Se quella era la libertà, perché mi sentivo morta? Oggi rispondo: perché venivo da una realtà mossa da interessi politici ed economici che speculava sulla sofferenza dell’altro
Ho scoperto di essere lesbica quando lavoravo negli ambienti
universitari. Mi occupavo di scienze sociali perciò, un po’ per lavoro, un po’
per interesse, iniziai a frequentare movimenti femministi. Provenivo da un
ambiente sociale e famigliare segnato da un forte clima di individualismo
(ognuno deve sapersela cavare da solo e bene), perciò non fu difficile per me
sposare ciò che il femminismo radicale insegna: la donna basta a se stessa e
l’uomo rappresenta un nemico. Nei numerosi circoli culturali che frequentavo,
notavo che i dibattiti, l’arte, le presentazioni librarie, la moda, la
comunicazione, gli eventi avevano un filo comune che tesseva l’immagine della
donna di oggi: difenditi e aggredisci per sopravvivere al maschio dominatore e
trova solidarietà e protezione nelle donne.
Eppure la quotidiana battaglia che vedevo non era verso il
maschio conquistatore dipinto in passato dal femminismo tradizionale. In
realtà, mi confrontavo sempre più con uomini profondamente in crisi con la
propria mascolinità, intimoriti dall’aggressività della donna e incapaci di
gestire e prendere decisioni. Conoscevo donne stanche (tra cui io stessa) di
condurre relazioni con uomini simili a bambini impauriti e immaturi. Conoscevo
uomini a metà, che dovevano tener testa all’aggressività della donna nella
società e sul lavoro. In questo scenario, la complementarietà uomo-donna si
stava trasformando in divergenza prima e ribaltamento poi della mascolinità e
femminilità. Io stessa ero un meccanismo inconsapevole di questo ingranaggio.
Con il tempo, iniziai a provare sempre più sfiducia verso gli uomini, mentre
cresceva una forte complicità con le donne che fece emergere la mia
omosessualità.
Mi sentii realizzata e credetti finalmente di aver trovato
una completezza interiore. Ne ero pienamente sicura! Ero certa che solo
un’altra donna potesse comprendermi e darmi quella protezione che io come donna
desideravo. Poco alla volta, però, iniziai a sentirmi svuotata. Quel vortice di
condivisione emotiva mi consumava. Se quella era la libertà, perché mi sentivo
morta? Oggi rispondo: perché venivo da una realtà mossa da interessi politici
ed economici che speculava sulla sofferenza dell’altro. Al minimo dubbio sulla
condizione omosessuale, mi sentivo rispondere: «Tu sei così, è la tua vera
natura, non fare domande inutili e vivi, la colpa è dell’altro che non sa
accettarti». Un vero inganno.
Ero un’anticlericale favorevole alla laicità della società,
finché qualcosa si mosse in me. Dopo tanto tempo, mi avvicinai alla fede.
Iniziai così un percorso cristiano nel quale incontrai figli di Dio che
accolsero la mia sofferenza e con i quali cercai di comprendere la verità della
mia identità alla luce dell’onestà intellettuale, scientifica e della dignità
umana, aiutata anche da alcuni psicoterapeuti. La presa di coscienza di quanto
fosse alterata la realtà femminista nella quale vivevo, mi permise di iniziare un
percorso che mi ha portato a riconnettermi con la mia identità di donna. Oggi
so che la mia omosessualità è stata la conseguenza di un modo di percepire
falsamente la mia identità, secondo una realtà artificiale nella quale
mascolinità e femminilità assumono caratteri indistinti, liquidi, sostituibili
e ribaltabili. Mi sono sposata e al mio fianco cammina un uomo integro nella
sua mascolinità. È nella verità della propria identità che risiede la
libertà.
Fonte: visto su BASTA BUGIE del 4 ottobre 2013
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