venerdì 22 novembre 2013

ROMA SALVATA CON 115 MILIONI. LA POPPATA NON FINISCE MAI



di GILBERTO ONETO

Il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto decreto “salva Roma” che stanzia una mancetta di 115 milioni per salvare il bilancio della capitale e impedirne la bancarotta.  Lo ha fatto alla svelta, in una riunione che è durata neanche un’ora ma non si confonda la rapidità con l’efficienza:  quando si tratta di dare soldi a Roma non si deve decidere un fico secco. È così e basta! Sarebbe come perdere tempo a stabilire per legge che l’acqua segue la forza di gravità: i soldi finiscono in quel buco perché i soldi sono raccolti proprio per quel buco e perché il buco stesso è stato fatto proprio per inghiottire soldi.

È così dalla notte dei tempi, quando i due fondatori poppavano a sbafo da una povera lupa prima di dedicarsi con nonchalance al fratricidio col coltello. Per secoli è stata la imperiale voragine per le risorse di mezzo mondo, per altri secoli ha arraffato le offerte delle cassette delle elemosine sparse su vari continenti e poi – quando anche i fedeli si sono rotti le palle di versare l’obolo  sanpietrino – si è inventata l’Italia per rapinare un pezzo di mondo più piccolo ma farlo con patriottica intensità e sistematicità.

Passano i regimi, scorrono i millenni ma la vocazione parassitaria resta immutata quasi che sia connaturale al posto, caratterizzato da una sua demoniaca e perpetua vocazione. In un suo romanzo di successo, lo scrittore Roberto Pazzi fa dire a un anziano e mal ridotto Leone XIII: «Gli scandali e la corruzione di questi ultimi anni l’attraversano come una cloaca, ora intendo perché Pietro vi ha posto la sua sede. Tutto sa inghiottire Roma, la sua morte spirituale le garantisce la sopravvivenza a tutte le fedi, gli ordini, gli imperi, i regimi, le monarchie;  la sua ferialità non mi ha mai ingannato, hanno ucciso Cesare, Pietro, Cola, cacciato e riaccolto Pio, con la stessa euforia, e già preparano i riti solenni dei miei funerali con la superficiale stupefazione che riserveranno al mio successore: non una città questa, il Mondo, questo Mondo, si specchia in quest’ombelico dell’Inferno…».

Lo stesso decreto lettiano prevede che l’amministrazione cittadina possa aumentare l’addizionale Irpef per fare fronte alla massa dei suoi debiti: la cosa è stata sdegnosamente rifiutata dal sindaco Ignazio Marino che – gonfiando il petto e con sguardo fiero da nipotino dei Cesari – ha proclamato senza farsi scappare da ridere: «Personalmente ho fatto resistenza in questi mesi a qualunque aumento di imposte per i romani, che già pagano tasse molto alte rispetto ad altre città, e farò ancora resistenza».  Ne siamo certi: farà resistenza come le oche del Campidoglio, schiererà le quadrate legioni dei pretoriani che si fanno fotografare davanti al Colosseo.  Tegn dür! Mai pagà!

Che non ci siano alternative alla fine dello Stato italiano lo sappiamo da tempo: padani, sudtirolesi, toscani, sardi e meridionali se ne vadano ciascuno per la sua strada. Qualcuno camminerà spedito fin da subito, altri faranno più fatica ma se la caveranno perché il problema di tutti è l’unità che proprio Roma rappresenta nella sua tricolore voracità.  Cosa ne sarà della Città Eterna e dei suoi dintorni?  I suoi astuti abitanti potranno anche vivere un po’ con il grisbì accumulato, poi dovranno tornare a fare gli affittacamere, gli stornellatori, i chierichetti, i venditori della Fontana di Trevi, le cortigiane, i ciceroni e gli osti. Quelli di loro che sono più portati, potranno anche uccellare e depredare turisti e pellegrini che passeranno da quelle parti, ma solo lì. Per ciulare il prossimo dovranno fare più fatica. Sarà un incentivo all’onestà.


Fonte: visto su  L’Indipendenza del  3 novembre 2013


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