di TONI NEGRI
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I. Quando si dice globalizzazione dei mercati si
intende che con essa vanno imponenti limiti alla sovranità dello
Stato-nazione. Il fatto di non aver compreso la globalizzazione come un
fenomeno irreversibile costituisce l’errore essenziale delle sinistre nazionali
nell’Europa occidentale. Fino alla caduta dell’Unione Sovietica la
leadership americana consistette nel combinare, prudentemente ma con
continuità, le specificità nazionali dei paesi compresi nelle alleanze
occidentali (e nella Nato soprattutto) e la continuità dell’imperialismo
classico, raggruppandoli dentro un dispositivo di antagonismo con il mondo del
“socialismo reale”. Dal 1989 in poi, crollato il mondo sovietico, allo hard
powerdella potenza americana si è man mano sostituito il soft power dei
mercati: la libertà dei commerci e la moneta hanno subordinato, in quanto
strumenti di comando, il potere militare e di polizia internazionale – il
potere finanziario e la gestione autoritaria dell’opinione pubblica hanno
d’altra parte costituito il campo sul quale soprattutto si è esercitata la
nuova impresa politica di sostegno alla politica dei mercati. Il neoliberalismo si è fortemente organizzato
a livello globale, gestisce l’attuale crisi economica e sociale a proprio
vantaggio avendo verosimilmente davanti a se un orizzonte radioso…. A meno di
rotture rivoluzionarie, non essendo immaginabile una trasformazione democratica
e pacifica degli attuali ordinamenti politici del neoliberalismo sull’orizzonte
globale.
Di contro, al rafforzamento del sistema capitalistico nella
forma neoliberale, lo sbandamento delle forze politiche della sinistra dopo ’89
è stato massiccio. Accanto alle forze dogmatiche che, nella fedeltà a forme
ideologiche arcaiche, rinunciavano ad ogni comprensione della lotta di classe
in un mondo profondamente rinnovato dalla globalizzazione e dalle
trasformazioni del modo di produrre, si è creata allora una nuova corrente di
pensiero e di azioni socialiste che, nel tentativo di mediare con la novità
della situazione, l’hanno spinto invece fino a punte estreme di alleanza con il
neoliberalismo.
I processi di unificazione del continente europeo e gli
istituti nei quali viene sviluppandosi la discussione sulla costituzione
europea, hanno costituito un luogo esemplare del vuoto e dell’impotenza
politica della sinistra, sia di quella “terza via” blairiana (il cui
orientamento si è presto identificato con le pulsioni più forti ad una
strutturazione politica dell’Unione europea a carattere neoliberale) sia, al
contrario, di quei gruppi che hanno nascosto, dietro il rifiuto dell’unità e
dello sviluppo delle istituzioni europee, la loro incapacità di costruire una
linea alternativa a quella neoliberale: ciò avrebbe significato mettere in
discussione lo Stato-nazione, il diritto pubblico nazionale ed il sistema
amministrativo della modernità capitalista. Il fallimento di queste forze,
prese nel loro insieme, è stato gigantesco.
Se vogliamo procedere nella discussione, chiediamoci dunque
quali siano le condizioni teoriche e politiche che possono permettere di
riaprire una prospettiva di lotta sul realistico terreno della costruzione
sovversiva di un’Europa unita. È una questione posta oggi dai movimenti che
stanno imparando a lottare contro la crisi sul livello europeo.
II. In cosa consiste il capitalismo finanziario
e/o biopolitico? Consiste nella sussunzione della società, anzi, della vita
stessa, sotto il dominio del capitale, senza alcun residuo. Come si esercita il
comando dei mercati sulla struttura della società, oggi? Non posso
evidentemente fermarmi troppo su questo punto. Basta dire che il comando
funziona attraverso un uso invasivo del controllo monetario, indirizzato
all’accumulazione della rendita finanziaria. Essa riorganizza i rapporti
produttivi e riproduttivi secondo schemi di approfondimento – talora di
vera e propria restaurazione – di rapporti di sfruttamento. L’azione dei
mercati finanziari privilegia (per la sua valorizzazione) le industrie della
produzione dell’uomo per l’uomo, cioè il welfare, servizi produttivi
metropolitani, ivi compresi quelli informatici, ecc. – e le industrie
estrattive, energetiche, ecologiche e diagrobusiness. Si tratta di una
nuova figura dell’“accumulazione originaria” nella quale l’appropriazione
capitalista si applica allo sfruttamento del bios – umano
e naturale – alla captazione del valore espresso da un’intera società. Una
prima definizione di “comune” (così come proposto dai movimenti) sembra così
esser stata qui formulata: nel rovesciamento di quel campo dello sfruttamento.
A noi interessa a studiare le contraddizioni che su quel
terreno, spesso caotico, dell’attacco neoliberale, sono stati evidenziate dai
movimenti. Sono contraddizioni difficilmente superabili, che il potere tende a
trattenere in una governance eccezionale, in un governo di
emergenza di lunga durata, per ristrutturare l’intera società. Ma osserviamo da
subito la serie di paradossi che questa governance si trova ad
agire.
a. Un primo
paradosso riguarda la produzione e consiste nel fatto che il
capitalismo finanziario rappresenta la forma più astratta e
distaccata di comando nel momento stesso in cui concretamente investe la vita
intera. La “reificazione” della vita e l’“alienazione” dei soggetti vengono
imposte da un comando produttivo, sopra una forza-lavoro cognitiva, che sembra
essere – in quanto comando finanziario – divenuto del tutto trascendente.
Questa forza-lavoro cognitiva, obbligata a produrre plusvalore, proprio perché
cognitiva, immateriale, creativa, non immediatamente consumabile, si
rivela autonomamente produttiva. Trascendenza finanziaria contro autonomia
cognitiva: ecco una prima contraddizione.
Essa si presenta in maniera piena quando si consideri che,
essendo la produzione essenzialmente fondata sulla “cooperazione sociale” (sia
informatica, sia nelle pratiche di cura, sia nei servizi, ecc.), la
valorizzazione del capitale non si scontra più semplicemente con la
massificazione del “capitale variabile” ma con la resistenza e l’autonomia di
un proletariato che si è riappropriato di una “parte” del capitale fisso
(presentandosi quindi, se volete, come “soggetto macchinico”) e di una continua
“relativa” capacità di organizzare autonomamente le reti lavorative sociali.
b. Il secondo
paradosso è quello della proprietà. La proprietà privata (quella
che definiamo giuridicamente come tale) tende ad essere assoggettata sempre di
più alle figure dell arendita. La rendita nasce oggi essenzialmente da
processi di circolazione monetaria che si effettuano nei servizi del capitale
finanziario e/o in quelli del capitale immobiliare – oppure dai processi di
valorizzazione che si realizzano nei servizi industriali.
Ora, quando i beni (privati) si presentano come servizi, quando
la produzione capitalistica si valorizza essenzialmente attraverso i servizi,
la proprietà privata sfuma le sue tradizionali caratteristiche di “possesso” e
si rappresenta piuttosto come prodotto della cooperazione sociale che
costituisce e rende produttivi i servizi. Come restituire alla proprietà
privata quella funzione fondamentale (nell’ordinamento sociale) di cui il
capitalismo ha bisogno? Quando la proprietà viene socializzandosi, come
restituirle la qualità del comando privato?
Questo ci si chiede spesso e si risponde: sono i poteri
pubblici che devono farlo. Ma, nelle società postindustriali, la mediazione
pubblica dei rapporti di classe risulta sempre più difficile, perché la
sovranità è stata privatizzata (patrimonializzata dal capitale finanziario)
nella stessa misura nella quale la proprietà privata si è dissolta, si presenta
cioè non più come possesso ma come uso di un servizio. Il “pubblico sovrano”
non si scontra più con le corporazioni, i sindacati, le istanze collettive del
lavoro (che d’altra parte si rappresentavano essi stessi come soggetti
privati), ma con la cooperazione e la circolazione sociale di figure che si
compongono e si ricompongono continuamente nella produzione materiale e nella
produzione cognitiva: insomma, con quello che chiamiamo “comune”. Intendiamo
qui dunque per “comune” il riconoscimento che la produzione oggi si realizza in
maniera sempre più cooperativa: questa cooperazione è bensì direttamente
comandata dal capitale finanziario ma è direttamente agita dalle nuove figure
della forza-lavoro cognitiva – cioè da quelle medesime potenze sociali che
un tempo chiamavamo “classe operaia”. C’è dunque una progressiva
“patrimonializzazione privata” dei beni pubblici che, mentre distrugge
l’istituto della pubblica proprietà, deve far valere l’ideologia della
proprietà privata – e a questo combinato disposto seguono la messa in moto (a
seguito di quella dissoluzione) di una deriva continua della gestione del
pubblico nell’emergenza, lo scivolamento dell’emergenza nella corruzione, la
distruzione del comune nel potere di eccezione.
Il pubblico sovrano si pone ormai solo in maniera
paradossale e tende a dissolversi, a fronte del “comune” che emerge all’interno
dei processi di produzione sociale e nella cooperazione valorizzante. Quel
comune è piuttosto direttamente captato dai poteri finanziari, dal mercato
globale: hic Rodhus, hic salta.
c. Il terzo
paradosso è quello che il biocapitale verifica nel suo confronto con i
corpi dei lavoratori. Qui lo scontro, la contraddizione, l’antagonismo si
esprimono nel modo più evidente, perché il capitale (nella fase
postindustriale, nell’epoca cioè in cui diviene egemone la produzione
cognitiva) deve mettere direttamente in produzione i corpi umani, facendoli
diventare macchine, non più semplicemente merce-lavoro. Ciò deriva dal fatto
che (nei nuovi processi di produzione) sempre più efficacemente i corpi si sono
specializzati ed hanno conquistato una relativa autonomia. Non a caso,
attraverso la resistenza e le lotte della forza-lavoro macchinica, si sviluppa
sempre più espressamente la richiesta di una produzione dell’uomo per l’uomo,
cioè per la macchina vivente “uomo”. Su questo sviluppo si applica l
sfruttamento del capitale finanziario.
In effetti, nel momento in cui il lavoratore si riappropria
di una parte del “capitale fisso” e
1) si presenta, in maniera variabile, spesso caotica, come
attore cooperante nei processi di valorizzazione, come “soggetto precario”, ma,
d’altra parte,
2) come soggetto “autonomo” nella valorizzazione del
capitale, si dà una completa inversione nella funzione del lavoro rispetto al
capitale: il lavoratore non è più solo lo strumento che il capitale usa per
conquistare la natura – che vuol dire banalmente produrre merci; ma il
lavoratore, avendo incorporato lo strumento, essendosi metamorfosato dal punto
di vista antropologico, riconquista “valore d’uso”, agisce “macchinicamente”,
in un’alterità ed autonomia dal capitale, che tendono a divenire complete.
Tra questa tendenza oggettiva e i dispositivi pratici di
costituzione di questo lavoratore macchinico, si colloca una lotta di classe
che ormai possiamo dire “biopolitica”.
Tutti e tre questi paradossi restano irrisolti nello
sviluppo del capitale – si configurano anzi come contraddizioni accentuate
dalla crisi. Di conseguenza, quanto più la resistenza diviene forte, tanto più
diventa feroce il tentativo di restaurazione del comando da parte dello Stato
(organo del capitale), tanto più decisivo diviene l’uso della violenza. Ogni
resistenza viene quindi condannata come esercizio illegale di contropotere,
ogni manifestazione di rivolta definita devastazione e saccheggio. Ulteriore
effetto – ed ancora è pura mistificazione: nell’esercitare il massimo di
violenza, il capitale ed il suo Stato devono mostrarsi come figura necessaria e
neutra; il massimo della violenza è esercitato da strumenti e/o da organi
“tecnici”. “Non c’è alternativa”, proclamava la Thatcher.
III. Se questa è la costituzione politica del
presente, nella crisi e nel progetto neoliberale di una stabilizzazione, è
evidente che nei movimenti di resistenza si esprimono indignazione, rifiuto e
ribellione e viene formandosi il disegno di costruire nuove istituzioni che
corrispondano alla potenza sociale della cooperazione produttiva. Ripercorriamo
dunque i terreni sui quali abbiamo verificato paradossi e contraddizioni.
Ad a. Confrontandosi al “paradosso della
produzione”, si tratta di ribadire vecchio punto del programma comunista – cioè
quello dell’“autovalorizzazione” operaia e proletaria, riappropriandosi
progressivamente, sempre più decisamente, del capitale fisso impiegato nei
processi produttivi sociali, contro il moltiplicarsi delle operazioni di
valorizzazione-cattura-privatizzazione che il capitale finanziaria sviluppa.
Riappropriarsi del capitale fisso significa costruire “comune” – un comune
organizzato contro l’appropriazione capitalista della vita, un comune come
sviluppo di “usi” civici e politici e come capacità di gestione democratica ed
autonoma, dal basso. Riconquista di sapere e di reddito sono obbiettivi che
qualificano in maniera primaria il proletariato cognitivo – sono fin
dall’inizio obbiettivi “politici”, tanto quanto lo era per il lavoratore
industriale “la lotta contro la riduzione del salario relativo che significa”
(lo ricordava Rosa Luxemburg) “lotta contro il carattere di merce della
forza-lavoro, cioè contro la produzione capitalistica presa nel suo insieme. La
lotta contro la caduta del salario relativo non è più una battaglia sul terreno
dell’economia mercantile ma un attacco rivoluzionario alle fondamenta di questa
economia; è il movimento socialista del proletariato”.
È in questa rubrica che vanno riprese, studiate, e ripetute
le esperienze fatte, per esempio in Italia, nell’agitazione militante sui
referendum per riappropriarsi e dare nuova figura giuridica ai “beni comuni”.
Ad b. Confrontandosi al “paradosso della
proprietà”, cioè nell’andare contro/oltre la proprietà privata, urge nei
movimenti la necessità di emergersi in quel contesto contradditorio di servizi
e reti sociali che oggi strutturano la cooperazione produttiva. Qui il
confronto pone subito il tema di muoversi “dentro e contro” le istituzioni del
potere pubblico. Si incrociano qui due linee principali: la prima è quella che
muove contro la inerte ma feroce mediazione repressiva dei poteri pubblici nei
confronti delle lotte di riappropriazione; la seconda è la lotta che
strategicamente investe il ruolo ed il potere della moneta.
Sul primo terreno, fondamentale è la capacità di rompere con
la governance gestita in forme neoliberali – per es. dai
governi tecnici. Che si tratti di pura mistificazione lo abbiamo già detto.
Abbiamo tuttavia discusso molte volte se era possibile immaginare, negli
scontri che i movimenti aprono attorno alla governance pubblica,
l’aprirsi di una sorta di “dualismo di potere” ed il problema resta aperto –
dubito però se ne possa decidere astrattamente, fuori dalle lotte. È su questo
punto, proprio in relazione all’intensità delle lotte sull’uso del comune, che
va lanciata la proposta di nuovi principi costituzionali, di nuovi diritti e di
una nuova legalità: il comune, il reddito, il rifiuto del debito e
l’insolvenza, la libertà di movimento, l’esercizio cooperativo del sapere,
il commonfare, la riappropriazione della moneta – su questi temi
ritorneremo in conclusione.
Veniamo poi al secondo tema, ad investire cioè con i
movimenti, la questione della moneta. A tutti è chiaro che, se la moneta è
mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la
possibilità di essere strumento di strutturazione della divisione sociale del
lavoro e di accumulazione del potere padronale contro i produttori. Alla Banca
centrale va contestata l’indipendenza – la Banca va assoggettata alle necessità
della “produzione dell’uomo per l’uomo” e sotto posta ad un disegno strategico
di riconfigurazione comune degli assetti sociali biopolitici.
Il problema non è
tanto quello di separare le “banche di deposito” da quelle “di investimento”,
quanto quello di dirigere risparmio ed investimento verso equilibri che
garantiscano la produzione dell’uomo per l’uomo.
Questa è battaglia politica che i movimenti più maturi hanno
già ingaggiato. Essa consiste – questa volta senza resipiscenze ideologiche e
senza indugi – nel contestare e sabotare la governancemonetaria del
biopotere, cioè nell’introdurre, ad ogni occasione possibile, claims e
rotture dal basso. Bisogna cominciare a chiedersi che cosa sia una “moneta del
comune” e sviluppare l’ipotesi che essa debba garantire riproduzione e la
quantità di reddito necessario per ogni cittadino ed il sostegno alle forme di
cooperazione che costituiscono la moltitudine produttiva.
Ad c. Torniamo ora sull’ultimo “paradosso”:
quello “fra biocapitale e corpi” dei lavoratori. Qui la contraddizione è
superabile solo eliminando il capitalista: questa dolorosa contraddizione nasce
infatti dal fatto che il capitalista non può fare a meno di sfruttare il
lavoratore se vuole costruire profitto e dal fatto che senza lavoro vivo non
c’è possibilità di produzione né di ricchezza.
È dunque questo il terreno proprio della politica. Dalla
parte del potere del capitale è il terreno della decisione sugli indecidibili,
con l’incertezza che sempre lo scuote fra fascismo e democrazia.
Ma è anche il terreno costituente da parte dell’insieme dei
corpi-macchina, singolari e potenti, nell’esercizio della lotta di classe. Per
questi corpi far politica è costituire “istituzionalmente” la moltitudine, cioè
strappare le singolarità alla solitudine ed situarle, istaurarle nella moltitudine,
ovvero trasformare l’esperienza sociale della moltitudine inistituzione
politica.
Perciò, i movimenti attuali, sempre più impetuosamente,
chiedono anche di superare il modello costituzionale della modernità – sette-,
otto- e novecentesco – dove il potere costituente veniva meno dopo aver
concluso l’azione rivoluzionaria. Più realisticamente si afferma oggi che il
potere costituente non possa essere chiuso nella ricostruzione dell’Uno del
potere. Non si fanno rivolte per prendere il potere ma per tenere sempre aperto
un processo dei contropoteri, sfidando i dispositivi di cattura sempre nuovi
che la macchina capitalista produce. L’esperienza delle lotte ha insegnato che
la rappresentanza politica sempre va in crisi perché (attratta nel meccanismo
della sovranità, distillata nella puzzolente e magica alchimia elettorale) non
regge il confronto con la verità e la ricchezza sempre rinnovate della
composizione sociale della classe lavoratrice.
Tutti i movimenti a partire dalla primavera 2011 vogliono
una “controdemocrazia” conflittuale, che viva di rivendicazioni e protesta, di
resistenza e di indignazione – basta con il costituzionalismo “normativo”! Essi
pongono l’esigenza di costituzioni democratiche biopolitiche che non si
trasformano in macchine oppressive attraverso il filtro della legalità e della
formalità giuridica – ma si svolgono attraverso investimenti di “denaro
comune”, rivolti al continuo riequilibrio dei rapporti sociali, ponendo i
poveri al posto dei ricchi, e creando una vita costruita dall’uomo al servizio
dell’uomo.
Occorre qui affermare chiaramente che, alla faccia di tutti
i Nobel dell’economia, anche una produttività crescente è solo frutto di una
società uguale e libera. Di una società del “rifiuto del lavoro”.
IV. Quanto più la
crisi avanza e i movimenti maturano, tanto più si avverte che qualche cosa di
decisivo è avvenuto nelle coscienze dei lavoratori. È banale dichiarare che “il
‘900 è finito”, soprattutto quando questa frase è detta per cancellare il
ricordo delle formidabili esperienze di lotta operaia e i giganteschi tentativi
di costruire una nuova società che nel ‘900 si sono realizzati. Ma il fatto che
questi tentativi siano stati sconfitti (non in un giorno ma in un secolo,
appunto) non significa per nulla che il loro potenziale sia esaurito. Anzi: la
“vecchia talpa” ha continuato a scavare la sua speranza. Recuperare
l’esperienza socialista? Sì – se la inseriamo tuttavia in una nuova teoria, in
una nuova strategia… È quello che stanno facendo i nuovi movimenti.
Riconcentriamo allora la nostra attenzione su quanto avviene
nei movimenti che si battono nella crisi contro la crisi. È così operando che
ci potremo chiedere come studiare i processi di soggettivazione che in questa
condizione si danno, e quali siano le condizioni favorevoli o ostruttive che
permettono o bloccano una politica del comune.
Ora, in primo luogo, risultano senz’altro ostruttivi i
richiami alle riforme costituzionali che vengono proposte sul livello europeo;
quello che ci interessa qui – e che interessa i nuovi movimenti – è
piuttosto considerare le azioni politiche che si possono condurre per favorire
processi di soggettivazione adeguati ad un nuovo disegno sovversivo e
comunista.
Guardando ai movimenti, dunque, un primo gruppo di
iniziative può essere raccolto sotto la sigla: insolvenza. Contro
il debito, a favore del reddito di cittadinanza, le lotte riprendono quelle
vecchie sul salario relativo e divengono lotte rivoluzionarie perché mettono in
questione la misura del lavoro. Sempre su questo terreno sono poi in corso
esperimenti e tentativi di costruire una teoria ed una pratica dello “sciopero
precario”: di comprendere cioè quali siano le lotte che “fanno male” al padrone
nella nuova condizione dello sfruttamento sociale, a partire dalla condizione
di precariato imposta ai lavoratori. Le lotte che riconquistano spazi, piazze,
teatri, centri sociali, squat, ecc. entrano dentro questo quadro.
Ma soprattutto vi entrano quelle iniziative che riescono a riappropriarsi e/o
“mutualizzare” in forma alternativa la gestione di nodi di welfare,
dell’educazione, di politiche dell’abitazione, ecc.. In questo caso, si lotta
attorno al salario diretto e/o indiretto dei lavoratori, integrandone non solo
la quantità monetaria ma anche la qualità sociale.
Destituzioni. È questo il secondo terreno sul quale
si muovono oggi le lotte. Il primo punto consiste nel cercare di destituire le
filiere del comando capitalistico. Nel neoliberalismo, il caos sociale e
giuridico è considerato normale. Assumerlo, trasformando la governance da
momento di litigiosità in momento di “contropotere”, è compito di ogni forza di
opposizione al neoliberalismo. Abbiamo avuto in America latina esempi di
movimenti rivoluzionari (operai e/o indigeni) che per lungo tempo hanno
costruito ed imposto l’agenda dei governi. Non sarà facile in Europa ripetere
questa esperienza ma si tratta di provare, senza illudersi che questa capacità
di rottura possa consolidarsi in un meccanismo stabile di contropotere. In
questo caso, l’effetto destituente è ancora preminente rispetto a quello
costituente.
Taluni obiettano: questi movimenti sono inutili e talora
dannosi, perché riots e tumulti non creano istituzione? Questi
discorsi risultano oziosi, quando non siano provocatori se ritengono
implicitamente la dimostrazione che riots e tumulti non possono creare
istituzione: per ora non lo fanno – ribattiamo – perché l’effetto destituente è
ancora propedeutico e principale.
Sempre su questo terreno di attività destituente, c’è un
altro ambito di lotta che i movimenti percorrono – esso consiste nell’azione
contro le strutture costituzionali del biopotere capitalistico. Il tema è
quello – in questo caso – dello sviluppo di un potere costituente
democratico, di massa, moltitudinario.
Questi terreni di ricerca e di lotta sono stati soprattutto
identificatoi sul livello metropolitano. Laddove un tempo era la
fabbrica che centralizzava l’organizzazione del lavoro, oggi è la metropoli che
centralizza le reti di cooperazione del lavoro (cognitivo e non) e che
attraverso gli incontri eleva il grado di tensione e di fusione della
produzione e della lotta. Sul terreno metropolitano sempre di più stanno quindi
organizzandosi luoghi di incontro, di militanza, e di organizzazione del lavoro
materiale e del lavoro immateriale, del lavoro e del non-lavoro, della cultura
e delle culture (con i migranti) – luoghi di organizzazione di lotte, di
riappropriazione dei prodotti del “General Intellect”. È possibile cominciare a
costruire istituti di autogoverno che attivino forme di nuova
“mutualità” e di tutela sociale contro gli effetti più violenti della crisi? In
molti casi lo è stato. E ancora: accanto a questi elementi di apertura che
possiamo definire “intensiva” (rivolta cioè verso l’interno del tessuto
sociale) va sperimentato un dispositivo “espansivo”, insomma un dispositivo di
estesa apertura. Solo l’aggancio e la concatenazione fra le mobilitazioni in
diversi paesi europei può determinare la soluzione di continuità delle
politiche di crisi che oggi stiamo sperimentando.
Comunalizzazioni. Qui cominciano a giocare le
iniziative costituenti. In Italia, per esempio, i movimenti ci hanno provato.
Dal pubblico al comune: il cammino è quello di affermare il diritto di “accesso
al comune”, di realizzare quel desiderio di comune che ormai abita nel cuore
dei lavoratori. Ed infine, comunalizzare significa costruire nuove istituzioni
del comune ed in particolare quella “moneta del comune” che permetterà ai
cittadini di produrre in libertà e nel rispetto della solidarietà.
Da quanto fin qui detto, appare chiara un’alternativa: da un
lato c’è il bio-valore captato (estratto) dal capitale su tutta la società; e
quindi c’è la sua forma monetaria, la sua strutturazione funzionale allo
sfruttamento della società intera. D’altro lato, che cosa significa, a questa
altezza, costruire alternativa rivoluzionaria? Significa liberare la potenza
della forza-lavoro dal dominio capitalistico, imporre l’uguaglianza come
condizione di libertà.
Ponendo queste questioni, ed essenzialmente quella attorno
alla moneta, siamo ritornati alla domanda che c’eravamo posti all’inizio: che
fare nei confronti dell’Europa? Meglio: come si muovono i movimenti nei
confronti dell’Unione europea? È chiaro che il terreno dell’unità europea è
necessario ed irreversibile. Nella globalizzazione è impercorribile un cammino
politico che non abbia dimensioni continentali. Talora non sembra che i
movimenti lo abbiano compreso. È necessario dunque costruire nuovi modelli di
solidarietà e nuovi progetti di collegamento che sappiano negoziare le
differenze tra le geografie frastagliate non solo fra i vecchi stati-nazione,
ma anche fra le diverse storie dei movimenti attuali. Lo richiede l’urgenza
delle lotte, soprattutto quando il tema costituente va posto in maniera
centrale. Per riempire quest’agenda, occorre sviluppare una ricerca continua e
convergente, evitando le scadenze istituzionali europee e le campagne
elettorali che ci vengono continuamente riproposte. Probabilmente il punto
centrale di discussione consiste nel proporre un’azione contro la BCE,
consapevoli che essa rinnova il Palazzo d’inverno nell’Europa di oggi.
* Intervento a una conferenza a Saint Denis – 18 gennaio
2013.
COMMENTI
Alvaro:
L’ex sindaco democristiano di Padova Gottardo, oggi PdL, fu
allievo di Toni Negri ed afferma che, più che essere stato un cattivo maestro,
Toni Negri ebbe cattivi discepoli.
Negri pronosticava già allora quello che si sta verificando
adesso. Non si riusciva ad incastrarlo penalmente ed allora il pm Calogero
costruì un pretesto, accusandolo di aver collaborato a procurare una carta
d’identità falsa ad un soggetto residente a Ferrara.
Per il pensare comune degli italiani divenne un terrorista
che si macchiò di complicità in attentati cruenti ma la Francia non dette mai
credito alle sentenze dei nostri tribunali.
Antonio:
Carissimo professore, ottima analisi ma manca la parte fondamentale:
la proprietà della moneta emessa. Una moneta di proprietà del popolo,
ridurrebbe drasticamente a zero tutti i conflitti. Vedo che lei, parla, parla,
parla, ma della questione principale, la sovranità monetaria, la moneta
statale, non ne accenna nemmeno. Secondo la mia opinione, lei è un falso
profeta al servizio delle banche. Come tutti i comunisti del resto. Saluti.
Visto su STAMPA LIBERA
del 25 gennaio 2013
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