di GILBERTO ONETO
Ernesto Galli della Loggia è uomo colto e intelligente
che però è vittima di un tormento interiore, di una scelta dolorosa e sempre
rimandata, che sembra essere riassunta dal suo cognome, in bilico fra celtismo
padano e italianità massonica, fra ribellistico slancio di libertà gallico e
costrizioni mentali da setta patriottica.
Il suo impegno esprime la dilaniante contrapposizione
fra la constatazione del fallimento dell’Italia unita e la necessità di
continuare – oltre ogni ragionevole dubbio – a sostenerne l’intangibilità.
Le sue critiche agli esiti politici, economici,
sociali e culturali della società italiana sono devastanti ma continua a
rifiutarsi di ammettere che non si tratta del risultato di una cattiva
esecuzione o gestione di un progetto (l’unità) ma dell’inevitabile conseguenza
dell’errore di fondo che è stato di voler mettere assieme cose e parti che non
possono stare assieme. Questo suo impegno a voler salvare a ogni costo una cosa
che è destinata per propria essenza a fallire lo porta a gloriose arrampicate
sugli specchi. In un famoso volume dedicato proprio all’impossibile opera di
giustificazione dell’ingiustificabile (L’identità italiana, 1998) ha
scritto brani ineguagliati di impossibile abbraccio fra amor di patria
italiana e rispetto del buon senso.
«In Italia, l’accessibilità umana e la permeabilità
culturale, unendosi alla incomparabile varietà delle morfologie geo-ambientali
ed al precocissimo, immane, deposito storico-culturale, hanno prodotto
piuttosto una capacità di adattamento, una plasmabilità e ricettività dei
quadri mentali e dei modi espressivi, una propensione al sincretismo, una
mobilità dello spirito, una disponibilità a immaginare e a trovare (e però
subito dopo anche ad abbandonare ciò che si è appena trovato), che nel bene e
nel male – nel molto bene e nel non poco male – possono essere considerati
tutt’insieme un tratto dell’identità del paese». Ossignùr!
E ancora:
«L’identità italiana è data dal sovrapporsi di questa
molteplicità su questo fondo unico; è una varietà di forme di vita e di
esperienze che affondano però le radici in un terreno comune, ha anch’essa alla
fine un accento solo, dal momento che comuni ed eguali sono gli elementi che
entrano nelle sue pur molteplici combinazioni. Proprio perciò essa sembra debole:
perché la parte più importante di questa identità – ciò che per l’appunto è
uguale e comune, ciò che è identico, e che conta che sia tale – è la parte
nascosta nelle viscere del tempo. Ma il fatto di essere nascosta non significa
che non ci sia». Sublime e ipogeo!
Eppure, solo due anni prima (La morte della patria,
1996) aveva avuto il coraggio di esprimere una verità “migliana”:
«In Italia, infatti, la nazione – come si sa – lungi dal
preesistere allo Stato ne è stata, invece, piuttosto una creatura, quasi un
effetto derivato. Nella nostra storia l’esistenza della nazione è
indissolubilmente legata all’esistenza dello Stato (nazionale), sicché, da un
punto di vista storico il concetto e il sentimento di patria costituiscono
precisamente il riflesso ideologico-emotivo di questo intreccio».
Nell’articolo pubblicato sul Corriere l’altro
giorno, riaffiorano potenti tutte queste contraddizioni: l’Italia è
un bugliolo di malaffare, di ignoranza, di inefficienza e di ogni altra
nequizia, è fatta di “due Nazioni immensamente lontane” ma bisogna cercare una
soluzione che la salvi.
Non è più tempo di accanimento terapeutico, eppure i
cerusici che accorrono accorati al suo capezzale sono numerosi: ci sono i
patrioti più inossidabili (quelli da analisi e quelli descritti da Samuel
Johnson), ci sono tutti quelli che vivono più o meno legalmente di unità, ci
sono gli Astoni, i luigini, i Tosi, i fratelli d’Italia, gli Alfani e i
Napolitani. Spiace che una bella testa come il Galli partecipi a questi riti
vudù attorno al capezzale tricolore.
Non serve neppure l’eutanasia: si lasci morire lo Stato
italiano di morte naturale (la va a pochi) ma ci si impegni a mettere in
salvo i cittadini. Si prenda atto che l’unità è fallita e che ci sono
almeno due comunità incompatibili che, separate, vivrebbero molto meglio:
sicuramente potrebbero sopravvivere alla tempesta. Per parte nostra, si
organizzi la scialuppa padana, si imbarchino acqua, viveri, gps e coperte. Non
servono sandolini, catamarani o barchette strane: la strada l’ha indicata con
estrema chiarezza Miglio parecchio tempo fa. Neppure il pessimo servizio
offerto negli ultimi lustri da taluni traghettatori improvvisati deve farci
perdere la rotta: non servono macroregioni e macrò, microregionalismi o
microcefali. Si metta in mare la grande arca con dentro tutte le specie
padane che ambiscono a sopravvivere al diluvio italiano. Coraggio Galli, c’è
posto anche per lei. Deve solo decidersi, ma non è difficile: di Italia
si muore!
Fonte: srs di Gilberto Oneto, visto su L’indipendenza
del 22 ottobre 2013
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