Novembre 2, 2013 Luigi Amicone
La giustizia da vent’anni a questa parte agisce in un quadro
“tecnicamente politico”, a prescindere dalla buona o cattiva fede del singolo
magistrato
Caso
Scaglia&C. Perché amministratori di una grande azienda quotata in
Borsa che dà lavoro a migliaia di italiani, un bel giorno vengono presi,
buttati tra i reprobi e, dopo anni di massacro delle loro vite private, gogna
pubblica e carcere preventivo, escono completamente assolti “per non aver
commesso il fatto”? Perché è quello che capita a tanti innocenti – manager,
politici, comuni cittadini – nel paese della “Costituzione più bella del
mondo”. Capita da un ventennio a questa parte. E continuerà a capitare.
Se, come i referendum radicali fanno finalmente presagire,
non si troverà una riforma della giustizia che preveda almeno la responsabilità
civile dei magistrati, la riforma del Csm, la separazione delle loro carriere
(anche da quelle dei giornalisti).
Ma perché la riforma della giustizia non è ancora stata
fatta? Semplice: perché fino a oggi hanno comandato i magistrati.
Perché il parlamento e la politica sono stati ricattati da
un potere giudiziario “democratico”, sostenuto da giornalisti “democratici”.
E
perché giornali “democratici” hanno campato di scoop giudiziari.
Infine, perché la politica del Pci-Pds-Ds-Pd è stata
subalterna ai magistrati e ai giornalisti “democratici” che hanno riempito le
file parlamentari del Pci-Pds-Ds-Pd o comunque sono stati alleati nella guerra
dei vent’anni: contro la Dc e Bettino Craxi prima, contro il centrodestra e
Silvio Berlusconi poi.
Ma come è potuto accadere che un paese occidentale, membro
dell’Ue, sprofondasse nella sentina dei paesi “canaglia” in fatto di
ordinamento giudiziario e, soprattutto, penitenziario?
Non è una
digressione, è che agli italiani che nel referendum dell’8 novembre 1987
avevano risposto con una maggioranza schiacciante (oltre l’80 per cento) di
“sì” al quesito proposto da radicali, liberali e socialisti sulla
responsabilità civile dei magistrati (che oggi esige anche la Ue), la politica
di fine anni Ottanta (egemonizzata dalla sinistra Dc e dalla solita Repubblica,
il famoso e debenedettiano “partito degli onesti”) rispose con due
provvedimenti.
Il primo, del 13 aprile 1988, fu un atto legislativo in tema di
“Risarcimento dei danni e responsabilità civile dei magistrati”, noto come
“legge Vassalli”. Il secondo, fu il varo di un nuovo Codice di procedura
penale, emanato con decreto presidenziale il 22 settembre 1988.
Quanto alle legge Vassalli. Il paradosso di questa legge
(che tra l’altro fa ricadere sullo Stato, cioè sugli stessi cittadini
contribuenti, l’onere dei risarcimenti alle vittime di malagiustizia) è che in
venticinque anni, su 406 cause avviate e soltanto 34 dichiarate ammissibili,
registra a oggi appena 4 condanne! Come si spiega questo record?
Il professore
emerito di ordinamento giudiziario Giuseppe Di Federico lo spiega così: «È
forse l’unico caso al mondo in cui un giudizio, affidato peraltro ad
appartenenti alla medesima categoria, deve passare per nove gradi. Tre per
l’ammissibilità del procedimento, tre per individuare la responsabilità del
singolo magistrato, e tre per l’eventuale rivalsa da parte del ministero della
Giustizia».
Non bastasse ciò, è dal 13 giugno 2006 che la Corte europea
di giustizia ribadisce la sua condanna alla “Vassalli”, ritenendo incompatibile
col diritto comunitario la limitazione della responsabilità ai soli casi di
«dolo o di colpa grave» del giudice (come prevede l’attuale legge) e
richiedendo all’Italia norme che sanzionino la responsabilità del magistrato
anche quando abbia commesso una «violazione manifesta del diritto vigente».
Il Csm controllato dai controllati
Dunque, punto primo, i magistrati hanno avuto e hanno il
potere di fare il bello e il cattivo tempo in Italia, perché è l’unica
categoria di italiani che non risponde dei loro atti, anche nell’eventualità
che essi siano illeciti, illegittimi e rechino danno a cittadini singoli o
all’intera collettività.
Punto secondo. Perché l’azione dei magistrati è di fatto
discrezionale anche se la Costituzione prescrive l’obbligatorietà dell’azione
penale? Perché i magistrati possono aprire e riaprire inchieste fotocopia su
casi passati in giudicato, ottenere prolungamenti dei tempi di inchiesta e
provvedimenti di carcerazione preventiva abnormi, sebbene i codici vietino
queste pratiche? Perché possono inventarsi reati non previsti nei codici, tipo
“ideatore di frode fiscale” (caso Berlusconi-Mediaset) o “trattativa
Stato-mafia” (caso Mori-Mancino-eccetera)?
Perché possono permettersi di investire addirittura il presidente
della Repubblica (caso Procura di Palermo-Napolitano) della richiesta
di rispondere in sede di processo penale, quando la Costituzione è chiara nel
dire che «Il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per
attentato alla Costituzione», eventualità queste ultime, che per altro esulano
dal potere giudiziario, giacché, dice la Costituzione, in questi casi il
presidente «è messo in stato di accusa dal Parlamento»? Semplice, i magistrati
possono fare queste e tante altre cose ancora: perché non rispondono dei loro
atti; perché il Consiglio superiore della magistratura che “governa” la
magistratura è governato a maggioranza dagli eletti dei sindacati della
magistratura. I quali, per definizione, essendo l’espressione sindacale di un
potere corporativo, ovviamente difendono i membri della propria corporazione.
Lo strapotere dei pm
Siccome vige l’obbligo di iscrivere “immediatamente”
qualunque notizia di reato nel registro custodito dal pubblico ministero e
siccome la fase delle indagini è competenza esclusiva del pm, il quale assume
un profilo “politico” nel dirigere organi di polizia giudiziaria (Carabinieri,
Polizia, Gdf) che sono alle dipendenze di governo e parlamento, è un fatto che
fin dalla loro scaturigine le indagini possono facilmente risolversi in una
manomissione della giustizia.
Infatti, i pm possono accordarsi con se stessi o
con elementi di polizia alle loro dipendenze (autoproducendosi una “notitia
criminis” con una lettera anonima), con amici giornalisti (passando loro uno
“spiffero” che pubblicato diventerà “notizia di reato”), con i politici amici
(registrando una loro denuncia) e quant’altri. Inoltre, il pm può “insabbiare”
un’inchiesta (come suppone l’esposto di Gabriele Albertini al Csm per il caso
Penati-Gavio-Provincia di Milano).
A questa condizione di strapotere dei pm si aggiunga che i
provvedimenti giudiziari passano al vaglio di giudici che non soltanto fanno
parte dello stesso ordine togato, ma stanno negli uffici accanto a quelli dei
pm e hanno funzioni intercambiabili rispetto ai pm, poiché un pubblico
ministero durante la carriera può diventare giudice e viceversa. In quante
occasioni si è notato che il rinvio a giudizio del Gup o la carcerazione
preventiva concessa dal Gip non sono altro che copia-incolla delle richieste
del pm?
Ora, se misceliamo tutto ciò con il venir meno delle
garanzie per gli indagati (abolizione dell’immunità parlamentare, gogna sui
giornali fin dalla fase inquirente, impossibilità di difendersi da atti di
inchiesta, come perquisizioni e intercettazioni, talora studiati in funzione
del loro utilizzo mediatico prima e fuori dal processo), si completa il quadro
di una giustizia che, come ha scritto su queste pagine il giudice Guido
Brambilla, da vent’anni a questa parte agisce in quadro “tecnicamente
politico”, a prescindere dalla buona o cattiva fede del singolo magistrato.
Fonte: visto su TEMPI del
2 novembr e2013
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