03/09/
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