di Gilberto Oneto
La serata di sabato scorso a Cologno al Serio ha dato un interessante spaccato dell’atteggiamento della politica nei confronti della cosiddetta “questione settentrionale”.
La serata di sabato scorso a Cologno al Serio ha dato un interessante spaccato dell’atteggiamento della politica nei confronti della cosiddetta “questione settentrionale”.
Da una parte il variegatissimo e inutilmente litigioso mondo
autonomista: la Lega, i partitini veri e quelli virtuali; dall’altra i tre
maggiori partiti “italiani” (Pd, Pdl e 5Stelle); in mezzo chi cerca di
ragionare, scrivere e proporre soluzioni. Si è parlato senza troppi giri di
parole di indipendenza e questo è il primo elemento positivo: l’hanno
accettato (non si sa se per opportunismo, furbizia o reale spirito di
confronto) anche i partitanti italiani. Si è parlato di soluzioni e proposte
concrete e questo è un altro punto incoraggiante. Se ne è parlato in un momento
(che dura come un’era geologica) in cui tutti sono presi dai domiciliari di
Berlusconi, da sigle fiscali estorsive, da “spread”, da sbarchi,
tutte cose che hanno peso ma che sono davvero niente di fronte al problema dei
problemi: l’avvenire e le ristrette prospettive di sopravvivenza della comunità
di comunità che si chiama Padania, Nord, Settentrione, Eridania o anche
– con linguaggio medievale e rinascimentale – Italia. Quella parte di
mondo che se ne sta fra le Alpi settentrionali e quelle meridionali, sopra la
Linea Gotica o – secondo altri – sopra il mitico Fosso del Chiarone. È un posto
che da alcune migliaia di anni è stato uno dei motori della cultura, dell’arte
e dell’economia del mondo occidentale e che oggi rischia di sprofondare
nella miserabile gora mediterranea, pieno di acciacchi, debiti, derubato e
maltrattato.
Dalla serata è emerso con chiarezza che si tratta del
problema principale che tutti devono oggi affrontare, della madre (ma anche il
padre, anzi il “genitore 1 e 2”) di tutti i problemi. Questa comunità deve
nell’immediato futuro decidere se vuole sopravvivere, se avere una
speranza di vita o se lasciarsi andare in un fatalistico naufragio che durerà
fintanto che ci sarà qualche scorta accumulata e che alla fine porterà
all’estinzione. Oggi discutere e decidere quale strada intraprendere per
cercare di scamparla è quasi secondario di fronte alla necessità di far
comprendere ai padani la drammaticità della loro situazione, di mostrare a chi
sta inebetito a ballare sul Titanic che un enorme iceberg sta penetrando
nello scafo della nave e che è il momento di calare le scialuppe di
salvataggio, i gommoni, i giubbotti e anche le tavole di cucina, salirci su e
cercare di andarsene. Non c’è verso di chiudere la falla o di inventarsi
costosi raddrizzamenti tipo Isola del Giglio. La nave non può essere
rattoppata.
Lo Stato italiano non può essere riformato
perché è stato inventato e tenuto in vita proprio per opprimere i cittadini
padani e dilapidarne le risorse: smetterà di farlo solo quando queste
saranno finite.
È meglio cercare di
prendere il largo finché si hanno ancora energie; lo stato comatoso non
permette di remare o nuotare. Per questo oggi non si può che parlare di
indipendenza. Per questo ai nostri concittadini ricchi o poveri, di destra o di
sinistra, brutti o belli si deve fare capire che non ci sono alternative
all’indipendenza dall’Italia.
Come arrivarci: referendum, iniziative regionali,
Macroregione, Padania? Avremo tutto il tempo di discuterne quando ci saremo
allontanati dal pericolo di venire risucchiati nell’inabissamento del chiattone
dello Stato italiano.
Bisogna dirlo ai tanti lettori de L’Intraprendente
che magari credono ancora – per tradizione, educazione, o commovente buona fede
– che l’Italia sia una buona cosa e non una organizzazione malavitosa da cui
difendersi, una tetra prigione da cui evadere o una gigantesca carretta del
mare da cui squagliarsela sulla scialuppa dell’indipendenza.
Fonte: visto su L’intraprendente del 7 ottobre 2013
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