Ma se l’Italia va a
rotoli peggio che mai, perché lo spread scende? Spiegazione di un mistero
Il differenziale tra
titoli di Stato dice poco sull’economia reale dei paesi, serve solo a capire le
intenzioni di quei «pochi potenti che detengono la ricchezza del mondo». E
comandano i mercati. Intervista a Fabrizio Pezzani (Bocconi)
Se veramente lo spread fosse un’indicatore dell’”economia
reale”, allora, in Italia, il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato
decennali (Btp) e il Bund tedesco non dovrebbe attestarsi a meno di
duecentocinquanta punti base, com’è attualmente, ma «come minimo a mille punti
base». Ne è convinto Fabrizio Pezzani, docente dell’Università Bocconi di
Milano, secondo il quale, dal novembre del 2011, quando lo spread aveva
superato i cinquecento punti base e le tensioni sui mercati portarono alle
dimissioni di Berlusconi aprendo la strada alla “salita” in politica di Monti,
«da quel momento a oggi sono peggiorati i conti pubblici, il debito, il
rapporto debito/Pil, la disoccupazione, il numero dei fallimenti, la povertà,
il disagio sociale, l’instabilità politica e anche il giudizio guidato
strumentalmente delle agenzie di rating sui nostri conti». Tutto
questo, prosegue Pezzani, mentre «inspiegabilmente il nostro spread
migliora continuamente e oggi è simile a quello di agosto 2011, tra i 220 e i
240 punti base».
IL TERMOMETRO DEI POTENTI. Come mai, dunque, lo
spread non peggiora, anzi addirittura migliora? Hanno ragione coloro i quali
sostengono che non conti nulla e sia solo una variabile economica impazzita?
Niente affatto. Lo spread è un indicatore prezioso secondo Pezzani, ma lungi
dal fotografare lo stato di salute di un’economia nazionale, rappresenta le
intenzioni e le manovre della finanza globale, ossia di quei pochi attori che
«detengono la ricchezza» del mondo.
DOVE SONO TUTTI I SOLDI. Se, infatti, un tempo «la
ricchezza era facilmente individuabile negli Stati nazione che materialmente la
possedevano», oggi, spiega il professore, «ci troviamo di fronte a una
situazione assolutamente nuova nella storia dell’uomo». Per farsene
un’idea basta guardare a un dato: «Nelle isole Cayman sono depositati 30 mila
miliardi di dollari, che insieme eguagliano il Pil degli Stati Uniti, della
Cina e di un pezzo del Giappone messi insieme». Oppure, continua Pezzani, si
pensi ai derivati, che «nel 1989, l’anno in cui cadde il Muro di Berlino,
rappresentavano un ventesimo del Pil mondiale, nel 1999 erano già il doppio di
esso e nel 2009 ammontavano addirittura a venti volte il Pil della Terra».
Ebbene, di tutti questi derivati, alla vigilia della crisi finanziaria, il 95
per cento era posseduto da sole «cinque banche: Goldman Sachs, J.P. Morgan,
Morgan Stanley, Bank of America e Citi Bank». Che si riempivano di titoli
tossici, secondo l’economista, al solo scopo di «tenere bassa la volatilità del
dollaro».
LA RICCHEZZA FINE A SE STESSA. In un mercato che si
muove secondo regole diverse da quelle dell’economia reale, dunque, «il nostro
spread – prosegue Pezzani – rimarrà ancora basso contro ogni ragionevolezza
razionale, perché il rischio di un ulteriore attacco al paese, dopo quello del
2011, potrebbe far saltare, con effetto domino, un banco finanziario globale in
cui il valore del dollaro è sempre più lontano dal valore dell’economia reale
che dovrebbe rappresentare». Peccato che in questo modo «una terribile bolla
finanziaria continua a gonfiarsi». L’Italia, insomma, come testimonia
proprio l’andamento del suo spread, è solo una piccola pedina di un immenso
scacchiere «interamente gestito da un oligopolio di potenti». Sul mercato,
secondo Pezzani, «la concorrenza è ormai impossibile», o è forse solo «un
miraggio», visto che le dinamiche economiche dipendono dalle decisioni di pochi
uomini. Uomini che per di più vedono l’economia, nella fattispecie la finanza,
come «fine a se stessa, strumento per la creazione della ricchezza».
DUECENTO ANNI DI PURGATORIO. Tutta questa
“astrazione”, però, ha un prezzo, dice Pezzani: «Si è perso per strada
l’uomo». «C’è poco da fare – conclude il bocconiano – per
uscire dalla crisi, si deve tornare a mettere al centro l’uomo, i
poveri, come
suggerisce Papa Francesco e come avviene in una qualsiasi famiglia
dove, quando qualcuno sta male, tutti cercano di aiutarlo, come possono». È
chiaro che sarà facile né il recupero del ruolo centrale della persona: il
momento attuale, avverte Pezzani, è «analogo alla fine dell’impero
romano, l’epoca dei barbari»; anche allora l’umanità «prima di conoscere lo
splendore del Medioevo dovette attendere circa duecento anni di travaglio».
Fonte: visto su tempi
del 16 ottobre 2013
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